Responsabilità professionale del medico. Onere della prova sul sanitario. Principio di prossimità della prova. Non incidenza in materia della Riforma Balduzzi.

Il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento. Infatti, nell’obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. Pertanto in queste obbligazioni in cui l’oggetto è la stessa attività, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione, cosicché può senza dubbio ritenersi che la prova sia più “vicina” a chi ha eseguito la prestazione piuttosto che al paziente che l’ha ricevuta; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto e che quindi è esigibile che sia quest’ultimo a dimostrare. Tale conclusione non è stata modificata dall’intervento della Legge Balduzzi, la responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’articolo 3 Legge n. 189/12 – essendo da qualificarsi come contrattuale.

Tribunale Ravenna, 02 Maggio 2018. Est. Farolfi, R.G.365/2015

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

TRIBUNALE ORDINARIO di RAVENNA

SEZIONE CIVILE

 

Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Alessandro Farolfi, ha pronunciato la seguente

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione ritualmente notificato, la sig.ra T. R. ha evocato in giudizio il dott. B. M. e M. C. Hospital s.p.a. (già S. P. D. Hospital s.p.a.), chiedendone la condanna solidale al risarcimento dei danni subiti a seguito dell’operazione chirurgica correttiva subita al piede dx per alluce valgo + dito “a martello” nell’aprile 2006 che, invece di eliminare un leggero indolenzimento al piede, causava conseguenze invalidanti ed ingravescenti cui seguivano ulteriori ricoveri ed interventi, con grave deterioramento della vita dell’attrice ed un danno permanente del 9%, un lungo periodo di inabilità temporanea, lesione della sua capacità lavorativa specifica di badante e necessità di ricorrere a personale a pagamento per l’assistenza al marito, deceduto nel 2008.

Si è costituito il dott. B., contestando integralmente la domanda attorea, rilevando che lo stesso era stato chiamato in mediazione e quindi evocato in giudizio ad otto anni da un intervento senza che l’attrice si fosse più ripresentata a controlli, dopo le due visite iniziali post operatorie; rilevava altresì la prescrizione della domanda attorea, avendo l’attrice concluso un contratto con l’allora Casa di Cura S. P. D. e configurandosi la responsabilità del medico convenuto a titolo extracontrattuale, ex art. 3 L. Balduzzi, ed in ogni caso l’assenza di nesso causale e di responsabilità. Il convenuto domandava, conseguentemente, il rigetto delle domande attoree e la chiamata in causa della propria compagnia assicurativa.

Si è altresì costituita la casa di cura privata M. C. Hospital S.p.a., rilevando la presenza di consenso all’atto medico da parte dell’attrice che peraltro era onere del medico acquisire nell’ambito del rapporto libero-professionale instaurato con quest’ultimo, nonché l’assenza di qualunque responsabilità della struttura. La convenuta concludeva per il rigetto delle domande attoree e per la chiamata in causa del medico già convenuto, per essere da questi tenuta indenne e manlevata di qualunque conseguenza negativa, nonché delle proprie compagnie assicuratrici.

Disposta la integrazione del contraddittorio, si è costituita la compagnia A. Assicurazioni s.p.a. associandosi alle difese della casa di cura ed eccependo l’esistenza di un massimale “a consumo” e la presenza di coassicurazione, rilevando che la stessa potrebbe al più rispondere sino all’importo di Euro 500.000 per tutti i sinistri verificatisi fra il 31/12/2003 e 31/12/2008 e solo in secondo rischio (ossia solo per l’eccedenza rispetto a quanto garantito dalla polizza personale) per i medici non dipendenti dalla casa di cura, quale era il dott. M. B., con una franchigia di 750.000 Euro.

Si è così costituita anche la G. I. s.p.a. contestando l’an ed il quantum della domanda attorea e l’estraneità della casa di cura dalla causazione del danno, eccependo l’esistenza di coassicurazione che per la terza chiamata corrisponde ad un 10% del massimale a consumo di Euro 1.000.000 (importo massimo risarcibile di Euro 100.000), e solo in secondo rischio (ossia solo per l’eccedenza rispetto a quanto garantito dalla polizza personale) per i medici non dipendenti dalla casa di cura, quale era il dott. M. B., con una franchigia di 750.000 Euro.

Si è infine costituita anche A. M. s.p.a., compagnia assicurativa del medico convenuto dott. B., aderendo alle difese di quest’ultimo e contestando che la polizza opera soltanto in secondo rischio, oltre il massimale assicurato dall’ente ovvero, in mancanza di copertura assicurativa dell’ente (pubblico o privato) per la sola ipotesi di insolvenza dello stesso, nonché l’inoperatività della garanzia rispetto alla domanda di rivalsa svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario e, in ogni caso, l’inoperatività della polizza per la mancata comunicazione delle richieste risarcitorie già pervenute al momento di accensione del rapporto assicurativo e l’assenza di copertura quanto all’eventuale ipotesi di carenza di consenso informato.

In corso di causa, dopo la concessione dei termini di cui all’art. 183 co. 6 c.p.c., è stata espletata una CTU medico legale (dep. 24/04/2017 da parte del dott. B.).

La causa è stata infine trattenuta in decisione da questo Giudice all’udienza del 13/12/2017, previa concessione di termini per conclusionali e repliche.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

La domanda risarcitoria di parte attrice appare fondata, per quanto di ragione, e deve essere accolta alla luce e nei limiti delle seguenti considerazioni.

La C.T.U. espletata in corso di causa, eseguita con corretta metodologia e nel pieno rispetto del contraddittorio, dopo ampia ricostruzione dei dati anamnestici e della “storia” sanitaria della paziente (vds. p. 5 e ss.) ha portato ad evidenziare, mediante argomentazioni scevre da vizi logici e basate sul consulto di altro sanitario specialistico, che l’intervento chirurgico poteva apparire giustificato quale scelta terapeutica e che, tuttavia “sono emerse delle criticità nella materiale esecuzione dello stesso” (p. 22), con una evoluzione post chirurgica espressamente definita come “negativa” (p. 23) e “intimamente correlata ad un inserimento inadeguato dei cerchiaggi, alias errore tecnico” ed ancora la sussistenza di nesso causale “in altri e più precisi termini, la coerente analisi dei dati tecnici a disposizione permette di rilevare come alle avversità (altrimenti evitabili) sopra citate abbia efficientemente concorso una incongrua esecuzione dell’intervento da parte del dott. M. B., rilavando altresì una carenza di valida continuità assistenziale post operatoria. Conclude sul punto il CTU, in modo convincente, che “l’erronea condotta del dott. M. B. si pone come antecedente causale giuridicamente rilevante nel determinismo del successivo e travagliato iter clinico della sig.ra T. R.” (p. 24). Aggiunge il CTU che “seguendo un continuum fenomenologico del tutto coerente, a distanza di circa 2 anni dal duplice e ravvicinato intervento chirurgico la paziente pativa una alterazione anatomo-funzionale dei nervi plantari con sviluppo dei neuromi di Morton al 1° spazio ed al 1° raggio metatarsale, di per sé responsabili di un (ulteriore) 3° intervento per la loro rimozione”.

Il CTU ha risposto in modo coerente alle osservazioni mosse dai CTP di parte, non risultando perciò necessaria la sua chiamata a chiarimenti né, tanto meno, una rinnovazione delle operazioni peritali (vds. p. 26 e ss. dell’elaborato).

Ritiene invece lo scrivente magistrato che il consenso della paziente sia stato reso con modalità sufficientemente informate, tenuto conto che esiste modulo di raccolta del consenso che evidenzia i principali rischi e che, soprattutto, il tenore dell’informazione non può spingersi a descrivere rischi improbabili o esiti infausti di per sé discendenti da una scorretta esecuzione dell’atto sanitario, posto che altrimenti dovrebbe accogliersi un inammissibile ragionamento tautologico per cui ogni volta in cui sia ravvisabile una condotta in qualche misura negligente nell’esecuzione della terapia o dell’intervento chirurgico dovrebbe necessariamente ravvisarsi, al contempo, una omissione informativa. Il che evidentemente non è. Giova aggiungere che la scelta chirurgica in sé non è stata oggetto di critica da parte del CTU, sì che neppure può sostenersi che il paziente avrebbe potuto alternativamente percorrere misure conservative e che, ancora, l’esecuzione dell’intervento è stata preceduta – per quanto affermato dalla stessa attrice – dall’esecuzione nel marzo del 2006 di esame radiografico e da un’ulteriore visita a seguito del quale la paziente è stata certamente informata delle condizioni di salute in cui versava e della necessità dell’intervento e delle sue almeno indicative modalità di esecuzione e rischi. La circostanza che la scelta chirurgica sia poi stata condivisa dal CTU come appropriata al caso (seppure non correttamente eseguita) toglie pregio all’argomento secondo cui una più approfondita informazione avrebbe consentito alla paziente di scegliere altro trattamento terapico.

Pur con tale precisazione, deve perciò ritenersi la sussistenza dell’an debeatur della responsabilità di entrambi i convenuti, in ragione della responsabilità contrattuale su di essi gravante e sul conseguente onere della prova liberatoria dai medesimi non fornito. Tale conclusione di ordine probatorio è stata applicata al campo sanitario dalla nota ed ancora attuale Cass. 28.5.2004, n. 10297, ritenendo che deve affermarsi che il paziente che agisce in giudizio deducendo l’inesatto adempimento dell’obbligazione sanitaria deve provare il contratto e allegare l’inadempimento del sanitario restando a carico del debitore l’onere di provare l’esatto adempimento: «Più precisamente, consistendo l’obbligazione professionale in un’obbligazione di mezzi, il paziente dovrà provare l’esistenza del contratto e l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento, restando a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova che la prestazione professionale sia stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile. La distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione implicante la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà non rileva dunque più quale criterio di distribuzione dell’onere della prova, ma dovrà essere apprezzata per la valutazione del grado di diligenza e del corrispondente grado di colpa, restando comunque a carico del sanitario la prova che la prestazione era di particolare difficoltà». Secondo il S.C. porre a carico del sanitario o dell’ente ospedaliero la prova dell’esatto adempimento della prestazione medica soddisfa la linea evolutiva della giurisprudenza in tema di onere della prova fondata sul principio della vicinanza della prova, inteso come apprezzamento dell’effettiva possibilità per l’una o per l’altra parte di offrirla. Secondo i giudici infatti, nell’obbligazione di mezzi il mancato o inesatto risultato della prestazione non consiste nell’inadempimento, ma costituisce il danno consequenziale alla non diligente esecuzione della prestazione. Pertanto in queste obbligazioni in cui l’oggetto è la stessa attività, l’inadempimento coincide con il difetto di diligenza nell’esecuzione della prestazione, cosicché può senza dubbio ritenersi che la prova sia più “vicina” a chi ha eseguito la prestazione piuttosto che al paziente che l’ha ricevuta; tanto più che trattandosi di obbligazione professionale il difetto di diligenza consiste nell’inosservanza delle regole tecniche che governano il tipo di attività al quale il debitore è tenuto e che quindi è esigibile che sia quest’ultimo a dimostrare

In diritto, un tale principio ha ricevuto compiuto svolgimento e precisazione – anche per le case di cura private oltre che per i plessi sanitari pubblici – con la nota Cass. S.U. 11 gennaio 2008, n. 577, secondo cui “in tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto dell’onere probatorio, l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare il contratto (o il contatto sociale) e l’aggravamento della patologia o l’insorgenza di un’affezione ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato. Competerà al debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante”.

Tanto sulla scorta della seguente condivisibile premessa: “per quanto concerne la responsabilità della struttura sanitaria nei confronti del paziente è irrilevante che si tratti di una casa di cura privata o di un ospedale pubblico in quanto sostanzialmente equivalenti sono a livello normativo gli obblighi dei due tipi di strutture verso il fruitore dei servizi, ed anche nella giurisprudenza si riscontra una equiparazione completa della struttura privata a quella pubblica quanto al regime della responsabilità civile anche in considerazione del fatto che si tratta di violazioni che incidono sul bene della salute, tutelato quale diritto fondamentale dalla Costituzione, senza possibilità di limitazioni di responsabilità o differenze risarcitorie a seconda della diversa natura, pubblica o privata, della struttura sanitaria. Questa Corte ha costantemente inquadrato la responsabilità della struttura sanitaria nella responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale, ai fini del ricovero o di una visita ambulatoriale, comporta la conclusione di un contratto”.

Tale conclusione non è stata modificata, ad avviso dello scrivente, dall’intervento della Legge Balduzzi (mentre il caso non è assoggettabile alle ultime disposizioni della legge Gelli, di riforma della precedente normativa).

Infatti, il Tribunale di Milano, smentendo una interpretazione di detta normativa in chiave “extra contrattuale” ha correttamente ritenuto che: «la responsabilità del medico ospedaliero – anche dopo l’entrata in vigore dell’articolo 3 Legge n. 189/12 – è da qualificarsi come contrattuale … D’altra parte, la presunzione di consapevolezza che si vuole assista l’azione del Legislatore impone di ritenere che esso, ove avesse effettivamente inteso ricondurre una volta per tutte la responsabilità del medico ospedaliero (e figure affini) sotto il solo regime della responsabilità extracontrattuale escludendo così l’applicabilità della disciplina di cui all’articolo 1218 del codice civile, così cancellando lustri di elaborazione giurisprudenziale, avrebbe certamente impiegato proposizione univoca (come per esempio «la responsabilità dell’esercente la professione sanitaria per l’attività prestata quale dipendente o collaboratore di ospedali, cliniche e ambulatori è disciplinata dall’art. 2043 del codice civile») anziché il breve inciso in commento» (cfr. Trib. Milano n. 13574/2013). Anche altri giudici di merito hanno continuato ad interpretare in chiave contrattuale la responsabilità del sanitario (oltre a quella pacifica dell’ente ospedaliero): in particolare, Trib. Napoli 13.5.2015, Trib. Arezzo 14.2.2013 e Trib. Cremona 1.10.2013. In una delle prime pronunce, Trib. di Rovereto 29.12.2013, ha così affermato: «il legislatore non è intervenuto sulle fonti delle obbligazioni e, in particolare, sull’art. 1173 c.c. il quale individua non solo il contratto e l’atto illecito ma anche ogni atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico; anche le obbligazioni di fonte legale (e non solo quelle di fonte contrattuale) sono disciplinate dall’art. 1218 c.c. e, per effetto della legge istitutiva del servizio sanitario nazionale (legge n. 833 del 1978) è configurabile un rapporto obbligatorio di origine legale ogni qual volta un paziente si rivolga ad una qualche struttura sanitaria appartenente al servizio per ricevere le cure del caso, indipendentemente dalla conclusione di un contratto in senso tecnico».

Anche Trib. Bari 7.7.2015, ha aderito a questo orientamento, sostenendo che «non si può convenire con l’evoluzione giurisprudenziale seguita all’introduzione nel nostro ordinamento dell’art. 3 L. n. 189/2012 (c.d. Legge Balduzzi), che avrebbe ricondotto la responsabilità del medico nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, atteso che la norma citata deve intendersi riferita soltanto ai casi di colpa lieve dell’esercente la professione sanitaria che si sia attenuto a linee guida e buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica; ne consegue che, anche dopo l’entrata in vigore della c.d. Legge Balduzzi, la responsabilità del medico operante in una struttura sanitaria è da qualificarsi come contrattuale».

Tale posizione è stata accolta anche dalla giurisprudenza di legittimità: «l’articolo 3, comma 1, della Legge n. 189/2012, là dove omette di precisare in che termini si riferisca all’esercente la professione sanitaria e concerne nel suo primo inciso la responsabilità penale, comporta che la norma dell’inciso successivo, quando dice che resta comunque fermo l’obbligo di cui all’articolo 2043 c.c., poiché in lege aquilia et levissima culpa venit, vuole solo significare che il legislatore si è soltanto preoccupato di esclude-re l’irrilevanza della colpa lieve in ambito di responsabilità extracontrattuale, ma non ha inteso prendere alcuna posizione sulla qualificazione della responsabilità medica necessariamente come responsabilità di quella natura. La norma, dunque, non induce il superamento dell’orientamento tradizionale sulla responsabilità da contatto e sulle sue implicazioni» (Cass. n. 8940/2014).

Poiché, come detto, la legge Gelli non è applicabile alla fattispecie in esame, quanto precede appare sufficiente a rigettare l’eccezione di prescrizione avanzata dal dott. B. ed a fondare la responsabilità solidale di entrambi i convenuti. Diverso è, evidentemente il discorso per quanto riguarda la graduazione interna, posta la domanda di manleva svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario, domanda che deve essere accolta considerato che nessuna negligenza è risultata imputabile al più generale svolgimento della prestazione assistenziale da parte della casa di cura, dovendo ricondursi l’inadempimento ad un inesatto svolgimento della prestazione chirurgica da parte del solo dott. B., come sul punto ha chiarito lo stesso CTU.

 

II.

Passando alla liquidazione del danno risarcibile in favore dell’attrice occorre evidenziare come lo stesso CTU abbia ridimensionato le conseguenze risarcibili causalmente connesse a colpa medica nell’ordine del 4-5% di danno biologico (vds. conclusioni p. 38 ove distingue un quadro menomativo complessivo da quello causalmente collegato alla sola prestazione sanitaria qui contestata). Attese le specificità del caso si adotterà per il calcolo del danno risarcibile, al fine di determinare un completo e non parziale ristoro delle lesioni subite, la misura del 5%.

Il CTU ha invece escluso una diminuzione della capacità lavorativa specifica di badante, mentre in assenza di prova più specifica, il periodo di inabilità temporanea già risulta risarcibile in relazione ai seguenti periodi di compromissione temporanea dell’integrità psico-fisica:

60 gg. di ITP al 75%;

60 gg. di ITP al 50%;

60 gg. di ITP al 25%.

Spese documentate e rimborsabili in Euro 8.129,94 senza necessità di ricorrere a spese mediche future.

In relazione alla liquidazione in termini monetari del danno, viene poi in rilievo l’art. 3 co. 3 della già citata Legge Balduzzi, ove si afferma che:

“il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo”.

Poiché nella fattispecie in esame ci si muove nell’ambito delle c.d. micropermanenti, è pertanto all’apposito decreto ministeriale attuativo dell’art. 139 Codice Assicurazioni che occorre rifarsi e, in particolare, a quello più recente: il D.M. 17 luglio 2017.

Ne consegue che, avuto riguardo all’età della paziente al momento dell’intervento, applicato l’aumento del 20% per la personalizzazione connessa alle particolarità del caso ed alle specifiche sofferenze di ordine soggettivo emerse dalla lettura dei dati clinici prodotti in giudizio, utilizzato uno dei più diffusi software di calcolo si ottiene, con somme già rivalutate alla data di pubblicazione della presente decisione, sulla scorta degli accertamenti del CTU sopra richiamati, l’importo risarcibile di € 19.341,97. Tale somma deve essere gravata degli interessi legali dalla data di pubblicazione della presente decisione sino al soddisfo.

Nessun altro danno è stato provato o allegato in termini specifici e non apodittici.

Nessuna delle compagnie assicuratrici chiamate in giudizio è tenuta a rispondere in manleva: per quanto riguarda il medico dott. B., infatti, la polizza prodotta dalla A. M. contiene una espressa esclusione del c.d. primo rischio all’art. 16 nell’ipotesi in cui – come nella specie – vi sia una Casa di Cura solidalmente responsabile che non sia non insolvente; a sua volta, tuttavia, anche le polizze delle Compagnie assicuratrici chiamate in giudizio da M. C. Hospital s.p.a. sono limitate al c.d. “secondo rischio”, ciò che determina anche in questo caso l’assenza di copertura assicurativa.

Come detto, va invece accolta la domanda di manleva svolta dalla casa di cura nei confronti del sanitario pure convenuto.

Le spese legali seguono la soccombenza e gravano sui due convenuti. La complessità di analisi contrattuale e la particolarità della fattispecie, giustifica l’integrale compensazione delle spese quanto alle chiamate in causa. Le spese di CTU gravano in via definitiva sui convenuti, in via solidale.

 

P.Q.M.

Il Tribunale di Ravenna, in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nella causa R.G. 365/2015, ogni diversa istanza, domanda ed eccezione respinta,

dichiara tenuti e condanna, per i titoli in motivazione, il dott. B. M. e M. C. Hospital s.p.a. a risarcire all’attrice T. R. la somma di Euro 19.341,97 oltre interessi legali dalla pubblicazione della presente decisione al soddisfo;

dichiara tenuto e condanna il dott. M. B. a rifondere e tenere indenne M. C. Hospital s.p.a. di quanto eventualmente pagato all’attrice in dipendenza della condanna di cui al capo che precede;

dichiara tenuti e condanna i convenuti a rifondere a parte attrice le spese di lite, che liquida in complessivi Euro 5.621 (di cui Euro 786 per spese, Euro 4.835 per compensi), oltre spese generali, IVA e CPA come per legge, oltre al rimborso delle spese di CTU nella misura liquidata e provvisoriamente sostenuta in corso di causa;

compensa le spese quanto alle terze chiamate compagnie assicuratrici.

Responsabilità del notaio per omessa verifica di iscrizioni ipotecarie

Il notaio che, chiamato a stipulare un contratto di compravendita immobiliare, ometta di accertarsi dell’esistenza di iscrizioni ipotecarie e di pignoramenti sull’immobile, può essere condannato al risarcimento per equivalente commisurato, quanto al danno emergente, all’entità della somma complessivamente necessaria perché l’acquirente consegua la cancellazione del vincolo pregiudizievole, la cui determinazione deve essere rimessa al giudice di merito. (massima ufficiale)

Cassazione civile, sez. III, 15 Giugno 2018, n. 15761. Est. Antonella Di Florio

 

SENTENZA

Svolgimento del processo

  1. N.G. evocò in giudizio dinanzi al Tribunale di Taranto (sezione distaccata di Martina Franca) il notaio A. domandando che fosse dichiarata la sua responsabilità professionale per non essersi accertato della libertà da iscrizioni gravanti sul bene immobile da lei acquistato mediante suo rogito, e che fosse conseguentemente condannato al risarcimento del danno subito, quantificato nella somma che aveva dovuto pagare per onorare il residuo mutuo ed ottenere la cancellazione dell’ipoteca che era risultata ancora gravante sul bene.

Il Tribunale accolse parzialmente la domanda, dichiarando il notaio responsabile della negligenza professionale dedotta ma escludendo la condanna al risarcimento del danno nella misura richiesta.

  1. La Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, adita dalla R. per la riforma del capo della sentenza che aveva respinto la domanda risarcitoria, accolse l’appello incidentale del notaio escludendo del tutto che potesse riscontrarsi la responsabilità professionale riconosciuta dal primo giudice.
  2. N.G. ricorre per la cassazione della predetta sentenza, affidandosi a due motivi.

L’intimato ha resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale sulla statuita compensazione delle spese di lite.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

 

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo la ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1176, 2230, 2232, 1228, 1175, 2055 e 1476 c.c., n. 3, e art. 1483 c.c.: lamenta che la Corte territoriale aveva ritenuto che non rientrasse fra i doveri di diligenza professionale del notaio, nell’ambito delle attività preparatorie dell’atto da stipulare, la verifica della veridicità delle informazioni aliunde pervenute, ed assume che ai sensi dell’art. 1228 c.c., egli doveva ritenersi responsabile anche dell’attività delle figure ausiliare di cui si era avvalso.

1.1 Con il secondo motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1218, 1223, 1224, 115 e 116 c.p.c.: lamenta l’erronea valutazione delle prove con riferimento al “dovere di consiglio” cui il professionista era tenuto in relazione alle risultanze documentali e censura la sentenza, in relazione al rigetto dell’appello principale da lei proposto, assumendo che dalle emergenze istruttorie risultava chiaramente che per definire la pendenza debitoria del venditore, nel frattempo fallito, ed ottenere la cancellazione dell’ipoteca iscritta sul bene aveva dovuto pagare una ingente somma a favore della banca per l’estinzione del mutuo, circostanza che il notaio non aveva neanche contestato. Aggiunge, al riguardo, di aver fornito prova documentale dell’avvenuto pagamento del debito residuo e delle spese sostenute per l’eliminazione dell’iscrizione ipotecaria che costituivano, complessivamente, l’entità del risarcimento richiesto.

  1. I motivi devono essere congiuntamente esaminati e sono entrambi fondati. Questa Corte, con orientamento consolidato, ha affermato che “in tema di responsabilità professionale del notaio, qualora egli non adempia correttamente la propria prestazione, compresa quella attinente alle attività preparatorie (tra cui il compimento delle visure catastali ed ipotecarie), la responsabilità contrattuale sussiste nei confronti di tutte le parti dell’atto rogato, se da tale comportamento abbiano subito danni e purchè non lo abbiano esonerato da tali attività”. (cfr. Cass. 14865/2013; Cass. 12482/2017)); e che “il rapporto professionale che intercorre tra notaio e cliente si inquadra nello schema del mandato in virtù del quale il professionista è tenuto ad eseguire personalmente l’incarico assunto ed è pertanto responsabile ai sensi dell’art. 1228 c.c., dei sostituti ed ausiliari di cui si avvale, dei quali deve seguire personalmente lo svolgimento dell’opera, con conseguente sua responsabilità esclusiva nei confronti del cliente danneggiato” (cfr. in motivazione Cass. 20825/2009).

2.2 La Corte territoriale, nel riformare la sentenza del Tribunale, ha escluso la responsabilità professionale del notaio, assumendo:

a. che egli aveva fatto indagini sulla libertà da pesi dell’immobile, avendo ricevuto la missiva (a firma del notaio Migliori da Roma in data 2.12.1986), in cui si affermava essere intervenuto il consenso, da parte del Credito Fondiario Spa, alla cancellazione dell’ipoteca iscritta circa un anno prima (cfr. pag. 5 sentenza);

b. che nel contratto di vendita, rogitato il 17.7.1987, era stata inserita una dichiarazione del venditore che garantiva la piena proprietà del bene, la libertà da iscrizioni pesi ed oneri comunque pregiudizievoli, con la precisazione che “qualora se ne riscontrassero saranno cancellate a sua cura e spese”;

c. che infine, il “dovere di consiglio”, pur rappresentando il contenuto essenziale della prestazione professionale notarile, doveva ritenersi limitato a “questioni tecniche cioè problematiche che una persona non dotata di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire, ma non può essere dilatato fino al controllo di circostanze di fatto il cui accertamento rientra nella normale prudenza” (cfr. pag. 6 sentenza).

2.3. Con tali statuizioni i giudici d’appello hanno fatto scorretta applicazione dei principi sopra riportati, in quanto non risulta dimostrato (dal notaio onerato) che una verifica dell’effettiva cancellazione dell’ipoteca sia stata effettuata in tempi ravvicinati rispetto alla data del rogito in modo da avere certezza dell’effettiva libertà del bene; nè risulta che dell’eventuale esito negativo sia stato dato atto nel contratto di vendita con la segnalazione della persistenza dell’iscrizione ipotecaria, unica condizione che avrebbe realizzato validamente il trasferimento di responsabilità delle conseguenze pregiudizievoli del rogito sullo stesso acquirente in quanto egli, consapevole della condizione del bene, avrebbe potuto apprezzare il rischio dell’operazione negoziale con diretta ed esclusiva ascrivibilità dell’eventuale danno sul venditore (cfr. al riguardo Cass. 21792/2015).

Nè, in tale situazione, assume rilievo scriminante per il notaio l’avvenuto pagamento del prezzo prima del rogito perchè la richiesta risarcitoria è riferita alla somma aggiuntiva che la R. è stata costretta a pagare al fine di rendere l’immobile acquistato libero dall’iscrizione esistente; nè la circostanza può essere idonea a sollevare il professionista dal dovere di effettuare seriamente è tempestivamente tutte le attività preparatorie per le quali il cliente ripone nella sua funzione il massimo affidamento.

2.4. E, tanto premesso, anche la censura relativa alla violazione delle norme indicate nella rubrica del secondo motivo risulta fondata, in quanto il risarcimento richiesto è riferito ad un danno provato dalle emergenze istruttorie (fra cui la documentazione tempestivamente prodotta dalla ricorrente), non esaminate dalla Corte territoriale in ragione dell’accoglimento dell’appello incidentale del notaio.

  1. Il ricorso principale deve essere, dunque, accolto e quello incidentale rimane logicamente assorbito.

La sentenza deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Lecce in diversa composizione che dovrà riesaminare la controversia attenendosi ai seguenti principi di diritto: “Il notaio che, chiamato a stipulare un contratto di compravendita immobiliare, ometta di accertarsi dell’esistenza di iscrizioni ipotecarie pregiudizievoli sull’immobile, può essere condannato al risarcimento del danno consistente nel pagamento della somma complessivamente necessaria per la cancellazione del vincolo, la cui determinazione deve essere rimessa al giudice di merito”.

“L’attività preparatoria che rientra nei doveri di diligenza dell’attività notarile deve essere svolta in tempi utili a garantire la corrispondenza dell’esito delle ricerche effettuate con le condizioni del bene che vengono descritte nell’atto, sia in ragione della necessità di assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici di esso, sia in funzione della realizzazione sostanziale della funzione di pubblico ufficiale”.

La Corte di rinvio deciderà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia per un nuovo esame della controversia alla CA di Lecce in diversa composizione anche per la decisione sulla spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2018.

 

 

Le molteplici responsabilità del Geometra

Come per ogni categoria di liberi professionisti, anche per quella dei Geometri l’ordinamento giuridico ha previsto una stringente disciplina delle responsabilità che investe sia l’ambito civilistico che deontologico della professione, sino a lambire l’aspetto penalistico.

Tali rigorose previsioni normative sono giustificate dal contatto del professionista con la committenza, per lo più costituita da soggetti sprovvisti di competenze tecniche che si rivolgono al Geometra affidandosi totalmente alla sua diligenza, preparazione e perizia.

Il Codice Civile, al fine di tutelare questi soggetti (alias, i committenti), ritenuti presuntivamente le parti deboli del contratto, ha disciplinato, all’art. 2230 c.c., la relazione tra il professionista e il suo cliente, configurandola come un contratto d’opera intellettuale, regolamentato dagli articoli 2229 e ss. c.c., nonché dalle norme di cui agli articoli 2222 e ss. c.c. in quanto compatibili.

La rilevanza pubblicistica delle professioni intellettuali è evidenziata dal fatto che la legge prevede un esame di stato il cui superamento è prodromico all’esercizio della professione ed individua quelle professioni per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione ad un Albo professionale (ai sensi dell’art. 2229 c.c.).

Più concretamente, basti pensare che, secondo quanto previsto dall’art. 2231 c.c., in assenza della regolare iscrizione del geometra all’Albo previsto dalla legge, il professionista non potrà esigere il pagamento del compenso.

Diversamente, l’eventuale cancellazione del professionista dall’Albo, che sia intervenuta durante lo svolgimento del contratto, comporta la risoluzione del medesimo e la remunerazione del professionista in proporzione solo all’utilità del lavoro compiuto.

A rimarcare la rilevanza che l’ordinamento ricollega all’iscrizione all’Albo, per la tutela sia dell’affidamento dei committenti che del decoro della categoria professionale, si sottolinea che la mancata iscrizione all’Albo comporta anche la responsabilità penale per esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p.

In sintesi, dunque, per comprendere la responsabilità – meglio sarebbe dire, le responsabilità – del Geometra, si deve premettere che il rapporto che lo lega al cliente è un contratto d’opera (art. 2222 c.c.), che si realizza quando il professionista si obbliga a compiere, a fronte di un corrispettivo, un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente.

Il professionista, quindi, al contrario del lavoratore subordinato, svolge la prestazione richiesta in piena autonomia, secondo la propria indipendenza di giudizio e mirando alla realizzazione delle esigenze del committente.

Conseguenza di una simile autodeterminazione è che il Geometra incaricato, in quanto libero professionista e lavoratore autonomo, risponde personalmente e direttamente della propria attività.

Da ciò discende il dovere di curare scrupolosamente la propria preparazione, tenendosi aggiornato, al fine di fornire una prestazione esatta non solo dal punto di vista della diligenza ma anche da quello della perizia.

In altri termini, l’ordinamento non ammette carenze nella preparazione tecnica del professionista e non tollera disattenzioni in merito alla specifica diligenza richiesta.

Ma vi è di più. Nel contratto di prestazione di opera intellettuale stipulato con un committente privato, la scelta del Geometra si basa sul cd. intuitus personae, vale a dire sulla “fiducia” strettamente personale, che il primo ripone nella persona fisica del professionista.

Questo non implica che il professionista non possa avvalersi del supporto di altri soggetti – la legge prevede infatti espressamente che tale collaborazione sia possibile e consentita, salvo diverse disposizioni del contratto o degli usi e qualora non sia incompatibile con l’oggetto della professione (art. 2232 c.c.) – ma soltanto che anche l’attività dei sostituti e degli ausiliari sarà sottoposta alla direzione e responsabilità del Geometra incaricato.

Pertanto, il professionista ha il dovere non solo di curare scrupolosamente la propria preparazione, ma anche di scegliere responsabilmente i soggetti che lo assistono nell’attività commissionatagli.

***

Alla luce delle numerose competenze proprie del Geometra secondo la Legge professionale (R.D. 11 febbraio 1929, n. 274, art. 16, nonché degli altri ruoli che possono essere rivestiti dal Geometra  moderno (a titolo esemplificativo, quelli discendenti dalla normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, ex D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) nonché del fatto che l’opera del professionista tecnico concerne necessariamente interessi pubblici (basti pensare all’interesse inerente la sicurezza di un fabbricato o a quello inerente la sicurezza del posto di lavoro), è naturale che il Geometra rischi di incorrere in responsabilità di varia natura.

In estrema sintesi, la responsabilità del geometra (come quella di ogni professionista tecnico) può essere: civile; amministrativa; penale; disciplinare.

Tra tutte, quella contro la quale il professionista tecnico può impattare più facilmente è la responsabilità civile, di seguito sintetizzata.

Innanzitutto, occorre premettere che la giurisprudenza è solita suddividere le obbligazioni – ossia il rapporto giuridico in base al quale una parte, il cd. debitore, è tenuta ad una prestazione, suscettibile di valutazione economica, nei confronti di un’altra parte, cd. creditore – in:

  • obbligazioni di mezzi, in cui il debitore è tenuto a svolgere diligentemente la propria prestazione indipendentemente dal raggiungimento dello scopo prefissato dal creditore;
  • obbligazioni di risultato, in cui il debitore è tenuto alla realizzazione dello scopo perseguito dal creditore.

La Giurisprudenza in materia riconduce l’obbligazione del professionista nella categoria delle obbligazioni di mezzi: vale a dire, il cliente non potrà pretendere che il professionista ottenga il risultato ma potrà esigere che egli adotti la diligenza che la singola fattispecie richieda usando tutto il proprio bagaglio d’esperienza e cognizioni onde tentare di risolvere al meglio il problema.

Alla luce di ciò, si comprende come l’obbligazione di mezzi venga definita anche “obbligazione di diligenza”.

Il professionista sarà, dunque, considerato in colpa quando, nell’espletamento della propria prestazione, ometta la necessaria diligenza e, dunque, quell’insieme di doverose cautele che dovrebbero caratterizzare il suo comportamento in relazione alla natura del singolo rapporto ed alle circostanze di fatto che lo caratterizzano.

Per quanto riguarda le obbligazioni relative all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza del professionista deve valutarsi a norma dell’art. 1176, secondo comma, che disciplina la cd. diligenza qualificata, che ha specifico riguardo alla natura dell’attività espletata, e in virtù della quale il professionista risponde anche per colpa lieve.

Di contro, se la prestazione implica la soluzione di problemi di speciale difficoltà, il professionista non risponde dei danni se non per dolo o colpa grave (art. 2236 c.c.).

In assenza di una interpretazione univoca della locuzione “problemi di speciale difficoltà”, vengono generalmente presi in considerazione sia l’impegno intellettualmente richiesto – che deve essere superiore a quello del professionista medio – sia la natura della prestazione stessa.

Tuttavia, la Giurisprudenza tende ad applicare questa norma (art. 2236 c.c.) in via residuale e solo ai casi di imperizia, non anche a quelli di negligenza e imprudenza, per contemperare l’attenuazione della normale responsabilità in capo al professionista che nelle fattispecie di cui all’art. 2236 c.c. è tenuto al risarcimento del danno unicamente per dolo o colpa grave.

A ben vedere, in ogni caso, gli artt. 1176, secondo comma, e 2236 c.c. esprimono un concetto unitario in base al quale il grado di diligenza deve essere valutato con riguardo alla difficoltà della prestazione effettuata e la colpa del professionista consiste nell’inosservanza della diligenza richiesta nel caso di specie.

In definitiva, il professionista risponde del proprio inadempimento:

  • anche per colpa lieve, qualora non abbia espletato, con la dovuta diligenza, la prestazione, pur trovandosi di fronte ad un caso ordinario;
  • solo per colpa grave o dolo, qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e quindi quando l’esecuzione della prestazione richieda una perizia superiore a quella ordinaria della categoria.

La nozione di colpa grave in campo professionale comprende, a mero titolo esemplificativo:

  • ignoranze incompatibili con il grado di preparazione che una certa professione richieda;
  • ogni imprudenza che dimostri grave superficialità per i beni primari che il cliente affida alle cure del professionista.

La responsabilità per colpa deriva dunque da:

  • negligenza, ossia incuria o disattenzione;
  • imperizia, ossia da ignoranza di cognizioni tecniche od inesperienza professionale;
  • imprudenza, ossia assenza della doverosa e preventiva riflessione;
  • inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

Fermo quanto sopra, va anche detto che la posizione della Giurisprudenza circa l’inserimento dell’obbligazione del professionista tecnico nelle obbligazioni di mezzi ovvero in quelle di risultato non è univoca.

Contrariamente alle professioni “classiche”, la difficoltà di inquadrare l’obbligazione del professionista “tecnico” nella categoria delle obbligazioni di mezzi derivava dal fatto che, molto più che nelle altre professioni, nella prestazione del professionista tecnico v’è una sostanziale coincidenza tra la prestazione ed il risultato voluto dal committente (l’opera).

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha stabilito che, indipendentemente dal fatto che l’obbligazione del professionista tecnico sia considerata obbligazione di mezzi ovvero di risultato, il regime di responsabilità risulta essere sempre il medesimo per cui l’inadempimento, oltre che totale o dovuto a incuria o disattenzione, consiste generalmente nell’imperizia, ossia nell’errore determinato da ignoranza di cognizioni tecniche o da inesperienza professionale, sia quando il professionista risponde solo per dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c., sia quando – secondo le regole comuni – deve rispondere anche di colpa ex art. 1176, comma 2, c.c. (Cass. civ., sez. un., 28 luglio 2005, n. 15782).

In conclusione, si precisa anche che, in presenza di responsabilità contrattuale, dunque per inadempimento, sul creditore – in questo caso il committente – graverà l’onere di provare l’esistenza del contratto e di dedurre l’inadempimento del professionista, mentre sul debitore – il professionista – graverà l’onere di provare che l’inadempimento è conseguito ad un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (ex art. 1218 c.c.).

La solitaria e pervasiva responsabilità del CTU

Sembra ormai consolidato il principio di responsabilità dei professionisti, chiamati con sempre maggior frequenza a rispondere del proprio operato e della esatta esecuzione della prestazione richiesta.

A tal proposito merita un’attenzione specifica la figura del professionista-consulente tecnico d’ufficio (CTU) (nominato dal giudice ex art. 61, co. 1 c.p.c.) e la particolare attività di supporto che egli svolge nell’ambito della giustizia, dove non si può più prescindere dagli essenziali contributi scientifici di consulenti con determinate competenze tecniche.

Infatti, l’esito pratico di molte cause è legato all’andamento ed alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio. Pertanto, il corretto adempimento del mandato giurisdizionale affidato al CTU – che di solito si concreta nella redazione della relazione peritale – forma spesso oggetto di attenta valutazione da parte degli operatori del processo.

Il consulente tecnico d’ufficio svolge il ruolo di ausiliario del giudice in un rapporto fiduciario, qualora si renda necessaria una particolare conoscenza tecnica, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo. Il giudice, infatti, per dipanare le infinite questioni tecniche che i casi giudiziari gli sottopongono ha necessità di avvalersi di qualcuno (un esperto) che gli fornisca la regola (tecnica) di giudizio (da sé non conoscibile), in base alla quale valutare poi i fatti accertati secondo diritto.

Poiché questa è la funzione del CTU nel processo, egli è stato definito l’ “occhiale” del giudice.

Ma proprio perché egli riveste la somma e delicata funzione appena descritta, il CTU è esposto a diversi profili di responsabilità nell’adempimento del proprio mandato giurisdizionale. In particolare, la violazione da parte del CTU dei compiti assegnati dal Giudice o l’inesatta esecuzione dell’incarico conferito comportano l’incombenza di almeno tre fattispecie di responsabilità: la responsabilità disciplinare, quella penale e quella civile.

 

Su quest’ultima (spesso, la più insidiosa) intendiamo attirare l’attenzione del lettore. Si tratta della responsabilità che obbliga il CTU a risarcire i danni arrecati alle parti a causa della propria condotta, regolata dall’art. 64 cod. proc. civ. e dagli artt. 1218, 1176, 2043 e segg. cod. civ.

In particolare, si abbia chiaro da subito che la norma in oggetto (art. 64, co. 2 c.p.c.) prescrive che il CTU sia tenuto in ogni caso a risarcire i danni causati alle parti nell’esecuzione dell’incarico ricevuto.

Con riguardo alla natura della responsabilità, ancorché vi sia in argomento una contrastata lettura delle norme, si ritiene di poter affermare che trattasi di responsabilità di natura extracontrattuale.

Ciò premesso, l’analisi si sposta su tre punti focali da approfondire: a) il grado di colpa necessario a far rilevare la responsabilità civile del CTU; b) se sia applicabile la limitazione di responsabilità ex art. 2236 c.c.; c) quali siano i danni risarcibili.

 

  1. A) Difatti, “non intercorrendo alcun rapporto contrattuale tra la parte ed il Consulente Tecnico d’Ufficio, a carico di quest’ultimo può ipotizzarsi unicamente una responsabilità di natura extracontrattuale, a norma dell’art. 64 cpc, sicché alla parte incombe l’onere di provare: 1)la condotta dolosa o gravemente colposa del CTU; 2)il danno ingiusto; 3) il nesso causale tra l’operato del CTU ed il lamentato danno” (si vedano: Tribunale di Modena n. 1672/2012, ma anche Cass. Civ 11471/92 che ha qualificato la responsabilità ex art. 64 c.p.c. come “responsabilità aquiliana da fatto illecito del consulente”).

Tuttavia, il CTU – stando alla lettera dell’art. 64 co. 2 c.p.c. – sembra rispondere civilmente dei danni causati nell’esercizio della sua attività anche per colpa lieve, prevista non solo dall’art. 2043 c.c., ma anche dall’art. 64 secondo comma c.p.c. che stabilisce: “il consulente tecnico è in ogni caso tenuto a risarcire i danni causati alle parti dall’esecuzione dell’incarico ricevuto”.

Pertanto, per intenderci, la responsabilità dell’ausiliario non è limitata alle sole ipotesi di falsa perizia, né agli illeciti commessi con dolo o colpa grave, ma può discendere da qualsiasi condotta illecita del CTU, e quale che sia l’elemento soggettivo di essa (dolo, colpa grave, colpa lieve). Ciò sulla scorta del fatto che il dato normativo espressamente stabilisce che il consulente è tenuto al risarcimento del danno causato alle parti “in ogni caso”.

Tra le più frequenti fattispecie di danno conseguenti alla condotta del consulente tecnico di ufficio possono annoverarsi:

– il rifiuto o ritardo del deposito della relazione senza giustificato motivo;

– la soccombenza di una delle parti. Il CTU che redige una relazione viziata da grossolani errori materiali e di concetto che viene a costituire il presupposto della decisione del magistrato (può essere, per esempio, una conseguenza dell’aver assunto l’incarico senza avere l’adeguata specializzazione nel settore oggetto della consulenza richiesta).

– le spese sostenute da una parte per ottemperare a un provvedimento del giudice basato su una consulenza rivelatasi errata;

– le spese sostenute da una parte per dimostrare l’erroneità delle conclusioni a cui perviene la consulenza;

– il corrispettivo percepito dal consulente per una prestazione rivelatasi inutile (il Ctu che redige una relazione palesemente incompleta – e quindi inutile – che impone la rinnovazione della consulenza. In questi casi le parti possono legittimamente richiedere dal Ctu il compenso percepito).

– la perdita della cosa controversa e dei documenti (Ctu che smarrisce documenti originali e non più riproducibili contenuti nei fascicoli di parte);

– l’omissione nell’eseguire accertamenti irripetibili;

– la sostituzione del Ctu e di rinnovo della consulenza dovute ad imperizia.

 

  1. B) Il secondo approfondimento reca verso la non condivisibilità della tesi che vorrebbe applicabile alla responsabilità civile del CTU la limitazione di cui all’art. 2236 c.c., vale a dire la sua esclusione nelle ipotesi di incarichi di particolare complessità.

Infatti, assumere che il CTU possa essere oggetto di una agevole esclusione di responsabilità appare in netta incongruenza con il dato normativo, raramente così chiaro e forte, laddove all’art. 64, co. 2 c.p.c. si afferma che il CTU è tenuto al risarcimento del danno procurato alle parti in ogni caso.

Senza dire che la norma in esame (art. 2236 c.c.) è norma eccezionale del sistema, senza possibilità di interpretazione estensiva o applicazione analogica e che essa è specifica del rapporto tra committente e prestatore d’opera intellettuale.

È doveroso concludere (e ben ponderare allorché si sia incaricati di svolgere la funzione di CTU in ambito processuale) che il consulente del giudice, se con il suo operato arreca un danno alle parti del processo per effetto di una mera condotta colposa (alias, del tutto involontaria), risponde del danno provocato, quale che sia stato il grado di detta colpa (e quindi anche se ha agito con colpa lieve) senza poter beneficiare di alcuna esimente o riduzione di responsabilità.

  1. C) Arrivati sin qui, resta da chiedersi quale sia la misura dei danni risarcibili da parte del CTU per effetto della propria condotta.

Ma, civilisticamente parlando, non può non adottarsi il criterio vigente in materia: la misura di tale danno sarà quella che risulterà rigorosamente provata in giudizio da parte di chi lamenti di aver subito il predetto danno.

A livello casistico, i pregiudizi che dovrà risarcire un CTU, incorso in errore professionale e responsabilità civile, potranno consistere:

  • nel ritardo con il quale è stata accolta la propria domanda, in relazione alla necessità di rinnovare la consulenza;
  • nelle conseguenze negative derivanti dall’accoglimento dell’altrui domanda, fondato su una consulenza infedele o erronea;
  • nelle spese sostenute per l’adozione di provvedimenti ritenuti indifferibili da una consulenza erronea;
  • nelle spese sopportate per l’adozione di provvedimenti ritenuti indifferibili da una consulenza erronea (ad esempio, la messa in sicurezza di un fabbricato);
  • nelle spese sostenute per dimostrare – ad esempio attraverso altre indagini peritali – l’erroneità della consulenza d’ufficio.

Nel caso in cui la relazione del tecnico dovesse essere dichiarata nulla, il CTU dovrà restituire poi quanto versato dalle parti che costituisce pagamento di indebito.

***

La moltitudine dei temi accennati ci indurrà a tornare sull’argomento, come la variegata responsabilità di cui è portatore solitario il CTU dovrebbe indurre i tecnici agognanti di nomina da parte dei giudici alla prudenza del proprio operato, all’impiego della massima perizia durante il corso delle operazioni peritali ed all’eventuale richiesta di supporto del giudice, ogni qual volta possibile.

Infine, la solitudine della propria responsabilità potrebbe essere ulteriormente spezzata da una idonea polizza professionale che dia respiro alla azione peritale e sollievo (non solo spirituale) nel caso di aggressione della parte che si sia ritenuta lesa per una inidonea condotta processuale del CTU.

Preventivo obbligatorio in forma scritta

Modifica normativa pleonastica o mutamento culturale per le libere professioni?

 

Con la Legge 4 agosto 2017, n. 124, “Legge annuale per il mercato e la concorrenza”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 189 del 14 agosto 2017, entrata in vigore il 29 agosto 2017, il Legislatore è intervenuto nuovamente sulla disciplina e sullo svolgimento delle prestazioni professionali, a cominciare dalla fase di conferimento dell’incarico, in un settore che, dal 2006 ad oggi, è stato oggetto di un vivace dibattito politico-sociale ma anche di numerose e mai risolutive innovazioni normative.

Il provvedimento in esame si inserisce, difatti, nel solco di più datati interventi legislativi, avviati dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con Legge n. 248/2006, nota anche come Legge Bersani, mediante il quale fu operata l’abrogazione delle disposizioni di legge e regolamentari che prevedevano l’obbligatorietà delle tariffe fisse o minime nonché del divieto di concordare compensi collegati al raggiungimento degli obiettivi raggiunti.

La riforma Bersani rese possibile la pattuizione del compenso professionale tra professionista e cliente anche al di sotto dei minimi tariffari: pattuizione che prima era sanzionata con la nullità! Tuttavia, in mancanza di specifico accordo scritto sul punto, continuava ad applicarsi la tariffa, anche per quanto riguardava i minimi.

Successivamente, con l’art. 9, comma 1°, del D.L. n. 1/2012 veniva disposta espressamente l’abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico e, con la Legge di conversione n. 27 del 24 marzo 2012, veniva introdotto l’obbligo di rendere nota al cliente la misura del compenso del professionista sulla base di un preventivo di massima.

L’odierna riforma legislativa, ossia la novella del 4 agosto 2017, n. 124, ha introdotto una serie di disposizioni – in alcuni casi, come nella fattispecie esaminata, immediatamente operative – sulle professioni intellettuali, un tempo definibili “protette”, nell’ottica di incidere maggiormente sulla cd. libera concorrenza e sulla trasparenza del rapporto professionista-cliente.

Così, con la modifica dell’art. 9, comma 4° del D.L. n. 1/2012, da parte della Legge n. 124/2017, il Legislatore ha inserito per il professionista l’obbligo di formulare al cliente per iscritto [o in formato digitale] il cd. preventivo di spesa, precisando che: “Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito, nelle forme previste dall’ordinamento, al momento del conferimento dell’incarico professionale. Il professionista deve rendere noto obbligatoriamente, in forma scritta o digitale, al cliente il grado di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell’incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell’esercizio dell’attività professionale. In ogni caso la misura del compenso è previamente resa nota al cliente obbligatoriamente, in forma scritta o digitale, con un preventivo di massima, deve essere adeguata all’importanza dell’opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi. Al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio”.

Dunque, a decorrere dal 29 agosto di quest’anno, data di entrata in vigore della L. 124/2017, il professionista dovrà comunicare al cliente obbligatoriamente, in forma scritta o digitale, sia il grado di complessità dell’incarico, precisando tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili, ivi inclusi i dati della polizza assicurativa professionale, sia il preventivo cd. di massima, che il professionista dovrà rendere al cliente anche in assenza di una specifica richiesta, e nel quale la misura del compenso dovrà essere adeguata all’importanza dell’opera e pattuita con l’indicazione, per le singole prestazioni, di tutte le possibili voci di costo.

Per ciascuna prestazione richiesta dal cliente, il professionista, dal 29 agosto 2017, è dunque tenuto ad indicare per iscritto o digitalmente ai clienti non solo il corrispettivo dell’attività professionale da svolgere ma anche le spese, come, ad esempio, gli esborsi anticipati per conto del cliente a titolo di bolli, diritti, F24, e i costi prevedibili ma non anticipati, quali trasferte, oneri e contributi vari, tra i quali il contributo previdenziale per il professionista iscritto a una Cassa professionale.

Tenendo altresì in debita considerazione che, ai sensi del secondo comma dell’art. 2233 c.c., il compenso deve essere determinato tenendo conto del decoro della professione.

 

Pertanto, la determinazione del compenso non potrà non tenere in considerazione questi due elementi: l’adeguatezza all’importanza dell’opera e la rispondenza al decoro professionale.

In questo senso, sorgono dubbi circa le eventuali ripercussioni, anche dal punto di vista deontologico e disciplinare, nel caso in cui, ad esempio, il tecnico elabori un preventivo, pattuendo un compenso immotivatamente esiguo, che svilisca la professione e generi concorrenza sleale rispetto ad altri professionisti, oltre che confusione tra i committenti.

Se, da un lato, la modifica normativa di quest’anno tenta di superare le perplessità suscitate dalla storica e più snella prassi dei conferimenti di incarichi verbali, sprovvisti di una espressa e precisa indicazione dell’ammontare del compenso, che esponeva il professionista ad eventuali contestazioni e recriminazioni, soprattutto al momento del pagamento, dall’altro, costituisce una garanzia per il committente contro eventuali pretese irragionevoli del professionista, anche in caso di mancata o parziale esecuzione della prestazione professionale.

Tuttavia, essa provoca non poche perplessità in relazione al contenuto effettivo del preventivo, seppur definito di massima.

Non può difatti negarsi che, nell’espletamento dell’incarico, sovente il tecnico debba far fronte ad attività e incombenze impreviste o imprevedibili che, proprio perché sottratte alla sua valutazione e previsione, non potrebbero essere inserite nel preventivo di massima, oggi imposto come obbligatorio sin dal primo vagito del cliente in studio.

Per questa ragione, si ritiene consigliabile l’inserimento, nel preventivo, di clausole di salvaguardia e garanzia quali, a mero titolo esemplificativo, la durata di validità del preventivo, le condizioni che impongano l’aggiornamento del documento, le fasi di lavorazione comprese e quelle escluse, le condizioni e le modalità di pagamento del corrispettivo e la previsione che gli eventuali scostamenti e le possibili variazioni che dovessero intervenire, dovranno essere, oltre che giustificati e legittimi, debitamente comunicati alla committenza.

Ebbene, se da un lato non può tacersi che, vertendosi in ambito di professioni altamente tecniche e specializzate, un eccessivo formalismo rischierebbe di tramutarsi in una mera elencazione di attività e costi, limitativa delle capacità proprie del professionista, sulle quali il cliente basa la sua scelta, è altresì innegabile che, nell’ottica dell’instaurazione di un rapporto di reciproca fiducia tra professionista e committente, la trasparenza e chiarezza sono principi di cui non può non auspicarsi la concreta attuazione.

Nella consapevolezza che gli interventi imprevisti demandati alla competenza del professionista incontrerebbero maggior condivisione e partecipazione nella committenza che abbia avuto effettiva e approfondita contezza della restante e più prevedibile parte dell’attività tecnica svolta.

Lettera d’incarico: “patti chiari e amicizia lunga”

La lettera di incarico professionale: non è obbligatoria ma fortemente consigliata.

 

L’incarico professionale conferito al geometra da committente privato non necessita della forma scritta per essere valido ed efficace, a differenza del contratto di prestazione di opera intellettuale con una pubblica amministrazione, che deve essere stipulato per iscritto a pena di nullità.

Tanto è vero che, storicamente, l’incarico verbale da parte di un committente privato ai professionisti e, tra questi, ai geometri è sempre stato molto frequente, anche troppo.

Al contrario è buona norma che il geometra metta per iscritto, e faccia sottoscrivere  al cliente, i termini e le condizioni della prestazione professionale pattuita.

In assenza di un incarico formalizzato per iscritto, infatti, è più facile che insorgano contestazioni tra le parti circa le condizioni ed il perimetro della prestazione affidata al professionista ed, in quel caso, sarà ben più difficile fornire la prova di tali termini e condizioni.

Gli elementi più rilevanti da introdurre e precisare nel contratto di prestazione professionale sono: una descrizione, almeno sommaria, della prestazione richiesta e del grado di complessità della stessa; l’indicazione della durata dell’attività; tutti i costi prevedibili delle opere commissionate; la misura dell’onorario pattuito e le relative modalità di pagamento.

Nella prassi, talvolta, è proprio il cliente a richiedere che il professionista cristallizzi i termini e le condizioni della prestazione in una lettera che ne specifichi l’oggetto, i termini temporali e il compenso offerto.

Pertanto, la cd. lettera o disciplinare di incarico – che può essere più o meno estesa, più o meno dettagliata –  dovrebbe contenere, in linea di massima e schematicamente, almeno i seguenti punti

1)         indicazione delle parti;

2)         premesse, anche relative alle motivazioni ed agli obiettivi del cliente;

3)         oggetto dell’incarico;

4)         esclusioni dall’incarico;

5)         documentazione fornita dal cliente;

6)         tempistica e durata della prestazione professionale richiesta;

7)         previsione dell’onorario ed obbligo di rimborso delle spese vive;

8)         piano dei pagamenti e pattuizione di interessi specifici in caso di mora;

9)         recesso dal contratto/revoca dell’incarico (eventuali penali);

10)       eventuale clausola di arbitrato/foro competente;

11)       indicazione della polizza per la responsabilità civile professionale;

12)       eventuale previsione di un preliminare tentativo di conciliazione avanti il Collegio Provinciale dei Geometri di appartenenza del professionista;

13)       approvazione specifica delle clausole del contratto.

Fermo quanto sopra, giova richiamare l’attenzione su alcuni dei passaggi principali da prevedere all’interno di una “lettera tipo” di incarico professionale, onde fornire alcuni spunti al lettore, spunti che potranno essere approfonditi anche visionando i modelli predisposti dagli ordini di appartenenza (nel nostro caso, dal Collegio di Roma ed in ogni caso dal Consiglio Nazionale Geometri).

È appena il caso di sottolineare che le indicazioni e le informazioni proposte in questa sede non possono, da sole, costituire modello per la predisposizione di disciplinari di incarico professionale nel caso concreto.

Venendo alla lettera di incarico, è innanzitutto opportuno definire con chiarezza i termini e i limiti dell’incarico professionale (l’oggetto del contratto), precisando all’occorrenza quali attività restano escluse dall’incarico stesso.

In secondo luogo, sarà utile precisare la durata dell’incarico, fatta salva eventualmente la possibilità per le parti di prevedere specifiche modalità di recesso anticipato dal contratto.

È poi di fondamentale importanza la pattuizione precisa e specifica del compenso riconosciuto al professionista (oltre accessori di legge), onde evitare spiacevoli contrasti con i committenti e per avere un documento sulla base del quale ottenere, in tempi relativamente brevi, un titolo giudiziale (il cd. decreto ingiuntivo) in caso di inadempimento del committente/cliente.

Rispetto al compenso pattuito andranno individuati i termini e le modalità di pagamento, puntualizzando le scadenze per l’erogazione degli acconti e il termine per il versamento del saldo.

Per eventuali ritardi e inadempimenti da parte del cliente è opportuno, inoltre, prevedere l’applicazione di interessi moratori, eventualmente di penali e/o di clausole risolutive del contratto, con facoltà per il professionista di sospendere la prestazione e/o recedere dall’incarico.

Così come appare opportuno disciplinare e prevedere le eventuali variazioni del progetto in corso d’esecuzione.

Come anticipato, ulteriori questioni da normare con accortezza nell’ambito del contratto di conferimento di incarico professionale sono le ipotesi di risoluzione e di recesso. Ad esempio, a tutela del professionista, potrà prevedersi che il committente possa recedere dal contratto solo se al professionista stesso siano imputabili errori gravi o mancanze rilevanti, concedendo comunque un congruo termine di preavviso.

Ovviamente andrà resa l’informativa in materia di protezione dei dati personali.

Non dimentichiamo che il documento che attesta la fase genetica del rapporto è anche la sede per inserire il riferimento alla propria polizza assicurativa professionale, oggi obbligatoria.

Da ultimo, potrà essere precisato che per quanto non espressamente previsto nel contratto, troveranno applicazione le leggi vigenti e, in particolare, le norme del Codice civile relative al contratto d’opera intellettuale, le norme del Codice deontologico del professionista e le norme dell’Ordinamento professionale dei geometri.

Infine, fatta salva la valutazione del caso concreto, in generale nel corpo di tale contratto potrebbe essere pregevole introdurre anche i seguenti elementi: la previsione di una clausola penale a carico del professionista per il caso di suo inadempimento (o ritardato adempimento), che potrebbe avere l’effetto di limitare il danno risarcibile, a meno che non sia espressamente pattuita la risarcibilità del danno ulteriore; la fissazione di indirizzo o elezione di domicilio ai fini del contratto di incarico professionale, così che tutte le comunicazioni tra professionista e cliente saranno validamente effettuate se recapitate agli indirizzi previsti.

In conclusione, appare pleonastico evidenziare come l’accorta e puntuale regolamentazione dell’incarico professionale conferito al geometra sia di estrema importanza per consentire una piena tutela dei diritti e degli interessi di entrambe le parti del contratto (geometra e cliente), con conseguente riduzione, per quanto possibile, degli elementi di incertezza e di opinabilità del rapporto.

Lettera d’incarico: insidie ed escamotage. Riflessioni per un uso consapevole

La lettera di incarico professionale: clausole utili, opportune o addirittura necessarie.

 

Proseguendo la nostra discussione sul tema, si osservi che una buona lettera di incarico non potrà prescindere da una serie di patti, clausole e temi essenziali o comunque utili per la migliore tutela delle parti del contratto ossia per cercare di disciplinare la maggior parte delle fattispecie che il rapporto professionista-committente produce ed evitare che le medesime parti da collaboranti si trasformino in parti litiganti.

A tal fine, ci preme richiamare in questa sede – sia pure in modo frammentario e senza pretesa di esaustività – il senso ed il valore di alcune clausole particolarmente significative.

Oggetto dell’incarico e prestazioni del professionista: nell’ambito di questo tema risulta dirimente delimitare con chiarezza il perimetro dell’incarico che il committente affida/conferisce al professionista, nonché le fasi in cui la prestazione potrà o dovrà essere svolta. Sarà anche opportuno precisare che il prestatore d’opera professionale opererà in piena libertà, autonomia organizzativa e con disponibilità di mezzi propri e che, nell’esecuzione dell’incarico, il professionista si potrà avvalere, sotto la sua responsabilità, di sostituti o ausiliari.

Prestazioni escluse dall’incarico: sarà buona norma indicare con chiarezza le attività escluse dall’incarico, sempre al fine di delimitarne con chiarezza i contorni del medesimo.

Durata dell’incarico: altro punto rilevantissimo da disciplinare, unitamente all’oggetto, è la durata dell’incarico, onde avere parametri certi ai quali ancorare l’adempimento e/o l’inadempimento del professionista. In merito, potranno essere previste ipotesi e modalità di disdetta anticipata rispetto alla durata prevista da parte di entrambi i contraenti, con la eventuale previsione di conseguenze per il recedente senza preavviso. Si potrà altresì precisare che, nell’eventualità di ritardi nell’espletamento dell’incarico per cause non imputabili al professionista, il committente conceda proroghe per iscritto fino alla cessazione della causa impeditiva.

Pagamento e interessi: nell’ambito della disciplina del corrispettivo, è opportuno che venga fissato un termine per il pagamento dal ricevimento della fattura (ad esempio, trenta giorni) e, trascorso tale periodo, prevedere la decorrenza sulle somme dovute e non pagate degli interessi legali, se il committente è un privato, ovvero degli interessi moratori (ex D. Lgs. 231/2002), se il committente è un’impresa o una pubblica amministrazione.

Assicurazione per la responsabilità professionale: nell’ambito di questa clausola, il professionista informa il cliente della propria polizza assicurativa a copertura degli eventuali danni dovessero derivare allo stesso cliente o a terzi come conseguenza dell’attività professionale espletata, con precisazione del massimale per ogni singolo sinistro coperto dalla polizza assicurativa.

Informativa in materia di protezione dei dati personali: nel corpo del contratto professionale è, poi, obbligatorio indicare il riferimento all’informativa in materia di protezione dei dati personali secondo quanto previsto dal D.Lgs. 196/2003.

Controversie: tentativo di conciliazione, clausola arbitrale e foro competente: come clausole di salvaguardia e di chiusura del contratto tra le parti, da porre a chiusura del medesimo, si potrà prevedere l’obbligo – in caso di contrasto tra le parti e di potenziale controversia – di espletamento di un preliminare tentativo di conciliazione, che potrà avvenire avanti al Collegio provinciale dei Geometri ove è iscritto il professionista oppure ove si è svolta l’attività.

In alternativa, si può anche ipotizzare l’inserimento nella lettera d’incarico di una cd. clausola arbitrale, ossia di uno di quei patti che obbligano le parti a rivolgersi, in caso di lite, alla cd. giustizia privata o arbitrale (con cui si evita il ricorso alla giustizia ordinaria e si affida la lite al giudicato di “arbitri”). Ma, è bene sin d’ora sapere che, se la clausola non è ben strutturata e calibrata ad uso e consumo del professionista, può rivelarsi un boomerang, soprattutto per i costi che l’attivazione di un giudizio arbitrale può comportare. Per cui, si consiglia di diffidare di simile inserimento qualora tale soluzione delle controversie sia proposta e scritta da un committente particolarmente forte e dotato di ufficio legale che ha predisposto la predetta clausola.

 

Si potrà, altresì, prevedere la competenza di un foro giudiziario particolare (ossia di un Giudice specificamente localizzato) dove incardinare la eventuale lite giudiziale per le controversie che dovessero insorgere tra le parti e non dovessero essere risolte in via bonaria e stragiudiziale.

In conclusione, ci preme rammentare che anche le presenti indicazioni ed informazioni non possono, da sole, costituire “modelli” per la predisposizione di disciplinari di incarico professionale nel caso concreto. Il quale necessiterà sempre di adattamento dei principi generali alle esigenze e specificità della fattispecie concreta che si presenterà ai ns. lettori geometri.

Direttore dei Lavori: fascino e rischi di un professionista sull’ottovolante

Di recente abbiamo vissuto un’epoca (anche legislativamente parlando) in cui è stato di gran moda ispirarsi a modelli politico-culturali “liberali” e liberalizzanti, motivo per cui – anche con riguardo al tema che ci occupa – si è acceduti all’idea che tutto ciò che non è vietato è permesso e che, anche in tema di edilizia privata, si può fare a meno di controlli e controllori.

Tanto che anche l’esecuzione di molte opere edilizie private, concesse in appalto, può essere controllata e vigilata direttamente e solamente dal committente, ossia di tutta evidenza da un non-tecnico, in pratica da un perfetto incompetente.

Tuttavia, nell’esecuzione di opere edilizie più impegnative – e conseguentemente a rischio della incolumità pubblica e privata – fortunatamente resiste l’obbligo di adozione della figura del “direttore dei lavori”, che dunque è riconosciuta ancora necessaria e obbligatoria per legge, come nel caso di costruzione di nuovi edifici, ristrutturazione prospetti, interventi di consolidamento strutture, impermeabilizzazioni di lastrici solari, rifacimento coperture, ecc. In generale, la figura del direttore dei lavori è obbligatoria per tutti gli interventi edilizi subordinati al permesso di costruire o per quelli che richiedono dichiarazioni di asseverazione dei lavori nel rispetto dei titoli abilitativi previsti dal D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380.

Pertanto, anche nel settore dell’edilizia privata, il direttore lavori appare, ancora oggi, figura di assoluto rilievo per il corretto e prudente espletamento dell’appalto in quanto risponde del suo operato al committente, di cui deve fare gli interessi durante l’esecuzione dei lavori, facendo rispettare all’appaltatore le disposizioni di contratto e impartendo le necessarie istruzioni tecniche per l’esecuzione dei lavori a regola d’arte, secondo i disegni progettuali e le relative prescrizioni del capitolato d’appalto.

Obblighi.

Emerge dunque da subito che dalla qualifica di D.L. discendono funzioni di supervisione e vigilanza della regolare esecuzione delle opere previste nel progetto, con la conseguente previsione della facoltà di impartire le opportune istruzioni quando necessario.

In tal senso, la Giurisprudenza più recente ha puntualizzato che: “Costituisce obbligazione del direttore dei lavori l’accertamento della conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera al progetto, sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica e pertanto egli non si sottrae a responsabilità ove ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni al riguardo, nonché di controllare l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e, in difetto, di riferirne al committente” (Cass. civ., Sez. II, 03/05/2016, n. 8700).

Sempre secondo la consolidata Giurisprudenza di Legittimità: “In tema di responsabilità del direttore dei lavori, l’alta sorveglianza in cui si concreta l’attività del professionista, pur non richiedendo la presenza continua e giornaliera sul cantiere, né il compimento di operazioni di natura elementare, comporta un’obbligazione di mezzi, consistente nel controllo — da effettuarsi non con la diligenza ordinaria, ma con la diligentia quam in concreto — della realizzazione dell’opera nelle sue varie fasi, per cui il direttore dei lavori è responsabile verso il cliente se omette di vigilare e di impartire le disposizioni opportune e di controllarne l’esecuzione da parte dell’appaltatore(Cass. 27 gennaio 2012 n. 1218; cfr. in tal senso anche Cass. 13 aprile 2015 n. 7373).

Secondo la Suprema Corte, dunque, l’obbligazione del direttore dei lavori costituisce un’obbligazione “di comportamento”, non già di risultato, in quanto ha per oggetto la prestazione di  un’opera intellettuale che non si estrinseca nemmeno in parte in un risultato di cui si possa cogliere tangibilmente la consistenza. In conseguenza, all’obbligazione del direttore dei lavori non è applicabile la  disciplina dell’art. 2226 c.c. (che riguarda le obbligazioni di risultato) secondo cui l’accettazione espressa o tacita libera il prestatore di opera di responsabilità per difformità o vizi della medesima, con la conseguenza che l’accettazione  dell’opera realizzata da parte del committente non esonera il direttore dei lavori della responsabilità nei confronti del committente stesso per inadempimento delle  obbligazioni da lui assunte.

Insomma, il direttore dei lavori risponde al committente del suo operato circa la corretta  esecuzione nel caso della mancata adozione di tutti i necessari accorgimenti tecnici volti a garantire la realizzazione dell’opera senza difetti costruttivi e nel  rispetto del contratto; non si sottrae a responsabilità nel caso in cui ometta di vigilare e di impartire le opportune disposizioni di servizio o istruzioni tecniche  al riguardo, nonché di controllarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e di  riferirne al committente.

Allo stesso modo, non è pretesa dal D.L. una vigilanza costante in cantiere ma è suo compito fornire le istruzioni e le indicazioni fondamentali per lo svolgimento corretto e a regola d’arte dei lavori, mediante un controllo periodico. Del resto, il D.L. non ha un potere di coazione materiale nei confronti dell’appaltatore.

In sintesi, il professionista in oggetto non va esente da responsabilità ove ometta di vigilare e di impartire le necessarie disposizioni al riguardo, nonché trascuri di verificarne l’ottemperanza da parte dell’appaltatore e di riferirne al committente. Più specificatamente, l’attività del direttore dei lavori nell’interesse del committente è rappresentata dalla predetta alta sorveglianza delle opere, dal controllo dell’avanzamento dell’opera nei suoi vari stadi e, pertanto, dalla verifica – tramite visite periodiche e contatti diretti con i  tecnici dell’impresa in ogni fase dei lavori – dell’osservanza delle regole dell’arte e della corrispondenza dei materiali utilizzati (ex multis: Cass. 24 aprile 2008 n. 10728).

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Opzioni operative.

Se fino a qui sono emersi gli obblighi del D.L., possiamo tuttavia accennare anche alle opzioni operative che frequentemente si presentano in concreto.

Infatti, anche secondo la Giurisprudenza di merito, si può precisare che il D.L. che, per conto del committente esercita i poteri di controllo sull’attuazione dell’appalto (sicché ha il dovere, attesa la connotazione tecnica della sua obbligazione, di vigilare affinchè l’opera sia eseguita in maniera conforme al progetto, al capitolato e alle regole della buona tecnica) potrebbe essere caricato anche della ulteriore responsabilità per “vizi progettuali”, laddove esso sia stato espressamente incaricato dal committente di svolgere anche l’attività (aggiuntiva rispetto a quella oggetto della sua normale prestazione) di verificare la fattibilità e l’esattezza tecnica del progetto (si veda di recente Tribunale di Arezzo, 03/10/2017, n. 1087).

Parimenti, al potere-dovere del D.L. di impartire corrette istruzioni non segue, in maniera automatica, quello di ordinare varianti all’opera o di acquistare materiali di propria iniziativa, salvo che tale facoltà non sia espressamente individuata all’interno del mandato specifico conferito al professionista.

A tal proposito, giacché non sempre risulta semplice distinguere le varianti dalle semplici istruzioni tecniche potrebbe risultare utile in tal senso inserire una clausola specifica nel regolamento contrattuale intercorrente tra committente e tecnico, che delinei con esattezza i termini dell’incarico.

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Responsabilità.

In ambito privatistico, il D.L. rappresenta il committente in ogni questione tecnica sottopostagli e qualora non adempia esattamente gli obblighi relativi al proprio incarico, potrebbe incorrere in responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., ossia essere condannato, all’esito di un giudizio per responsabilità professionale, al corretto adempimento dell’incarico o a eliminare la violazione commessa ovvero ad eliminare difformità o vizi dell’opera (nel caso in cui ciò sia possibile) e/o al risarcimento del danno e le spese derivanti da tale inadempimento.

In proposito, la responsabilità del D.L. segue le regole della responsabilità contrattuale ed è regolata dalle regole comuni in materia di inadempimento contrattuale, con prescrizione decennale ex art. 2946 c.c., con l’unica precisazione che il professionista D.L. risponderà in solido con l’appaltatore e il progettista, fatta salva la ripartizione delle responsabilità nei rapporti interni. In particolare, si valuti che la condizione del D.L. è addirittura deteriore rispetto a quella dell’appaltatore poiché verso il primo il termine di prescrizione dell’azione di responsabilità da parte del committente è quello decennale, laddove per l’appaltatore vigono le regole di cui all’art. 1668 c.c., per cui l’azione di responsabilità è consentita solo se il vizio è denunciato entro sessanta giorni dalla cd. scoperta e la domanda giudiziale sia incardinata entro due anni dalla consegna dell’opera.

Sul tema, la Suprema Corte nel 2017 ha corroborato il suo orientamento in tal modo: In tema di contratto di appalto, il vincolo di responsabilità solidale fra l’appaltatore e il progettista e direttore dei lavori, i cui rispettivi inadempimenti abbiano concorso in modo efficiente a produrre il danno risentito dal committente, trova fondamento nel principio di cui all’art. 2055 c.c., il quale, anche se dettato in tema di responsabilità extracontrattuale, si estende all’ipotesi in cui taluno degli autori del danno debba rispondere a titolo di responsabilità contrattuale” (Cassazione civile, sez. II, 06/12/2017,  n. 29218).

Per cautelarsi, qualora il professionista disponesse del necessario potere contrattuale, potrebbe richiedere l’inserimento, nell’incarico stesso, anche di clausole limitative della sua responsabilità, ad esempio ancorando la risarcibilità dell’eventuale danno ad un valore-soglia.

L’altra ipotesi di responsabilità gravante sul D.L. è quella extracontrattuale per i danni che dal suo operato dovessero derivare ai terzi (soggetti non legati da alcun rapporto contrattuale con lui).

Nell’ambito della generale responsabilità civile extracontrattuale, secondo la Giurisprudenza prevalente e oramai predominante, si applica anche alla figura del Direttore dei Lavori la responsabilità extracontrattuale che discende dalla norma di cui all’art. 1669 c.c., ossia quella relativa alla rovina e ai gravi difetti degli immobili.

Così, secondo gli Ermellini: “L’ipotesi di responsabilità regolata dall’articolo 1669 del cc in tema di rovina e difetti di immobili ha natura extracontrattuale e, conseguentemente, nella stessa possono incorrere, a titolo di concorso con l’appaltatore che abbia costruito un fabbricato minato da gravi difetti di costruzione, tutti quei soggetti che, prestando a vario titolo la loro opera nella realizzazione della cosa, abbiano contribuito, per colpa professionale (segnatamente il progettista e/o il direttore dei lavori), alla determinazione dell’evento dannoso, costituito dall’insorgenza dei vizi in questione(Cass. civ., Sez. II, 09/11/2017, n. 26552).

 

La norma in esame è particolarmente incisiva e tutelante per i danneggiati in quanto l’azione ex art. 1669 c.c. può essere proposta per dieci anni dalla conclusione dell’opera. Tuttavia, la denunzia del vizio deve essere effettuata entro un anno dalla sua scoperta e l’azione giudiziale si prescrive entro un anno dalla denuncia stessa.

 

A ciò, infine, si aggiunga il caso della responsabilità – verso l’appaltatore – come “falso procuratore”, nel caso in cui il professionista operi esorbitando dai poteri conferiti. In tale fattispecie, le sue decisioni risulterebbero non vincolanti per il committente ma, addirittura, le sue manifestazioni di volontà risulterebbero quelle di un falsus procurator:

“Il direttore dei lavori non è un rappresentante del committente, se non nei limiti della materia strettamente tecnica: qualora, dunque, impartisca all’appaltatore ordini che esulano dai suoi poteri rappresentativi, si verte nella tipica ipotesi del “falsus procurator” (art. 1398 c.c.), con la conseguenza che le dichiarazioni rese dal rappresentante senza poteri non vincolano in alcun modo il soggetto falsamente rappresentato” (Tribunale Roma, sez. XII, 16 febbraio 2004).

 

In questo caso, l’appaltatore che realizzasse varianti ordinate dal D.L. (infedele o che semplicemente esorbita dal suo mandato) rischierebbe di non poter esigere il pagamento di tali  opere, di fatto extra-contratto. In tal caso, il D.L. rischia di essere chiamato a rispondere delle somme dovute all’appaltatore per le opere realizzate e non pagate dal committente, in quanto commissionate esclusivamente dal D.L. stesso eccedendo i limiti del suo mandato professionale.

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A ben vedere, dunque, la figura del Direttore dei Lavori risulta permeata da specifiche obbligazioni e consistenti responsabilità che richiederebbero una attenta disamina da parte del professionista incaricato al momento del conferimento dell’incarico, sia per delimitarne, ove possibile, i risvolti risarcitori, sia per individuare con esattezza i contenuti stessi delle obbligazioni che si assumono con l’accettazione di un incarico di D.L.

Compenso del geometra: istruzioni per gli addetti ai lavori

Dalla Tariffa alla sua abrogazione.

Storia di una liberalizzazione che ha ingenerato più confusione che concorrenza.

 

In base all’art. 2233, co. 1 c.c., anche per il geometra, come per gli altri professionisti, il criterio principale per la determinazione del compenso è l’accordo tra il cliente e il professionista. Tuttavia, va detto da subito che il comma 2 della medesima disposizione codicistica impone che la misura del compenso non sia del tutto libera ma debba comunque essere adeguata all’importanza dell’opera e al decoro della professione.

Era proprio l’esigenza di tutelare quest’ultimo principio a giustificare il carattere obbligatorio della Tariffa professionale (la Tariffa dei geometri era prevista dal testo unico di cui alla Legge n. 144 del 2 marzo 1949 e successive modifiche e integrazioni). Quest’ultima non impediva che il compenso poteva essere pattuito tra committente e libero professionista, ma integrava un riferimento insostituibile per tutti i casi, molto frequenti nella prassi, in cui il mandato professionale fosse stato conferito senza una previa intesa tra le parti sull’ammontare del compenso e costituiva, dunque, una garanzia significativa vuoi per il committente contro eventuali pretese irragionevoli del geometra, vuoi per il professionista avverso la eventuale ed infondata contestazione del committente rispetto al compenso dovuto.

Fino alla cd. riforma Bersani non era possibile pattuire un compenso che non tenesse nel debito conto la suddetta Tariffa, stante l’impossibilità di scendere sotto i minimi previsti dall’art. 5 del d.m. 25 marzo 1966.

Viceversa, il d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito nella legge 248/2006, dovuta ad iniziativa dell’allora Ministro Bersani, provvide ad abrogare in via generale le disposizioni di legge e regolamentari che prevedevano l’obbligatorietà di tariffe fisse o minime nonché il divieto di pattuire compensi parametrati al raggiungimento degli obiettivi perseguiti.

L’intervento legislativo in parola non operò la mera abolizione della tariffa, avendo anzi specificamente previsto che la liquidazione giudiziale delle parcelle avvenisse sulla base della tariffa professionale, con riguardo sia ai minimi che ai massimi.

Viceversa, fu resa possibile la pattuizione tra geometra e cliente del compenso professionale anche al di sotto dei minimi tariffari, pattuizione che prima era sanzionata con la nullità.

In mancanza di specifico accordo sul punto, continuava quindi ad applicarsi la tariffa, anche per quanto riguardava i minimi.

È importante ricordare come questo tipo di accordi dovevano essere redatti per iscritto a pena di inefficacia.

Occorre poi sottolineare come il cd. decreto Bersani abbia abrogato le disposizioni legislative e regolamentari che prevedevano il divieto, anche parziale, di svolgere attività informativa circa i titoli professionali e i servizi offerti, aprendo altresì alla costituzione in forma societaria di studi professionali interdisciplinari.

Come si legge anche nella Circolare – datata 4 febbraio 2008, prot. n. 907 – del Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, la ratio della riforma è stata quella di assicurare ai committenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato e relativi compensi.

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Il D.L. n. 1 del 24 gennaio 2012 convertito, con modificazioni, in legge n. 27 del 24 marzo 2012, reca una serie di norme volte a liberalizzare le professioni regolamentate.

In particolare, l’art. 9 co. 1 del D.L. n. 1/2012 dispone testualmente che: “Sono abrogate le tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico”.

Il dictum della norma è dunque rivolto ad eliminare del tutto le tariffe professionali ed ogni disposizione ad esse rinviante. Attualmente, pertanto, il compenso del professionista andrà pattuito con il cliente sulla base, laddove richiesto, di un preventivo, definito dalla legge stessa, di massima.

Tale preventivo, tuttavia, dovrà indicare tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi, prestazione per prestazione, ferma l’esigenza che la misura del compenso sia adeguata all’importanza dell’opera.

Il comma 4 della norma in esame, infatti, sancisce espressamente che:

“Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito, nelle forme previste dall’ordinamento, al momento del conferimento dell’incarico professionale. Il professionista deve rendere noto al cliente il grado di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell’incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell’esercizio dell’attività professionale. In ogni caso la misura del compenso è previamente resa nota al cliente con un preventivo di massima, deve essere adeguata all’importanza dell’opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi”.

Il “preventivo del professionista”, nell’ultima riforma, ha assunto un rilievo ed un’attenzione particolare. Pertanto, andrà trattato dal professionista con altrettante attenzioni.

È certamente vero che, a volte, è impossibile e/o molto difficoltoso per il professionista procedere ad una previsione di spesa che non sia sommaria ed imprecisa, visto che la stima di tali valori dipende da eventi futuri non nel controllo iniziale del professionista.

Tuttavia, per assolvere a quanto richiesto dalla legge, ci si può ispirare ai principi informatori delle “vecchie” tariffe professionali che si caratterizzavano per la loro analiticità e per un tendenziale scollegamento rispetto al costo, al rischio, al valore aggiunto per il cliente e tendevano a far riferimento al valore della pratica in sé, oltre a consentire di aggiungere varie indennità.

Oggi, viceversa, è possibile adottare parametri “innovativi” più legati al tempo, al costo ed al successo dell’operazione che, di converso, appaiono più liberi ma anche più fumosi e, quindi, suscettibili di far sorgere dubbi e contestazioni nei committenti.

Ciò detto, si rammenti che il preventivo, giuridicamente, costituisce una promessa unilaterale di eseguire un contratto d’opera intellettuale alle condizioni ivi dedotte.

Pertanto, è opportuno che vi siano pattuite più cautele possibili, quali ad esempio, stabilire una durata di validità del preventivo, le condizioni al verificarsi delle quali il documento deve essere aggiornato, quali fasi di lavorazione esso comprende e quali no.

Possono essere stabilite eventuali prestazioni escluse, i livelli di servizio concordati e la collaborazione richiesta al cliente, così come è assolutamente necessario che siano indicate le condizioni e le modalità di pagamento del corrispettivo.

Il Consiglio Nazionale Geometri e Geometri Laureati, nella Circolare del 31 agosto 2012 prot. n. 8897, ha redatto e pubblicizzato uno “schema-tipo” di scrittura privata per il conferimento di incarico / preventivo di spesa, contenente un esempio di modalità di disciplina della pattuizione del compenso.

A tale proposito, si richiama anche il modello di preventivo / incarico che il Collegio di Roma ha ritenuto di elaborare e di proporre ai suoi iscritti, inserendolo on-line sul proprio sito.

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Infine, pur non essendo espressamente precisato dalla nuova norma, permane per gli Ordini professionali la possibilità di sindacare il comportamento del professionista ogni volta che il compenso indicato nel preventivo di massima non sia adeguato all’importanza dell’opera.

Se, ad esempio, un professionista elabora un preventivo corretto, lo comunica al cliente e poi accetta un compenso inferiore al preventivo stesso, deve poter motivare, qualora l’Ordine professionale lo richieda, il motivo di tale suo comportamento. Se non adduce motivi convincenti, il professionista può subire sanzioni disciplinari per comportamento deontologicamente scorretto, in quanto un compenso immotivatamente esiguo svilisce la professione e genera concorrenza sleale rispetto ad altri professionisti, oltre che confusione tra il pubblico dei committenti.

Competenze e professionalità del nuovo geometra

Nel nostro Paese, come noto, la questione relativa ai limiti delle competenze professionali del geometra rappresenta una questione spinosa, irta di incognite e di rischi per il professionista, che si trova a dover valutare, con estreme attenzione e prudenza, se accettare o meno incarichi nelle materie “di confine” della professione.

In materia esiste una notevole casistica giurisprudenziale, orientata prevalentemente verso la restrizione dello spazio delle competenze del geometra, in particolar modo in materia di costruzioni in cemento armato.

Si tratta di un orientamento piuttosto rigido che, nonostante l’impegno profuso dagli Ordini Professionali di categoria, finora non è stato superato.

Sta di fatto che, ad oggi, non è affatto agevole stabilire con certezza fino a dove un geometra “possa arrivare” rispetto alle attività riservate alle categorie professionali germane degli ingegneri e degli architetti.

Proprio recentemente una ulteriore sentenza del Consiglio di Stato (sentenza n. 883 del 22 febbraio 2015), ha ribadito, senza discostarsene, gli aspetti salienti dell’orientamento giurisprudenziale più restrittivo.

Punti che possono essere schematizzati come segue:

  • esula dalla competenza dei geometri la progettazione di costruzioni civili con strutture in cemento armato, trattandosi di attività che, qualunque ne sia l’importanza, è riservata solo agli ingegneri ed agli architetti iscritti nei relativi albi professionali;
  • ciò che invece rientra nella competenza dei geometri, a norma della lett. l) del medesimo articolo 16, r.d. n. 274/1929, sono le opere in cemento armato relative a piccole costruzioni accessorie nell’ambito di edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone;
  • è da escludersi la possibilità di un’interpretazione estensiva o “evolutiva” dell’art. 16 lett. m) che, in quanto norma eccezionale, non si presta ad applicazione analogica, non potendosi pervenire ad una diversa conclusione neppure in virtù delle norme – art. 2, l. 5 novembre 1971, n. 1086, e art. 17, l. 2 febbraio 1974, n. 64 – che disciplinano le costruzioni in cemento armato e quelle in zone sismiche, in quanto le stesse richiamano i limiti delle competenze professionali stabiliti per i geometri dalla vigente normativa professionale;
  • il criterio per accertare se una costruzione sia da considerare “modesta” – e quindi se la sua progettazione rientri nelle competenze professionale dei geometri – consiste nel valutare le difficoltà tecniche che la progettazione e l’esecuzione dell’opera comportano, nonché le capacità occorrenti per superarle. A tal fine, mentre non è decisivo il mancato uso del cemento armato (ben potendo anche una costruzione “non modesta” essere realizzata senza di esso), assume rilevanza il fatto che la costruzione sorga in zona sismica.

Dunque, nell’ambito della necessità di interpretare caso per caso i concetti di “piccole costruzioni accessorie in cemento armato” e di “modeste costruzioni civili” – recati all’art. 16 lett. l) e m) del Regio Decreto 11 febbraio 1929 n. 274 – la Giurisprudenza amministrativa del Consiglio di Stato insiste nel precisare che non rientra tra le competenze del geometra la progettazione di costruzioni che comportino l’utilizzo del cemento armato ovvero che richiedano complesse operazioni di calcolo.

In quest’ottica il principio giurisprudenziale più diffuso resta il seguente: “l’art. 16 r.d. 11 febbraio 1929 n. 274 ammette la competenza dei geometri per quanto riguarda le costruzioni in cemento armato solo relativamente a opere con destinazione agricola, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per l’incolumità delle persone, mentre per le costruzioni civili che adottino strutture in cemento armato, sia pure modeste, ogni competenza è riservata, ai sensi dell’art. 1 r.d. 16 novembre 1939 n. 2229, agli ingegneri e architetti iscritti nell’albo” (Cass. civ. sez. II 2 settembre 2011 n. 18038). Tendenza della giurisprudenza che rimane prevalente nonostante l’abrogazione esplicita dell’art. 1  R.d.l. 16/11/1939 n. 2229 da parte del D.lgs 13/12/2010 n. 212.

Vale la pena, a questo punto, rammentare a quali gravi conseguenze rischia di andare incontro il geometra che, nell’esercizio della propria professione, “sconfini” invadendo le competenze riconosciute dall’ordinamento ad altre figure professionali (quali ingegneri e architetti).

Si tratta, infatti, di conseguenze particolarmente rilevanti e pregiudizievoli per il professionista, di ordine penale, disciplinare ed anche civile.

Prescindendo dall’esaminare in questa sede le prime due tipologie di responsabilità (penale e disciplinare), preme richiamare l’attenzione sulle conseguenze di natura civilistica, particolarmente “odiose” per il professionista geometra, ove dovesse incorrervi, in quanto consistenti nella “nullità” del contratto stipulato tra il professionista ed il committente (atteso che il geometra opererebbe in violazione di norme imperative ex art. 1418 c.c.), con impossibilità per il primo di pretendere dal secondo il pagamento del compenso della prestazione tecnico-professionale eseguita.

Alla luce di orientamenti giurisprudenziali tanto rigidi e restrittivi, i Consigli locali e il Consiglio Nazionale dei Geometri sostengono da tempo la necessità che il Legislatore nazionale metta mano alla materia, stabilendo con maggiore precisione i limiti entro i quali i geometri possano operare legittimamente, avuto riguardo alle effettive conoscenze, alla evoluzione del corso di studi ed alle capacità tecniche della loro categoria professionale.

In proposito, infatti, non va dimenticato che il D.P.R. n. 328/2001 ha modificato la disciplina dei requisiti di ammissione all’esame di Stato, aggiornando il percorso formativo necessario per l’accesso alla professione di geometra.

Ne discende che un mancato adeguamento delle lettere l) ed m) dell’art. 16 del R.D. n. 274/1929 alle reali e moderne competenze del geometra è suscettibile di rendere la norma stessa totalmente anacronistica ed incompatibile con la sua attuale ampia professionalità.