Professionisti / L’accesso agli atti della pubblica amministrazione: tipologie, diritti, limiti e tutela privacy

L’accesso ai documenti amministrativi è uno strumento rivolto a tutti i cittadini ma ben noto ed utilizzato soprattutto dai professionisti che hanno rapporti con le Pubbliche Amministrazioni. Si può affermare che l’accesso ai documenti amministrativi costituisce uno strumento a doppio destinatario, rivolgendosi tanto ai privati quanto ai liberi professionisti che sono tenuti ad entrare in contatto con le PP.AA. per conto dei loro committenti.
Proprio in ragione della rilevanza e della indispensabilità dello strumento a livello professionale, è quanto mai opportuno conoscerlo ed inquadrarlo all’interno del sistema dei principi dell’ordinamento giuridico.
Vale sin da subito precisare che aver sancito il diritto del cittadino all’accesso ai documenti amministrativi costituisce il punto di bilanciamento più equilibrato tra il principio di trasparenza e la tutela della riservatezza.
Infatti, mentre la trasparenza rappresenta il fondamento dell’accesso ai documenti amministrativi, la riservatezza ne rappresenta il principale limite.
Da una parte, il diritto d’accesso rappresenta il precipitato applicativo del più generale principio di trasparenza, in quanto consente ai cittadini di conoscere i processi decisionali della pubblica amministrazione. Dall’altra, il diritto di accesso è contemperato dal diritto alla riservatezza, che è volto a tutelare i cittadini stessi da ingerenze eccessive dei terzi nella propria sfera privata.
Trasparenza e riservatezza sono entrambi interessi meritevoli di peculiare tutela da parte dell’ordinamento, rinvenendo ambedue il proprio fondamento ai vertici delle fonti del diritto interno e sovranazionale.
Proprio la sussistenza di contrapposti interessi di primaria importanza per l’ordinamento comporta la previsione a livello normativo di limiti al diritto di accesso, al fine di operare un contemperamento tra trasparenza e riservatezza.
Le diverse forme di accesso
A livello normativo primario sono disciplinate tre forme di accesso: documentale, civico semplice e civico generalizzato.
1. L’accesso documentale, previsto dalla L. 241/1990, può essere definito come la situazione giuridica soggettiva strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante ed opera in due diverse contesti: procedimentale e difensivo.
Con riserva di approfondire la struttura e i requisiti dell’istanza di accesso agli atti in un successivo più specifico contributo, vale anticipare soltanto che, in ambito procedimentale, l’accesso ha funzione partecipativa e nel contesto difensivo assume una funzione propriamente difensiva.
Più in particolare, nella prima dimensione, coloro che partecipano al procedimento amministrativo sono legittimati a chiedere ed ottenere l’accesso ai relativi documenti, purché siano titolari di un interesse diretto, concreto e attuale; nella logica difensiva, il privato che intende accedere a specifici documenti amministrativi deve motivare in modo persuasivo la strumentalità della richiesta per finalità difensive.
Da quanto sinteticamente rilevato emerge nell’ordinamento la primarietà dell’interesse dell’istante all’ostensione documentale. Tuttavia, come anticipato, la protezione e la tutela di questi interessi non è priva di limiti.
L’art. 24 della L. 241/1990 prevede una serie di limiti all’esercizio del diritto di accesso documentale. In particolare, il diritto di accesso è limitato: ai fini della tutela di interessi pubblici (segreto di Stato, procedimenti tributari, eccetera); in relazione a documenti individuati
dalla pubblica amministrazione (le singole amministrazioni possono sottrarre all’accesso alcuni documenti di cui hanno la disponibilità); di fronte a istanze massive preordinate a un controllo generalizzato; in relazione a documenti individuati dal Governo quando l’accesso può recare pregiudizio a sicurezza nazionale, relazioni internazionali, politica monetaria; nonché qualora vengano in rilievo particolari categorie di dati.
Infatti, al di là della tutela degli interessi pubblici, viene assicurato un efficace bilanciamento di interessi qualora l’oggetto dell’ostensione documentale riguardi dati riservati, dati sensibili e dati sensibilissimi.
In presenza di tali dati riservati, l’accesso è consentito se si prova la necessarietà del documento a fini difensivi; nel caso vengano in rilievo dati sensibili, l’istante deve provare la stretta indispensabilità dei documenti a fini difensivi; in relazione a dati sensibilissimi, il privato deve dimostrare la strumentalità alla difesa di un bene di pari rango.
2. L’accesso civico è disciplinato dal D.Lgs. 33/2013 ed è stato introdotto al preciso fine di attuare il principio di trasparenza.
L’art. 5 del D.Lgs. 33/2013 prevede due forme di accesso civico: semplice (comma 1) e generalizzato (comma 2).
a) L’accesso civico semplice presuppone la violazione da parte della pubblica amministrazione dell’obbligo giuridico di pubblicazione di dati e informazioni.
Infatti, il legislatore ha previsto in capo alle pubbliche amministrazioni il dovere di pubblicare sui siti istituzionali una serie di documenti e dati concernenti l’organizzazione e l’attività.
Si tratta di un’elencazione tassativa di documenti dei quali è obbligatoria la pubblicazione, la cui omissione fa sorgere il diritto di chiunque di chiedere la pubblicazione di quel documento.
Considerata la finalità dell’accesso civico e i principi di trasparenza e partecipazione che vi sono alla base, l’istanza di ostensione è soggetta a legittimazione assoluta (può essere richiesta da parte di chiunque) e non è necessario alcun nesso di strumentalità.
Peraltro, a differenza dell’accesso documentale, rispetto alle istanze di accesso civico semplice non si rinvengono controinteressati e, pertanto, non vi sono necessità di bilanciamento di interessi.
Non vi sono, infatti, neppure limiti legali in quanto il bilanciamento dei contrapposti interessi è stato compiuto ex ante dal legislatore.
b) L’accesso civico generalizzato è stato introdotto con la riforma del 2016, per assicurare trasparenza e imparzialità, anche in attuazione della sussidiarietà orizzontale.
Con questa seconda forma di accesso civico si è inteso estenderne l’ambito oggettivo, consentendo a chiunque di accedere a dati e documenti detenuti dalla pubblica amministrazione «ulteriori» rispetto a quelli oggetto di obbligo di pubblicazione.
Anche in questo caso l’accesso è consentito a chiunque. La ragione della legittimazione assoluta si comprende in considerazione della natura e delle finalità dell’accesso civico, ovverosia favorire forme partecipative e collaborative tra privati e pubblica amministrazione.
Circa la natura giuridica dell’accesso civico, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 10/2020) ha qualificato la situazione giuridica soggettiva del privato come diritto fondamentale della persona in quanto espressivo del diritto all’informazione (right to know).
A differenza dell’accesso civico semplice, per l’accesso generalizzato sono previsti alcuni limiti, che possono essere distinti in due categorie: i limiti assoluti e i limiti relativi.
Mentre i primi operano automaticamente, per i secondi il legislatore rimette alla valutazione discrezionale dell’amministrazione la ponderazione degli interessi concreti che vengano in rilievo.
Tra i limiti assoluti possono essere annoverati il segreto di Stato, specifici divieti legali e gli interessi pubblici di cui all’art. 24, comma 1 L. 241/1990. Tra i limiti relativi si rinvengono due sottocategorie. Gli interessi pubblici: sicurezza nazionale, ordine pubblico, difesa, eccetera; gli interessi privati: dati personali, corrispondenza, interessi economici e commerciali, eccetera.
In sintesi, le tre forme di accesso hanno diversi punti in comune ma anche rilevanti tratti che li differenziano
L’accesso documentale si fonda sulla sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale del privato strumentale alla tutela di un bene della vita. L’istanza è formulata per prendere visione e/o estrarre copia di documenti amministrativi per i quali non è prevista la pubblicazione; perciò, sono previsti dei limiti a tutela di interessi pubblici e privati.
L’accesso civico semplice si basa sulla trasparenza dell’azione amministrativa e, dunque, viene in rilievo nei casi in cui la pubblica amministrazione sia venuta meno all’obbligo di pubblicazione di matrice legale. In questo caso l’interesse alla pubblicazione è in capo a chiunque e non c’è bisogno di dimostrare una specifica necessità di tutela.
L’accesso civico generalizzato, infine, consente di accedere a dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria. Anche per questa forma di accesso, il privato non deve essere titolare di un interesse peculiare, tuttavia, vi sono limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti.
La privacy e la tutela dei terzi controinteressati
Come anticipato, rispetto alle istanze di accesso agli atti il richiedente deve porre attenzione alla posizione giuridica di soggetti terzi. Ciò è di primaria importanza in considerazione del necessario bilanciamento degli interessi che vengono in rilievo.
Infatti, a seconda della diversa tipologia di accesso e degli interessi meritevoli di tutela, il contemperamento è operato ex ante dal legislatore ovvero rimesso alla valutazione discrezionale della pubblica amministrazione.
In via generale, rispetto alla posizione dei soggetti terzi, opera il limite della tutela della riservatezza. Infatti, i terzi sono i soggetti controinteressati rispetto all’istanza di accesso agli atti e sono titolari di un interesse alla riservatezza dei documenti.
Dall’eventuale accoglimento dell’istanza essi possono essere pregiudicati nei loro interessi strettamente personali indicati all’art. 8 D.P.R. 352/92 (interesse epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale).
Per questo motivo, l’accesso può essere limitato o escluso a tutela della riservatezza di terzi (art. 24, co. 6, lett. d L. 241/1990).
L’art. 24, co. 7 L. 241/1990 fissa le regole per l’equilibrio tra il diritto d’accesso e la tutela della privacy riferita a particolari categorie di dati di cui al D.Lgs. 196/03, così come modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101.
In particolare, graduando l’onere probatorio in funzione della tipologia di dati che vengono in rilievo, prevale l’accesso:
– di fronte a dati riservati, se il richiedente dimostra che il documento è necessario a fini difensivi;
– di fronte a dati sensibili, quando l’istante dimostri che il documento è strettamente indispensabile a fini difensivi;
– di fronte a dati sensibilissimi qualora l’istante dimostri che il documento è strumentale alla difesa di un bene di pari rango.
La tutela della privacy è, infatti, garantita nell’ordinamento dal cd. “Codice Privacy” (D.Lgs. 196/2003, aggiornato con il D.Lgs. 101/2018), il quale contiene le disposizioni nazionali in materia di protezione dei dati personali, nei limiti previsti dal GDPR (General Data Protection Regulation – Regolamento europeo 2016/679), nonché dal D.L. 139/2021 (il cd. Decreto Capienze) che ha apportato notevoli modifiche al Codice Privacy.
Secondo la normativa richiamata sono dati personali le informazioni che identificano o rendono identificabile, direttamente o indirettamente, una persona fisica e che possono fornire informazioni sulle sue caratteristiche, le sue abitudini, il suo stile di vita, le sue relazioni personali, il suo stato di salute, la sua situazione economica, ecc.
Possono essere distinte varie categorie di dati:
– i dati che permettono l’identificazione diretta: dati anagrafici, immagini, numeri di identificazione (ad esempio, il codice fiscale);
– i dati rientranti in particolari categorie, ossia i cd. dati sensibili: quelli che rivelano l’origine razziale od etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, le opinioni politiche, l’appartenenza sindacale, relativi alla salute o alla vita sessuale;
– i dati relativi a condanne penali e reati: si tratta dei dati giudiziari, ovverosia quelli che possono rivelare l’esistenza di determinati provvedimenti giudiziari soggetti ad iscrizione nel casellario giudiziale o la qualità di imputato o di indagato.
A fronte di tali diritti meritevoli di tutela, il legislatore ha previsto alcuni strumenti di tutela in capo ai terzi. In questa sede, si anticipa che l’ordinamento ha predisposto due diverse tipologie di tutela: procedimentale e processuale.
Nell’ambito della tutela procedimentale il terzo, in qualità di controinteressato, è notiziato dell’avvio del procedimento ed ha diritto di conoscere la motivazione del provvedimento adottato dalla pubblica amministrazione.
Per quanto attiene alla tutela processuale, il terzo, a cui deve essere necessariamente notificato il ricorso, è titolare del potere di opposizione processuale, può intervenire volontariamente ad opponendum o con l’opposizione di terzo, può intervenire anche con un intervento volontario ad adiuvandum se vanta un interesse specifico.

Lavoro e previdenza / NASpI: sostegno alla disoccupazione ed incentivo all’autoimprenditorialità, tra ricerca di nuova occupazione ed incentivo al lavoro autonomo.

Il D.Lgs. n. 22/2015 ha introdotto la cd. Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego – NASpI operativa per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1 maggio 2015, con la finalità di introdurre un sussidio a favore del lavoratore per far fronte allo stato di disoccupazione involontaria. Di tale contributo possono usufruire tutti i lavoratori dipendenti, inclusi apprendisti e soci lavoratori di cooperativa che abbiano stabilito un rapporto di lavoro subordinato, con esclusione degli operai agricoli a tempo determinato o indeterminato per i quali l’ordinamento prevede invece una disciplina specifica.

Per poter avere diritto al godimento della NASpI, devono ricorrere congiuntamente due requisiti:

  1. a) oggettivo:il lavoratore deve aver perduto involontariamente la propria occupazione (vi rientrano anche le ipotesi di dimissioni per giusta causa; dimissioni avvenute durante la fruizione del congedo per maternità, risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di conciliazione ex art. 7 L. n. 604/1966, licenziamento per motivi disciplinari, conciliazione volontaria agevolata ex art. 6 D.lgs n. 23/2015, fino all’ipotesi di cessazione del rapporto a seguito di procedura di liquidazione giudiziale), e quindi trovarsi in stato di disoccupazione;
  2. b) contributivo, avere almeno tredici settimane di contribuzione da far valere nei quattro anni che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione, così come previsto nella Circolare Inps n. 142/2015.

L’art. 8 del suddetto D.Lgs. prevede e disciplina anche la diversa ipotesi in cui il lavoratore titolare della prestazione possa richiedere la liquidazione anticipata dell’importo complessivo del trattamento spettante che non gli sia stato ancora erogato al fine di avviare un’attività di lavoro autonomo o in forma individuale o per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa, nella quale il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio.

In questa ipotesi, la NASpI, anziché svolgere la mera funzione di sussidio, si trasforma in un vero e proprio incentivo all’autoimprenditorialità. La domanda va presentata a pena di decadenza entro trenta giorni dall’inizio della attività.

Sempre l’art. 8, al comma 4, stabilisce che, nel caso in cui il lavoratore contragga un rapporto di lavoro subordinato durante il periodo di copertura della NASpI sarà tenuto a restituire l’intera somma corrisposta a titolo di NASpI anticipatoria, salvo il caso in cui il rapporto di lavoro subordinato sia instaurato con la cooperativa sociale di cui abbia sottoscritto una quota di capitale sociale.

La ratio di quest’ultima disposizione, dal contenuto letterale apparentemente chiaro, se da un lato è volta ad evitare comportamenti antielusivi e frodatori da parte del percipiente, dall’altro lascia poco spazio per una diversa interpretazione al fine dell’applicazione alla fattispecie concreta ed è stata oggetto più volte di attenzione da parte della Corte costituzionale a seguito dei rinvii per questioni di legittimità costituzionale da parte dei giudici di merito.

A tale proposito si segnala la sentenza n. 194/2021 della Corte costituzionale, riguardante la fattispecie di un lavoratore che era stato assunto come lavoratore subordinato per pochi mesi. Il Giudice remittente (Tribunale di Torino) aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale per contrasto: con l’art. 3, primo comma della Cost. e con il principio di razionalità, laddove era stata pretesa la restituzione integrale dell’importo ricevuto a fronte di un rapporto di lavoro subordinato di pochi mesi e tale da non compromettere la ratio della disposizione.

In questo caso, la Corte, ribadendo la “funzione promozionale” della NASpI anticipatoria, con l’obiettivo di favorire ed incentivare il lavoratore nel reimpiego in una attività lavorativa diversa da quella subordinata, volta pertanto a convertire i lavoratori subordinati in imprenditori, per creare a loro volta nuovi posti di lavoro, decomprimendo il mercato, sottolinea come la restituzione integrale della NASpI, non abbia carattere sanzionatorio, bensì “… natura di indice rivelatore della mancata effettività e autenticità di una attività lavorativa autonoma e di impresa, che giustifica la corresponsione del contributo in un’unica soluzione”, tale cioè da non lasciare all’Ente previdenziale alcun margine di discrezionalità.

Dall’altro lato, la Corte non rilevava violazione al principio di razionalità nella restituzione integrale dell’incentivo, in quanto la sua applicazione risulta limitata al solo caso del lavoratore che, durante la copertura NASpI, accetti un rapporto di lavoro subordinato evidenziando però “come la disciplina de qua potrebbe prestarsi a soluzioni più flessibili, la cui individuazione rientra nel campo della discrezionalità lasciata al legislatore”.

Proprio in relazione alla assenza di flessibilità di interpretazione della disposizione di cui all’art. 8, comma 4 del D.Lgs. n. 22/2015, appare degna di nota l’ultima pronuncia della Corte costituzionale, n. 90 del 20 maggio 2024. Il caso concreto riguardava un soggetto che, a seguito della percezione della NASpI anticipata, aveva aperto un’attività di ristorazione per poi trovarsi costretto a chiuderla prima del termine dei due anni di copertura NASpI. Lo stesso agiva in giudizio per impugnare il provvedimento restitutorio dell’Inps riguardante l’intera somma anticipata, deducendo che la chiusura anticipata dell’attività autonoma era stata causata dalle restrizioni COVID, ossia per cause a lui non imputabili. Il Tribunale di Lecce, investito del caso, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4 del D.Lgs. n. 22/2015 nella parte in cui prevede, prescindendo da ogni possibilità di valutare il caso concreto, l’obbligo di restituire l’intera anticipazione NASpI, se il beneficiario stipuli un contratto di lavoro subordinato entro il termine di scadenza del periodo per cui l’indennità è riconosciuta.

La Corte, in questo caso, ha ritenuto fondata la questione sollevata perché, a fronte dell’assenza di una concreta valutazione delle motivazioni della cessazione dell’attività autonoma, la norma è da ritenersi lesiva del principio di proporzionalità e ragionevolezza. Invero, secondo la Consulta, se l’attività imprenditoriale è stata effettivamente avviata ed esercitata per un periodo significativo, la finalità antielusiva della norma è da ritenersi soddisfatta.

Pertanto, se il percettore dell’indennità (anche se di incentivo all’autoimprenditorialità) si trova nell’impossibilità di continuare l’attività imprenditoriale per motivi a lui non imputabili, la restituzione della NASpI deve essere proporzionale rispetto alla durata del nuovo lavoro subordinato, poiché solo per quel periodo può considerasi l’indennità di disoccupazione priva di causa.

Diversamente, evidenzia la Corte, se il fallimento dell’attività imprenditoriale è collegabile al mero rischio di impresa, il percettore continua ad essere obbligato alla restituzione totale dell’indennità percepita.

Tributario / Il fermo amministrativo: disciplina, procedura e implicazioni socio-giuridiche

Il fermo amministrativo è un istituto disciplinato dall’art. 86 del DPR 602 del 1973, attraverso il quale l’Amministrazione Finanziaria o altri enti pubblici come Comuni, Regioni, INPS e lo Stato, tramite gli Agenti della riscossione, dispongono il “blocco” dei beni mobili registrati come veicoli, imbarcazioni e aeromobili.

Questa misura comporta, fino alla rimozione del cd. blocco, il divieto di circolazione del veicolo, che tuttavia rimane in custodia del proprietario.

La normativa prevede che, in caso di violazione da parte del proprietario dell’automezzo del dispositivo del fermo, si possa incorrere – alternativamente o cumulativamente – nel sequestro del bene e/o in una sanzione pecuniaria.

Data l’efficacia e l’utilità dell’istituto, il legislatore, con il D.L. 13 maggio 2011, n. 70, art. 7, lett. g) quinquies, ne ha ampliato la portata applicativa, prevedendo la sua estensione sia nel caso di qualunque debito a titolo di IRPEF o IVA, sia nel caso di sanzione al C.d.S. che di violazioni contributive, purché di importo inferiore ad Euro 2.000.

Il fermo amministrativo si è rivelata una misura di grande efficacia nell’ambito della riscossione dei crediti tributari e delle sanzioni amministrative. Questo strumento giuridico mira infatti a garantire che i debiti nei confronti dello Stato o di altri enti pubblici vengano saldati, costituendo esso un mezzo di stringente coercizione economica.

Va anche detto che la decisione di procedere con l’intimazione di un fermo amministrativo non è immediata: il contribuente inadempiente viene dapprima avvisato con una comunicazione, denominata preavviso di fermo, che prevede un termine di trenta giorni per regolarizzare la sua posizione. Solo se detto termine spira senza che il debitore si adoperi per assolvere alla sua esposizione, l’Amministrazione procede con l’iscrizione effettiva del fermo sul veicolo.

Il preavviso di fermo rappresenta un vero e proprio “avvertimento” per il destinatario, il quale, se rimane inadempiente nel termine di legge di trenta giorni dalla ricezione dell’atto, vedrà il provvedimento diventare esecutivo e, quindi, iscritto nel Pubblico Registro Automobilistico.

Dal punto di vista giuridico, il preavviso di fermo è considerato autonomamente impugnabile, a prescindere dalla successiva ed eventuale iscrizione del fermo nel pubblico registro. La Suprema Corte di Cassazione ha precisato che il preavviso di fermo amministrativo, introdotto nella prassi sulla base di istruzioni fornite dall’Agenzia delle Entrate alle società di riscossione al fine di superare il disposto dell’art. 86, comma 2, D.P.R. 602 del 1973, rappresenta un atto autonomamente ed immediatamente impugnabile, anche se riguardante obbligazioni di natura extra-tributaria. Questo poiché si tratta di un atto funzionale a portare a conoscenza dell’obbligato una determinata pretesa dell’Amministrazione, rispetto alla quale sorge l’interesse alla tutela giurisdizionale per il controllo della legittimità sostanziale della pretesa stessa (Cass., SS.UU., 7 maggio 2010, n. 11087).

Si rammenti anche che l’Agente per la riscossione non può porre in essere azioni cautelari come il predetto fermo amministrativo o l’ipoteca ovvero esecutive come il pignoramento, senza aver inviato almeno due solleciti di pagamento a distanza di sei mesi l’uno dall’altro. Va detto che tali invii devono avvenire per mezzo di posta ordinaria o tramite strumenti analoghi di posta elettronica o posta elettronica certificata.

Se diversamente concepito, l’atto di fermo non garantirebbe il diritto di difesa del contribuente, che avrebbe tutela solo al momento della sua esecutività a seguito dell’iscrizione nel pubblico registro.

È possibile per il destinatario dell’atto, come forma di garanzia, ottenerne l’annullamento. Per comprendere gli strumenti a disposizione, è necessario fare una distinzione tra crediti di natura tributaria e crediti di natura non tributaria. Per i primi, ci si rivolge alla Corte di Giustizia Tributaria, la quale ha giurisdizione sulle controversie tributarie. Per i secondi, è possibile porre in essere un’azione di opposizione ex art. 615 c.p.c., senza limiti di tempo, se si ricorre per prescrizione; per tutti gli altri casi, è prevista l’opposizione agli atti esecutivi nel termine di venti giorni, ex art. 617 c.p.c. Per i crediti INPS, è previsto il ricorso dinanzi al giudice del lavoro entro il termine di quaranta giorni, ma solo per situazioni inerenti al merito dell’iscrizione al ruolo. La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha stabilito che con riferimento alle controversie aventi per oggetto il provvedimento di fermo di beni mobili registrati, di cui all’art. 86 del D.P.R. n. 602/1973, ai fini della giurisdizione rileva la natura dei crediti posti a fondamento del provvedimento di fermo, con la conseguenza che la giurisdizione spetterà al giudice tributario o al giudice ordinario a seconda della natura tributaria o meno dei crediti, ovvero ad entrambi, se il provvedimento di fermo si riferisce in parte a crediti tributari e in parte a crediti non tributari (Cass. SS. UU. 5 giugno 2008, n. 14831).

Proprio per la sua efficacia ma anche invasività della sfera personale del contribuente, lo  strumento non è andato esente da contestazioni. Una delle principali critiche al fermo amministrativo riguarda la sua percepita durezza e il potenziale impatto sproporzionato sulla vita quotidiana dei debitori. Il fermo di un veicolo può infatti causare gravi difficoltà, specialmente a coloro che utilizzano l’auto per lavoro o per esigenze familiari impellenti. Tuttavia, è importante sottolineare che il fermo amministrativo è considerato una misura di ultima istanza, adottata solo dopo che altri tentativi di recupero del credito sono falliti.

Esistono alcune tutele per i debitori. Ad esempio, il fermo non può essere disposto se il veicolo è indispensabile per l’attività lavorativa del debitore. In tali casi, il contribuente può presentare una richiesta all’Agente della riscossione, corredata da adeguata documentazione, per evitare il fermo o per ottenerne la revoca. È anche possibile richiedere una rateizzazione del debito che, se accordata, può sospendere l’efficacia del fermo amministrativo, consentendo al debitore di utilizzare il veicolo mentre provvede al pagamento dilazionato delle somme dovute.

L’efficacia del fermo amministrativo come strumento di riscossione è confermata dai dati statistici, che mostrano come molti debitori, una volta ricevuto il preavviso, si affrettino a saldare il loro debito per evitare il blocco del veicolo. Tuttavia, questo risultato positivo non deve far dimenticare l’importanza di garantire un equo trattamento per tutti i cittadini e di adottare misure che rispettino pienamente i principi di proporzionalità e di giustizia.

Lavoro e previdenza / Malattia del lavoratore ed assenza alla visita fiscale

Il D.L. n. 663/1979, all’art. 2, convertito in Legge 29 febbraio 1980, n. 33, fornisce la definizione di malattia, da intendersi come “infermità comportante l’incapacità del lavoratore a svolgere la propria prestazione lavorativa per causa non inerente al lavoro”.

Quindi si considerano “malattia e/o infortunio non professionale” tutti quegli eventi morbosi che determinano un’inabilità temporanea e concreta ad eseguire la prestazione lavorativa, consentendo al lavoratore di assentarsi legittimamente dal lavoro, mantenendo al contempo il diritto al trattamento economico nonché all’indennità di malattia.

In questi casi, il lavoratore deve provvedere tempestivamente a comunicare il proprio stato di morbilità al datore di lavoro, attraverso idonea certificazione medica, e l’indirizzo di reperibilità ai fini di eventuali controlli medici. Infatti, sia il datore di lavoro che l’I.N.P.S. hanno la facoltà di verificare l’effettività dello stato morbile del lavoratore.

Tutta la procedura, dalla richiesta di visita medica di controllo alla comunicazione dell’esito del suddetto controllo, si svolge in materia informatizzata attraverso apposito canale dedicato gestito dall’Ente di Previdenza. Una volta inviata la richiesta di controllo da parte del datore, l’I.N.P.S. provvederà a designare il medico che si recherà presso l’indirizzo di reperibilità indicato precedentemente dal lavoratore, nelle fasce di garanzia previste dalla legge.

La disciplina delle modalità di svolgimento della visita fiscale è contenuta  nel Decreto Legge n. 206 del 17 ottobre 2017della Presidenza del Consiglio dei Ministri della Funzione Pubblica, contenente il “Regolamento recante le modalità per lo svolgimento delle visite fiscali e per l’accertamento delle assenze dal servizio per la malattia, nonché l’individuazione delle fasce orarie di reperibilità, ai sensi dell’articolo 55-septies, co. 5-bis, del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165”.

Può accadere, però, che il lavoratore risulti assente alla visita fiscale del medico verificatore. In questi casi, il medico deve lasciare l’avviso di presentazione a visita medica ambulatoriale per la prima giornata lavorativa successiva, presso l’Ufficio medico legale dell’Inps competente per territorio. Le modalità operative a cui il medico dell’INPS deve attenersi, nell’espletamento di tale adempimento, sono quelle previste dalla Circolare Inps n. 87 del 12 settembre 2008, avente ad oggetto “Trattamento dei dati sanitari nella gestione della certificazione di malattia”.

Circolare la quale, ai sensi dell’art. 3, “Trattamento dati sensibili nella certificazione malattia”, al punto 9)  dispone che il funzionario medico deve inserire il prescritto Avviso in busta chiusa sigillata, su cui deve indicare il numero di cronologico di notificazione, senza apporre ulteriori segni e/o indicazioni da cui possa desumersi il contenuto dell’atto (ai sensi dell’art. 137 cpc, in tema di notificazioni), comunicando il numero di cronologico e il nominativo del lavoratore assente, al Centro Medico Legale dell’Inps. La busta deve essere lasciata nella cassetta per le lettere del lavoratore ovvero consegnata a una persona di famiglia o addetta alla casa, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace. In mancanza di tali persone, la copia è consegnata al portiere dello stabile in cui si trova l’abitazione indicata ed, in mancanza del portiere, anche ad un vicino di casa, che accetti di riceverla (come prescrive l’art. 139 c.p.c. in tema di notificazioni), facendo in questo caso sottoscrivere apposita ricevuta di consegna.

Il verbale della visita fiscale, vergato dal medico redigente, viene poi inoltrato al datore di lavoro, che, nel caso di assenza a visita del lavoratore, potrà assumere tutti i provvedimenti del caso, sia a carattere economico, quali trattenuta dello stipendio per le giornate di malattia, che disciplinare.

Pertanto, nel caso in cui il lavoratore si debba allontanare dal proprio domicilio, durante le fasce di reperibilità, è altamente consigliabile che questi in primo luogo, avvisi anticipatamente il proprio datore lavoro, al fine di non risultare assente ingiustificato all’eventuale visita fiscale, fornendo opportuna documentazione a supporto, o alternativamente dovrà comunicare direttamente all’I.N.P.S. la necessità dell’allontanamento dal proprio domicilio.

Come già sopra evidenziato, l’allontanamento dal proprio domicilio durante le fasce di reperibilità (ossia dalle ore 10,00 alle ore 12,00 e dalle 17,00 alle 19,00), compresi domeniche e festivi, al di fuori dei casi previsti dalla legge comporta sanzioni graduali a carattere economico: nel caso di assenza ingiustificata alla prima visita, vi è la perdita del trattamento per i primi dieci giorni di malattia; nel caso di assenza alla seconda visita, oltre alla sanzione precedente è comminata l’ulteriore trattenuta del 50% dell’indennità di malattia per i giorni successivi al decimo fino al termine della malattia; infine, in caso di infrazione anche alla terza o successiva visita, si ha l’interruzione totale dell’erogazione dell’indennità da parte dell’I.N.P.S. dal giorno di tale ulteriore assenza.

Accanto alle descritte sanzioni economiche, il datore di lavoro potrà dare luogo all’apertura del procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori che, in relazione alla gravità del fatto, si può concludere con la irrogazione della proporzionale sanzione disciplinare (tra quelle previste nella Contrattazione collettiva).

Lavoro e previdenza / Lo straining tra medicina legale ed apprezzamento giuridico

Il termine straining ha origine dall’inglese “to strain”, ovverosia “forzare, stringere, mettere sotto pressione” ed individua una nozione di tipo medico legale utile in ambito tecnico-giuridico in quanto espressione di un comportamento datoriale contrario ai doveri risultanti dall’art. 2087 c.c.

Secondo la definizione del Dott. Herald Ege, per “straining” si   intende: “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante”.

Circa l’esatta individuazione delle condotte, il Dott. Ege ritiene configurabile lo straining in considerazione di alcuni indici come l’ambiente lavorativo, il tipo di azioni realizzate, la loro frequenza anche isolata con effetti duraturi, la durata di almeno sei mesi, le posizione di inferiorità gerarchica di chi subisce, l’andamento secondo fasi successive, l’intento persecutorio o l’obiettivo discriminatorio.

La nozione è entrata nel panorama giuridico, anche italiano, quale categoria e fattispecie autonoma già nel 2005 quando, nel corso di una causa pendente innanzi al Tribunale di Bergamo, veniva nominato consulente tecnico proprio il Dott. Ege ai fini della valutazione della ricorrenza di condotte mobbizzanti. Egli, non riscontrando gli estremi del mobbing, riteneva invece essersi concretata la diversa ipotesi di straining.

Secondo la giurisprudenza che si è di recente sviluppata, lo straining si pone in rapporto di continenza rispetto alla più ampia fattispecie di mobbing, costituendone un minus o meglio una forma attenuata.

Nello straining, infatti, sembra sufficiente anche una sola azione intenzionale idonea a sottoporre il lavoratore a uno stress superiore a quello normalmente richiesto dalla natura della prestazione.

Alla luce della giurisprudenza di legittimità più recente, infatti: “è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844)”.

Rilevante e sufficiente, pertanto, appare non la reiterazione delle condotte datoriali, bensì l’effetto dannoso che anche una sola azione produce sulla condizione lavorativa della vittima e conseguentemente sulla salute del lavoratore.

A tale proposito, la norma quadro in materia, ossia l’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro l’obbligo di assicurare la salute dei lavoratori, intesa quale integrità psico-fisica, con la massima diligenza possibile. Secondo un cospicuo orientamento giurisprudenziale, infatti, il datore di lavoro ha l’onere di prevenire, evitare ed eliminare: “situazioni <stressogene> che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, Cass. n. 3291 del 2016)” (Cass. 7844/2018).

Pur nella coscienza di avere a che fare con una fattispecie dai contorni ancora in divenire, giova precisare che la giurisprudenza propenda nel sostenere la configurabilità dello straining anche in assenza della prova compiuta circa la vessatorietà/discriminatorietà delle condotte datoriali ed il preciso intento persecutorio nei confronti del lavoratore, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare in ogni caso situazioni stressogene sul luogo di lavoro (Cass. civ. sez. lav. 4 ottobre 2019, n. 24883).

Lavoro e previdenza / La conservazione dei diritti dei lavoratori nel trasferimento d’azienda

L’art. 2112 c.c. introduce la disciplina del trasferimento d’azienda sancendo un principio cardine: “In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”.

Lo scopo della disposizione è tutelare i rapporti di lavoro in essere con il soggetto cedente al momento del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, proteggendo il lavoratore dalle modificazioni soggettive della parte datoriale. Conseguenza immediata di questa tutela è che i rapporti di lavoro proseguono senza soluzione di continuità in capo alla nuova datrice di lavoro, ossia l’impresa cessionaria.

L’effetto quindi che si produce, alla luce della norma richiamata, non è unico, in quanto essa garantisce -oltre alla continuazione del rapporto di lavoro – anche la conservazione dei diritti che vi sono connessi.

Al riguardo, la dottrina ha ritenuto sussistere una successione del complesso delle posizioni giuridiche, attive e passive, che qualificano il rapporto di lavoro.

Pertanto, muovendo da tale assunto, i lavoratori avrebbero diritto al mantenimento globale del trattamento giuridico e retributivo già fruito alle dipendenze della impresa cedente.

Tuttavia, in concreto, quanto all’individuazione dei diritti che permangono inalterati a seguito della cessione d’azienda o di ramo d’azienda,  vale rilevare che la locuzione utilizzata dall’art. 2112 è ampia e tendenzialmente omnicomprensiva, riferendosi genericamente a “tutti i diritti” che derivino dal rapporto di lavoro.

Nello specifico, la Corte di Cassazione (cfr. sent. n. 19681/2003), alla luce del quadro normativo risultante dal disposto dell’art. 2112 c.c. e dalla Direttiva 77/187/CEE, ha individuato un nucleo di diritti che il lavoratore indubbiamente conserva al momento del passaggio alle dipendenze del cessionario: i cd. diritti quesiti. Si tratta di tutti quei diritti già maturati dal lavoratore al momento del trasferimento, oramai facenti parte della sua sfera patrimoniale.

 

Per effetto del trasferimento d’azienda, dunque, il lavoratore mantiene inalterati i diritti che trovano il loro fondamento e riconoscimento sia nel contratto individuale di lavoro sia nella legge, essendo questi ultimi conservati a prescindere dai mutamenti soggettivi del datore di lavoro. Per cui, inalterata la normativa di riferimento, il mutare del datore di lavoro dal punto di vista soggettivo non interferisce sulla maturazione dei diritti del lavoratore.

A titolo esemplificativo, i lavoratori ceduti non possono vedersi alterare o comprimere il diritto a svolgere le medesime mansioni esercitate per la cedente (nei limiti di cui all’art. 2103 c.c.). Lo stesso vale a dirsi quanto al riconoscimento di mansioni superiori, laddove una siffatta attribuzione trovi fonte e regolazione nella legge.

Infatti, entrambe le ipotesi trovano fondamento e disciplina direttamente nella legge che non subisce influenza al mutare del datore di lavoro.

Ancora, da un punto di vista economico, invariato rimane l’eventuale superminimo individuale, laddove disciplinato dal contratto individuale di lavoro. In questo caso, il diritto alla conservazione trova sostegno nella clausola contrattuale volta a disciplinare una singola posizione.

D’altro canto, pochi dubbi si pongono quanto alla conservazione dell’anzianità, alla luce della chiara giurisprudenza di legittimità (paradigmatiche in tal senso Cass. n. 2609/2008 e n. 19564/2006). Si tratterebbe, infatti, di un principio assoluto e non negoziabile, che trova fondamento nell’automatismo del transito del lavoratore dall’una all’altra parte datoriale, prescindendo da una nuova assunzione. Dal punto di visto economico, la giurisprudenza riconosce ai lavoratori il diritto all’applicazione da parte della cessionaria degli scatti di anzianità corrispondenti all’anzianità maturata presso la cedente, laddove appunto sia fornita la prova della sussistenza di un pregresso diritto alla maturazione di scatti di anzianità presso l’impresa cedente (Cass. n. 14208/2013, già in Cass. n. 6428/98).

Civile / Diffamazione a mezzo stampa: risarcibilità del danno non patrimoniale in favore delle persone giuridiche

La divulgazione di notizie lesive dell’onore e della reputazione altrui, oltre a configurare il reato di diffamazione disciplinato all’art. 595 c.p., costituisce un illecito civile ed è pertanto fonte di obbligazione risarcitoria ex art. 2043 c.c.

I danni da diffamazione, generalmente, non involgono soltanto la sfera patrimoniale del soggetto danneggiato, ma si estendono a quelle situazioni giuridiche inerenti alla persona, non connotati da valore di scambio, e che sono pacificamente riconducibili nella categoria del danno non patrimoniale,  disciplinato all’art. 2059 c.c.

Nel nostro ordinamento, infatti, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore – costituzionalmente garantito – quale, a titolo esemplificativo, l’identità personale, il nome,  l’immagine e la reputazione.

Ebbene, tali diritti ricevono tutela principalmente con riferimento alle persone fisiche. Tuttavia, non vi è ragion di ritenere che la tutela di cui si discute sia preclusa per le persone giuridiche.

Il codice civile, infatti, disciplina, nel primo libro, sia le persone fisiche (art. 1 ss.) sia le persone giuridiche (art. 11 ss.), come due species di un unico genus, cui vengono riferite le norme dei successivi libri, nei limiti della compatibilità. Ciò porta ad escludere l’applicabilità alle persone giuridiche unicamente di quelle norme che presuppongono una determinata condizione fisica del soggetto (quali, ad esempio, quelle relative al matrimonio, alla filiazione ed ai rapporti di diritto familiare in genere).

Pertanto, anche le persone giuridiche possono godere di quelle forme di protezione che discendono direttamente dal dettato costituzionale ed in modo particolare dalla previsione generale dell’art. 2 Cost. che tutela le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo.

Sul punto, si richiama il granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità, in virtù del quale il danno non patrimoniale all’immagine ed alla reputazione si può configurare anche nei confronti della persona giuridica quando il fatto lesivo colpisce una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione (Cass., sez. I, n. 12929/2007; Cass., sez. III, n. 29185/2008; Cass., sez. III, n. 20643/2016).

Ebbene, poiché l’immagine della persona giuridica rientra tra tali diritti, può essere risarcito anche il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica nella quale si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che tale riduzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente, e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della riduzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica sovente interagisce.

Quanto alla prova della lesività della condotta e del conseguente verificarsi del danno-conseguenza, la giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato che essa è raggiunta anche mediante il ricorso a presunzioni, quali, ad esempio la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima (ex multis: Cass. civ., sez. 3, 26 ottobre 2017 n. 25420, Cass. civ., sez. 6, 31 marzo 2021 n. 8861).

 

Infine, la quantificazione e liquidazione di tali danni dovrà avvenire in ragione di un criterio equitativo, secondo parametri cristallizzati dal lavoro della giurisprudenza ma che, in ogni caso, dovranno aver riguardo alla coscienza nei responsabili della potenzialità lesiva della pubblicazione della altrui reputazione, alla attribuzione di fatti offensivi determinati e circostanziati, alla diffusione del giornale, alla credibilità di cui gode presso il pubblico, alla collocazione ed evidenza grafica degli articoli stessi, alla gravità dell’addebito, alla suggestione indotta nei lettori.

Lavoro e previdenza / Buste paga ed insinuazione allo stato passivo fallimentare

Il prospetto paga (o cedolino) emesso dal datore di lavoro, se recante firma o sigla o timbro di quest’ultimo, fa piena prova del credito del lavoratore di cui si chiede l’insinuazione al passivo fallimentare.

Di contro, al curatore rimane la facoltà di contestare le risultanze delle buste paga con altri mezzi di prova ovvero con specifiche deduzioni e argomentazioni volte a dimostrarne l’erroneità, la cui valutazione finale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.

Tutto questo perché il valore probatorio dei prospetti paga discende dal fatto che il contenuto degli stessi è obbligatorio e sanzionato in via amministrativa e, per ciò solo, è sufficiente a provare il credito maturato dal lavoratore.

Tali principi, da ultimo, sono stati ribaditi da Cass. ord. 27 maggio 2022, n. 17312, a conferma di un orientamento pluri-consolidato (cfr. anche Cass. civ., 19 gennaio 2022, n. 1649; Cass. civ. sez. lav., 7 gennaio 2021, n. 74; Cass. civ., 11 dicembre 2019, n. 32395).

Nella predetta ord. n. 17312/22 la questione era stata posta da una lavoratrice che aveva presentato istanza di insinuazione al passivo del fallimento del proprio datore di lavoro, chiedendo l’ammissione, in via privilegiata, di crediti di lavoro a titolo di ferie non godute, indennità di mancato preavviso, ratei relativi alle mensilità aggiuntive e di T.F.R. ma che aveva ricevuto il diniego all’ammissione da parte del giudice delegato.

Il problema posto all’attenzione del giudice di legittimità riguardava la prova del credito vantato dal lavoratore dipendente dell’impresa fallita.

Come è noto, in sede di formazione dello stato passivo, le buste paga allegate dal creditore alla propria istanza di insinuazione dimostrano l’esistenza del credito fatto valere.

La Corte di Cassazione ha dato continuità all’indirizzo sopra richiamato ed ha rilevato il valore probatorio dei prospetti paga prodotti in atti dalla lavoratrice, anche in considerazione del fatto che la procedura fallimentare non aveva in alcun modo contestato l’asserita erroneità dei dati in esse contenuti.

Tuttavia, nella prassi è frequente che il creditore non chieda semplicemente l’ammissione al passivo per la mancata corresponsione di spettanze retributive attestate dai cedolini paga, ma anche il riconoscimento di differenze retributive derivanti da altre rivendicazioni, come può essere l’adibizione a mansioni superiori. In detta ipotesi, poiché l’istanza proposta non troverà accoglimento per difetto degli elementi costitutivi del credito fatto valere, lo strumento per ottenere il riconoscimento della domanda proposta da parte del lavoratore romane quello dell’opposizione allo stato passivo.

Giova precisare che una simile procedura si configura come un vero e proprio giudizio ordinario di cognizione in cui trovano applicazione le regole generali in tema di onere della prova. Per l’effetto, l’opponente sarà tenuto a fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto di credito; all’opposto, sulla curatela graverà l’onere di dimostrare l’esistenza di fatti modificativi, impeditivi o estintivi dell’obbligazione (Cass. civ. sez. lav., 3 marzo 2021, n. 5847).

Pertanto, con riguardo alle differenze retributive rivendicate, sarà onere del lavoratore provare in maniera certa ed inequivoca l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società fallita e lo svolgimento del suddetto rapporto secondo le modalità dedotte. La prova della prestazione lavorativa in concreto effettuata, della sua durata, nonché dell’effettivo impegno in termini di giorni e di ore non potrà essere fornita mediante la produzione delle buste paga, dal momento che le voci retributive richieste saranno ulteriori o diverse rispetto a quelle in esse indicate. Se questo è vero, ne deriva che l’onere probatorio può essere assolto mediante prova testimoniale o documentale (diversa dai prospetti paga), sempre che queste offrano elementi certi in ordine alla sussistenza dei fatti posti dall’opponente a fondamento della domanda. Naturalmente, il mancato raggiungimento della prova comporterà inevitabilmente il rigetto della domanda proposta.