L’associazionismo dei consumatori sul territorio

L’associazionismo consumeristico ha avuto un forte radicamento anche sul territorio in ragione tanto del coagularsi delle istanze degli utenti intorno a progetti, idee e persone operanti in ambito locale, quanto in forza di leggi ed istituzioni regionali, provinciali e comunali che hanno favorito lo sviluppo ed il consolidamento delle nascenti strutture organizzative locali.

Nella fattispecie, a livello di normazione cd. secondaria (inferiore agli atti normativi nazionali) sono apparse una serie di leggi regionali che hanno provveduto a disciplinare numerosi aspetti dei rapporti di consumo e degli strumenti a disposizione delle organizzazioni consumeristiche territoriali.

L’attività delle amministrazioni comunali e provinciali si sono concentrate nella istituzione di uffici per la tutela del consumatore ovvero di accordi di partenariato con i livelli comunali e provinciali delle associazioni consumeristiche di rilevanza nazionale.

La legislazione regionale, non avendo competenze esclusive sui temi del consumerismo, si è occupata prevalentemente di finanziamento di associazioni ovvero dell’istituzione di organismi regionali di natura consultiva in materia di diritto dei consumatori.

La Regione Lazio, tra le prime in senso cronologico, ha istituito, con Legge regionale n. 44 del 10 novembre 1992, il CRUC – Comitato regionale degli utenti e dei consumatori – al fine di assicurare la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti dei beni e servizi, da un alto, e di promuovere l’associazionismo tra i consumatori, dall’altro[1].

Il Comitato è composto dai rappresentanti delle associazioni degli utenti e consumatori e da cinque membri esperti in materia nominati dal Presidente della Giunta regionale.

Nel 2005 è stato sottoscritto un protocollo d’intesa tra la Regione e le associazioni regionali dei consumatori e degli utenti allo scopo di incrementare le attività di sostegno, informazione, difesa e tutela dei consumatori mediante l’elaborazione di un programma complessivo pluriennale.

All’art. 8 della Legge regionale n. 44/1992, istitutiva del CRUC, è previsto un programma di interventi finanziari di sostegno alle attività delle associazioni dei consumatori ammesse nel CRUC[2].

Alla determinazione del capitolo di spesa annuale si provvede con legge della Regione Lazio di approvazione del bilancio dei singoli esercizi finanziari.

Anche la Regione Lombardia[3] ha operato sulla falsariga della Regione Lazio.

Il riconoscimento del ruolo e delle attività delle associazioni dei consumatori e degli utenti viene attuato attraverso l’istituzione dell’Elenco delle associazioni riconosciute dalla Regione Lombardia, nonché la costituzione del Comitato Regionale per la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti (CRCU) che, come precisato nel sito web della regione (sub Tutela dei consumatori ed utenti – associazioni regionali), svolge funzioni che “non si esauriscono nel supporto consultivo o nel racconto e collaborazione con gli altri soggetti preposti alla tutela del consumatore, ma si estendono alla formulazione di proposte e contributi utili alla definizione della programmazione regionale e in ordine alle leggi ed ai regolamenti di significativo rilievo nelle materie oggetto della legge; esso è composto dall’Assessore competente per materia e dai rappresentanti delle Associazioni riconosciute nell’elenco stesso”.

La legge regionale regolamentatrice della materia[4] è la n. 6 del 3 giugno 2003, è rubricata come “Norme per la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti” ed al suo art. 1 ha come finalità, in particolare, la tutela della salute e dell’ambiente, la sicurezza e qualità dei prodotti e dei servizi, la corretta informazione ed educazione al consumo, la trasparenza e l’equità nei rapporti contrattuali. Conseguentemente, la Regione si impegna a promuovere lo sviluppo dell’associazionismo di consumatori ed utenti, nel rispetto dell’autonomia e indipendenza delle singole associazioni, l’azione degli enti pubblici e dei soggetti privati, valorizzando la collaborazione con il sistema camerale e lo sviluppo di azioni coordinate tra i vari soggetti coinvolti.

All’art. 2 della legge si sancisce che la Regione sostiene l’attività delle associazioni senza scopo di lucro con ad oggetto la tutela dei consumatori e degli utenti, se in possesso dei requisiti descritti nel medesimo articolo di legge.

Tali associazioni vengono iscritte in apposito elenco, istituito presso la Direzione competente della Giunta regionale, che viene aggiornato annualmente.

L’iscrizione costituisce requisito necessario e sufficiente all’accesso ai finanziamenti regionali.

Con l’art. 3 è stato istituito il Comitato regionale per la tutela dei diritti dei consumatori e degli utenti, con compiti di concorrere alla definizione delle linee di programmazione regionale e alla formulazione di proposte di leggi e regolamenti in materia, in particolare in tema di informazione ed educazione dei consumatori, proporre alla Giunta regionale indagini, studi e ricerche sulla tutela dei consumatori, collaborare con le Camere di Commercio, promuovere il coordinamento tra le varie associazioni, curare i rapporti con organismi analoghi di altre regioni in ambito nazionale ed europeo, esaminare l’andamento generale dei prezzi dei prodotti e delle tariffe, proporre azioni coordinate con imprese e pubbliche amministrazioni.

In esecuzione al dettato della legge regionale ed in forza del Regolamento regionale 1 ottobre 2003, n. 21 circa l’Elenco regionale delle associazioni dei consumatori e degli utenti si è data concreta attuazione al predetto Comitato regionale (sinteticamente CRCU) con DPGR (decreto presidente giunta regionale) 14 luglio 2005, n. 11161[5], in cui, tra l’altro, si è indicata la composizione, individuati i membri di appartenenza e nominato il Presidente nella persona dell’Assessore al Commercio, Fiere e Mercati.

Per l’effetto, le associazioni, iscritte nel predetto Elenco, hanno indicato i loro rappresentanti presso il Comitato e, tra di essi, è stato nominato il vice-presidente.

Ebbene, alla luce degli esempi richiamati in materia, si apprezza come gli organismi pubblici locali abbiano oramai preso atto del fenomeno consumeristico, come fenomeno storico, politico e sociale,  abbiano consentito il suo inserimento nel moto dei processi decisionali democratici, ne assicurino la sopravvivenza e la crescita anche tramite strumenti pubblici di incentivazione e ne favoriscano le azioni collettive attuabili a livello locale, sulla falsariga dei riconoscimenti e delle modalità di azione del fenomeno consumeristico nazionale.

[1] Cfr. il sito ufficiale della Regione Lazio www.regione.lazio.it

[2] La Legge regionale n. 44/192 prevedeva, nelle sue disposizioni finanziarie, che per l’attuazione del programma della legge fosse stanziata una spesa di Lire 400 milioni

[3] Cfr. il sito ufficiale della Regione Lazio www.regione.lombardia.it

[4] La legge è stata pubblicata in BURL – Bollettino Ufficiale Regione Lombardia n.  23 del 6 giugno 2003

[5] Il decreto è stato pubblicato in BURL – Bollettino Ufficiale Regione Lombardia n.  29 del 18 luglio 2005

 

Tutela dei consumatori e tutela delle associazioni dei consumatori

Al fine di tutelare al meglio i diritti dei consumatori, le organizzazioni che in Italia si occupano della tutela dei consumatori hanno mirato sempre più a veder riconosciute prerogative, diritti e poteri che consentissero la possibilità di monitoraggio, ricognizione, indagine ed, eventualmente, azione in difesa dei consumatori.

A ciò si è puntato da parte dell’associazionismo italiano attraverso la ricerca e la conquista del riconoscimento statale, in particolare mediante l’iscrizione nello speciale elenco tenuto dall’allora Ministero delle Attività Produttive e l’inserzione di diritto nel gruppo delle associazioni componenti il Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti (CNCU)[1].

Riconoscimento pubblico fondato sul requisito della esclusività dell’oggetto: ai fini della qualifica di associazione dei consumatori riconosciuta ed iscritta nell’elenco del Ministero costituisce presupposto indefettibile il previo accertamento che l’ente richiedente l’iscrizione si occupi esclusivamente di consumatori ed utenti come definiti nell’art. 2 lett. a) della legge n. 281/98 e che, concordemente, abbia natura di “formazione sociale che abbia per scopo statutario esclusivo la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori e degli utenti” (art. 2 lett. b) della stessa legge[2].

Non solo. La legge-quadro del 1998 ha introdotto i corollari necessari di tale riconoscimento: la legittimazione ad agire, il diritto al finanziamento pubblico.

Tali caratteristiche non solo hanno consentito ai soggetti beneficiati di sopravvivere, ma anche di poter lavorare, espandersi, conquistare spazi sui media, imporsi come un nuovo attore nell’agone lato sensu politico-economico, oltre che nel palcoscenico mediatico.

Del resto, gli strumenti per agire sono semplici, essenziali ma forti: i contributi pubblici consentono di “vivere” e la legittimazione ad agire in giudizio spaventa i produttori ed i professionisti.

Circa il finanziamento o sostentamento economico pubblico, giova rammentare che esso è previsto per legge, attuato per volontà degli enti pubblici (anche locali) e raccolto per libera adesione delle associazioni.

Trasparenza vuole che si rammenti come tale finanziamento pubblico per le associazioni si aggiunge alle quote associative richieste ai singoli privati fruitori dei servizi offerti dalle associazioni ed agli introiti derivanti dall’esecuzione di progetti locali, nazionali ed europei.

Intanto, come già la legge n. 281 del 1998, anche l’art. 138 del Codice del consumo ha attribuito alle associazioni aderenti al CNCU (quelle cd. riconosciute) le agevolazioni ed i contributi previsti dalla normativa di settore per le iniziative editoriali[3].

La norma è evidentemente collegata alla rilevanza che il legislatore ha attribuito all’informazione del consumatore inteso come strumento fondamentale di autotutela.

Altra fonte di finanziamento per le associazioni componenti il CNCU è prevista dall’art. 148 della Legge 23 dicembre 2000, n. 388 che prevede la destinazione degli introiti derivanti dalle sanzioni irrogate dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato alle iniziative a vantaggio dei consumatori.

Le somme sono rassegnate con decreto del Ministero dell’Economia ad un apposito fondo iscritto nello stato di previsione del Ministero delle Attività produttive, il quale individua, con decreto ad hoc, le iniziative cui destinare detti fondi, previa consultazione delle competenti Commissioni parlamentari.

I benefici finanziari pubblici sono assicurati anche dalla Legge 5 marzo 2001, n. 57 che, al suo art. 16, ha previsto il finanziamento (all’epoca pari a tre miliardi di lire) di progetti promossi dalle sole associazioni dei consumatori e degli utenti iscritte nell’elenco di cui all’art. 5 della Legge-quadro[4].

Anche in questo caso, va da sé che i contributi e le agevolazioni sono concesse alle associazioni che ne hanno i requisiti.

Meno noto, in relazione a tale finanziamento pubblico, è quali siano i criteri di assegnazione, chi stabilisca i settori di intervento, a chi si renda il conto, se vi siano sanzioni in caso di cattiva o inefficiente gestione del denaro pubblico.

Di contro, viene pure da chiedersi se sia corretto un organo statale abbia il diritto di giudicare l’operato delle associazioni.

Di certo sarebbe salutare che, come in letteratura si ritiene e la Storia ha confermato, che “qualcuno vigili anche sui controllori”, al fine di evitare che fenomeni di compiacenza da parte dei cd. controllori verso i cd. controllati rendano velleitario e pleonastico il sistema di garanzie predisposto dall’ordinamento.

Nel caso di specie (tutela del consumatore), se ciò accadesse, lascerebbe privi di tutela beni ed interessi come la salute collettiva, la qualità e sicurezza di prodotti e servizi di primaria importanza, l’informazione e la corretta pubblicità commerciale, l’erogazione di servizi pubblici secondo standard  di qualità ed efficienza.

Peraltro, i diritti ed i vantaggi di cui si discorre concernono soltanto le cd. associazioni dei consumatori riconosciute.

Le altre associazioni non solo non esistono ufficialmente, non hanno diritto a contributi pubblici e, soprattutto, non potranno mai preoccupare le imprese perché, prive della legittimazione ad agire, giudiziariamente rappresentano tigri di carta.

Pertanto, le associazioni dei consumatori cd. riconosciute – vale a dire, il gruppo storico di esse che siede presso il Ministero riunite nel CNCU – hanno una enorme responsabilità verso la collettività, in quanto esse hanno preteso e conseguito non solo che fossero riconosciute dallo Stato e che fossero riunite in un organismo statale, ma pure che ricevessero contributi pubblici diretti.

Tuttavia, in questo modo un fenomeno di associazionismo sorto dal basso, intriso del salutare humus del contro-potere, con l’ambizione di rappresentare ed integrare in campo consumeristico il “potere dei senza potere”[5] rischia di essere anestetizzato dalla eccessiva contiguità, oramai sancita per legge e per consenso delle associazioni stesse, con i pubblici poteri e con il mondo dei produttori.

In realtà, esistono numerose altre realtà, organizzazioni ad oggetto sociale più ampio, associazioni di consumatori stesse ma non riconosciute, associazioni ambientaliste che, pur non disponendo di un patrimonio di esperienze e di iscrizioni paragonabili a quello di altri paesi comunitari o a quello nord-americano, si collocano tuttavia come validissimi interlocutori dei pubblici poteri.

A questo punto, se le associazioni consumeristiche nate per fare le pulci ai soggetti da controllare, quali lo Stato ed i pubblici poteri, nazionali e locali, esistono solo se questo le riconosce e le alimenta, resta da chiedersi: chi controlla i controllori?

Se il “quarto potere” dei consumatori, con la missione di monitorare l’operato del mondo produttivo e le performance dei servizi pubblici, rischia di essere, in questo modo, ingabbiato ed annacquato, chi svolgerà la stessa funzione sociale con la massima indipendenza richiesta?

[1] In ordine al CNCU, si rinvia a quanto già detto nell’ultimo numero de Il Laboratorio dei 100, nella medesima rubrica Diritto, dogmi e finzioni

[2] Lo ha ribadito il TAR Lazio, Sezione III Ter, con sentenza n. 7103 dell’8 agosto 2006, cfr. www.altalex.it, n. 1524 del 15 settembre 2006, su ricorso della USICONS – Associazione per la tutela dei diritti e degli interessi degli utenti di servizi pubblici e privati e dei consumatori avverso il Ministero delle Attività Produttive

[3] I criteri e le modalità di tali agevolazioni e contributi sono stati definiti con Dpcm 15 marzo 1999, n. 218

[4] Ha individuato i criteri per il finanziamento di tali progetti il D.M. del Ministero dell’Industria 24 maggio 2001, n. 273.  In esso, si precisa che la richiesta di contributo va inoltrata al Ministero per le Attività Produttive – Direzione Generale per l’armonizzazione del mercato e la tutela dei consumatori – Ufficio Politiche nazionale e diritti dei consumatori. Sarà questo ufficio a decidere sulla idoneità del progetto avanzato dalla associazione e della ammissione al contributo statale. Il contributo, secondo il decreto ministeriale del 2001, prevedeva  la misura massima di 300 milioni di lire a progetto.

[5] V. Havel, Il potere dei senza potere.

Associazionismo in difesa dei consumatori: movimento d’opinione, contro-potere, lobby, organizzazioni di Stato, enti collettivi a rilevanza pan-europea?

Circa le associazioni dei consumatori, il Codice del consumo (titolo I, parte V, artt. 136-138) ha recepito quanto già introdotto dalla legge 30 luglio 1998, n. 281, abrogata dall’art. 146, co. 1, lett. f) del Codice stesso, che aveva previsto: a) la costituzione del Consiglio Nazionale Consumatori ed Utenti, b) l’individuazione delle associazioni maggiormente rappresentative, c) la previsione di agevolazioni e contributi alle attività delle associazioni.

Con la Legge-quadro n. 281/1998, che ha riconosciuto i diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti, per la prima volta nel nostro ordinamento le associazioni dei consumatori e degli utenti ottenevano definizione, inquadramento sistematico e legittimazione ad agire in giudizio a tutela di interessi diffusi[1]. Non solo, essa ha costituito il momento e lo strumento di riconoscimento da parte dei pubblici poteri del ruolo dell’associazionismo consumeristico.

L’art. 2, co. 1, lett. b) della legge definiva tali associazioni – con un non involontario riferimento alle persone giuridiche tutelate dalla nostra Costituzione (art. 2) – “le formazioni sociali che abbiano per scopo statutario esclusivo la tutela dei diritti e degli interessi dei consumatori e degli utenti”.

Lo scopo statutario assurgeva quindi ad elemento caratterizzante dette associazioni. Esso doveva essere esclusivo, soltanto rivolto alla tutela degli interessi e dei diritti dei consumatori[2].

Fra esse, ai sensi dell’art. 5, le associazioni maggiormente rappresentative a livello nazionale vennero inserite in un apposito elenco tenuto dall’allora Ministero dell’Industria, presso il quale ha sede e formazione il CNCU, acronimo del Consiglio Nazionale Consumatori ed Utenti, composto dai rappresentanti di tali associazioni ed istituito con la finalità di tracciare in ambito nazionale le linee guida di tutela del consumatore.

La previsione dell’art. 5 ha avuto una importanza strategica poiché, ai sensi dell’art. 3, solo alle associazioni iscritte nell’elenco viene attribuita la legittimazione ad agire per la tutela degli interessi collettivi in via giudiziaria, con azione inibitoria, anche cautelare, ed in via conciliativa innanzi alle Camere di commercio.

La stessa norma ha individuato i criteri per l’iscrizione[3] delle associazioni rappresentative:

  • costituzione da almeno tre anni;
  • statuto ad ordinamento interno democratico;
  • scopo esclusivo di tutela dei consumatori ed assenza di scopo di lucro;
  • numero di iscritti non inferiore allo 0,5 per mille della popolazione nazionale con presenza in almeno cinque regioni italiane;
  • presentazione di un bilancio annuale;
  • svolgimento di attività continuativa nei tre anni precedenti la costituzione dell’associazione;
  • assenza di condanne dei legali rappresentanti;
  • incompatibilità assoluta con la qualifica di imprenditore o amministratore di imprese con la funzione di legale rappresentante dell’associazione.

Inoltre, alle associazioni è preclusa ogni attività di promozione o pubblicità commerciale avente ad oggetto beni o servizi prodotti da terzi e non ha alcuna connessione di interessi con imprese di produzione e di distribuzione.

Dalla norma si evince la volontà del legislatore di puntare sulla effettiva rappresentatività ed un reale radicamento sul territorio degli organismi che assumono di costituire centri di tutela di interessi diffusi nel settore consumeristico.

La rigida opzione della predeterminazione normativa dei requisiti per l’iscrizione nell’elenco ha presentato, da subito, controindicazioni in dottrina già rilevate[4].

Infatti, con riguardo al requisito numerico degli iscritti, la preferenza e la prevalenza data all’elemento quantitativo può andare a detrimento della qualità dell’attività di tutela posta in essere dall’associazione soprattutto per le organizzazioni che hanno dedicato particolare attenzione ad un determinato ambito di tutela.

Le associazioni di cui sopra hanno ottenuto il riconoscimento tramite l’iscrizione nell’elenco tenuto dal Ministero delle Attività Produttive e oggi dello Sviluppo Economico, che è subordinato al possesso di determinati requisiti previsti dal decreto ministeriale n. 20/1999. Tutte le associazioni iscritte in detto elenco fanno parte di diritto del Consiglio Nazionale dei Consumatori e degli Utenti.

A rigore, la precedente normativa sui contratti dei consumatori, L. 6 febbraio 1996, n. 52[5], introduttiva degli artt. 1469 bis e ss. del codice civile, aveva già fornito – senza alcuna individuazione e caratterizzazione – alle associazioni genericamente rappresentative dei consumatori una legittimazione ad agire avverso il professionista o l’associazione di professionisti che utilizzassero clausole abusive nelle loro condizioni generali di contratto (art. 1469 sexies  c.c.).

Tuttavia, la norma della Legge-quadro ha scolpito le associazioni legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi e diffusi con requisiti ferrei essenzialmente rivolti ad accertare la rappresentatività della associazione stessa, nonché la sua iscrizione nell’elenco delle associazioni introdotto dall’art. 5 delle legge stessa.

Viceversa, la legge del 1996 non prevedeva né requisiti né accertamenti degli stessi, concedendo una ampia potestas agendi a destinatari non meglio individuati.

Tali diverse discipline delle medesime associazioni, con parziali diverse attribuzioni, ha generato un contrasto interpretativo[6] risolto soltanto con l’introduzione del Codice del Consumo[7].

Infatti, i dubbi ermeneutici derivati dal coordinamento di queste due norme ai fini di individuare il corretto concetto di rappresentatività furono fugati dalla stessa Relazione illustrativa al Codice del Consumo e, soprattutto, dall’art. 137 del Codice, occorrendo necessariamente dare rilievo alla predetta iscrizione, dovendo tale legittimazione far perno su un supporto legislativo.

Con la previsione del Codice del consumo, si precisa infatti che solo le associazioni di cui all’art. 137 sono legittimate ad intraprendere l’azione cd. inibitoria, di cui all’art. 37 del Codice stesso, vale a dire quella introdotta con l’art. 1469 sexies c.c., unitamente alle associazioni rappresentative dei professionisti ed alle camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura[8].

A questo aggiungasi che, oggi, la iscrizione dell’associazione nell’elenco dell’art. 137 fa sì che il Ministero la comunichi alla Commissione europea al fine di far decorrere l’automatica iscrizione nel parallelo elenco degli enti legittimati a proporre azioni inibitorie a tutela degli interessi collettivi dei consumatori istituito presso la Commissione europea.

Con ciò le associazioni rappresentative secondo i canoni dell’art. 137 perdono il carattere strettamente nazionale divenendo legittimate a promuovere azioni di tipo inibitorio in tutti i Paesi dell’Unione Europea.

Per l’effetto, con tale canonizzazione giuridica e culturale si è compiuto l’ultimo passo verso la istituzionalizzazione-statalizzazione di tali formazioni sociali che, sorte sull’onda di una spontanea reazione alla forza d’urto ed alla invadenza delle politiche commerciali del mondo delle imprese, della massificazione dei rapporti produttore-consumatore, della scarsa qualità nell’erogazione dei servizi pubblici hanno progressivamente battagliato per la conquista di spazi di visibilità, credibilità e, dunque, rappresentatività.

Al punto da ottenere, nel biennio 1996-98, quel riconoscimento pubblico che, al livello più alto dell’ordinamento, ancora mancava e che il Codice del Consumo nel 2005 ha ribadito.

[1] L. 30 luglio 1998, n. 281, come modificata dalla L. 24 novembre 2000, n. 340, dal D. Lgs. 23 aprile 2001, n. 224, dalla L. 1 marzo 2002, n. 39

[2] Successivamente è intervenuta la pronuncia del TAR Lazio, sezione II ter, sentenza 8 agosto 2006, n. 7103, che ha ribadito come ai fini della qualifica di associazione dei consumatori riconosciuta ed iscritta nell’elenco tenuto dal Ministero costituisce presupposto indefettibile il previo accertamento che il soggetto richiedente l’iscrizione si occupi esclusivamente di consumatori ed utenti come definiti nell’art. 2 delle legge n. 281/98. vale a dire, prevale l’accertamento in astratto del possesso del requisito dell’esclusività dell’oggetto sulla dimostrazione in concreto della sola attività di pertinenza propria delle associazioni consumeristiche, cfr. www.altalex.it , n. 1524 del 15.09.2006

[3] il Regolamento recante norme per l’iscrizione nell’elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale è stato dettato dal D.M. 19 gennaio 1999, n. 20.  Nel Regolamento è precisato che l’elenco è tenuto presso la Direzione Generale per l’Armonizzazione e la Tutela del Mercato del Ministero delle Attività produttive

[4] R. Colagrande, Disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti, in Nuove leggi civ. comm., 1998, p. 734 ss.

[5] di attuazione della Direttiva comunitaria n. 93/13/CEE del 5 aprile 1993 concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori

[6] ex multis, cfr. E. Graziuso, La tutela del consumatore contro le clausole abusive, Milano, 2002, p. 25 ss., pp. 211 ss.

[7] D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206

[8] E. Sacchettini, A numero chiuso i legittimati ad agire, in Guida al diritto, n. 48/2005, p. 113-4

L’azione di regolamento di confini

  1. Inquadramento sistematico.

Le azioni a difesa del diritto di proprietà si definiscono petitorie in quanto mirano ad accertare ed affermare la titolarità del diritto di proprietà contro chi la contesti direttamente o indirettamente (vantando diritti reali limitati sul bene in questione).

  • Azione di rivendica – art. 948 c.c.
  • Azione negatoria – art. 949 c.c.
  • Azione di regolamento di confini – art. 950 c.c.
  • Azione di apposizione di termini – art. 951 c.c.
  1. L’azione di regolamento di confini (art. 950 c.c.).

L’azione di regolamento di confini è l’azione volta alla definizione giudiziale di un confine incerto (art. 950 c.c.).

L’azione rientra nell’ambito delle azioni reali e, in particolare, nell’ambito delle azioni a difesa della proprietà. L’azione tutela infatti un interesse del proprietario, cioè l’interesse alla certa delimitazione del suo fondo.

Legittimati attivi e passivi dell’azione sono i proprietari dei fondi confinanti.

In dottrina, l’azione di regolamento di confini è stata definita un relitto storico e una “sottospecie” dell’azione di rivendicazione. Rispetto a questa azione essa conserva tuttavia una propria autonomia, in quanto non è diretta al recupero del bene ma alla eliminazione di una particolare situazione d’incertezza (l’incertezza del confine).

Quindi, si distingue dalla rivendica innanzitutto per l’oggetto: essa mira a risolvere una lite sulla sola estensione del diritto di proprietà (che non è posto in discussione), mentre la rivendica presuppone una contestazione sul titolo del diritto stesso.

Essa è azione di “accertamento” e non muta natura neppure allorché l’attore richieda contestualmente anche il rilascio delle zone di terreno possedute dal vicino indebitamente (questa è una conseguenza naturale dell’azione).

Essa si distingue anche rispetto all’azione di mero accertamento della proprietà in quanto tende ad eliminare un’incertezza che non concerne la titolarità del diritto di proprietà ma i limiti del fondo che ne è oggetto.

Secondo una formula dottrinaria, recepita dalla giurisprudenza, l’azione di regolamento di confini non presuppone un “conflitto di titoli” ma un “conflitto di fondi”, poiché non vi è controversia sui titoli di proprietà delle parti ma sui confini che in base a tali titoli dividono le rispettive proprietà.

Mentre l’azione di rivendica presuppone un conflitto di titoli, determinato dal convenuto che nega la proprietà dell’attore contrapponendo al titolo da lui vantato il suo possesso della cosa ovvero un proprio diverso ed incompatibile titolo di acquisto, nella azione di regolamento di confini i titoli di proprietà non sono controversi e la contestazione attiene alla delimitazione dei rispettivi fondi (conflitto tra fondi) per l’incertezza dei confini,  oggettiva (derivante dalla promiscuità del possesso nella zona confinaria) o soggettiva (provocata dall’assunto attoreo di non corrispondenza del confine apparente con quello reale).

Il regolamento di confine può aver luogo anche mediante un accordo dei proprietari interessati, inquadrabile tra i negozi d’accertamento. L’accertamento convenzionale del confine non ha efficacia costitutiva ma ha valore di prova tra le parti.

  1. L’incertezza sul confine.

L’azione di regolamento dei confini presuppone un’incertezza oggettiva e soggettiva sul confine del fondo, ossia un’incertezza derivante dalla mancanza di un limite apparente o un’incertezza soggettiva, derivante dalla contestazione del limite apparente.

Una tesi, che ha trovato credito anche in dottrina recente, ammette l’azione di regolamento di confini solo in presenza di un’incertezza oggettiva del confine, posseduto promiscuamente dai confinanti.

La giurisprudenza si è però decisamente orientata a ravvisare gli estremi dell’azione di regolamento di confini anche quando sussista un’incertezza soggettiva sul confine, a prescindere da una situazione di possesso promiscuo.

In aderenza a questo orientamento l’azione rientra nello schema del regolamento di confini anche quando il proprietario lamenti l’usurpazione di una striscia di terreno confinante, sempreché il convenuto non contesti il titolo di acquisto dell’attore ma opponga un titolo di acquisto poziore.

Qui l’azione di regolamento dà luogo ad un conflitto di titoli, ma l’orientamento è da approvare perché l’azione è pur sempre diretta a definire un confine incerto. Va anche considerato che assegnare al confinante l’onere probatorio che grava sul rivendicante, ossia l’onere di una rigorosa prova della proprietà risalente ad un acquisto originario, significherebbe metterlo in una posizione di squilibrio processuale non giustificata dalle ragioni di tutela processuale del convenuto.

  1. L’oggetto dell’azione.

Oggetto dell’azione è la fissazione giudiziale del confine tra fondi contigui. Si deduce pertanto che la sentenza ha natura ‘dichiarativa e ricognitiva’.

Oggetto della domanda può anche essere la condanna del vicino a restituire all’attore la striscia di terreno risultante di sua proprietà a seguito della fissazione della linea di confine.

La presente azione ha la connotazione di un’azione reale recuperatoria, da cui deriva, oltre la demarcazione del confine tra due fondi, anche il rilascio di aree occupate dal vicino che non ne è proprietario, essendo il rilascio di tali porzioni possedute dal confinante conseguenza dell’istanza principale di esatta determinazione del confine. Pertanto, nell’ipotesi in cui il fondo oggetto della sentenza di rilascio ha cessato di essere nella disponibilità del convenuto, è applicabile, a causa del carattere reale e recuperatorio dell’azione, la particolare norma di cui all’art. 948, co. 1, c.c., ipotesi che legittima la richiesta di pagamento del controvalore del bene usurpato.

Si reputa che in tal caso la restituzione sia solo un effetto secondario discendente dall’accoglimento della domanda principale. Occorre per altro che la restituzione abbia costituito oggetto della domanda, la cui proposizione non contiene implicitamente la domanda di rilascio della porzione di fondo eventualmente risultante occupata dal convenuto.

  1. L’onere probatorio. La cd. duplicità dell’azione.

L’autonomia dell’azione rispetto alla rivendicazione rileva anche sul piano probatorio. Fondamento dell’azione è pur sempre il diritto di proprietà, e di questo diritto l’attore deve dare la prova.

Non essendo tuttavia oggetto di contestazione la titolarità del diritto, ma solo i confini dell’immobile, è sufficiente per l’attore provare un valido titolo di acquisto, mentre in ordine all’ubicazione dei confini può essere addotta qualsiasi prova.

La norma sull’onere probatorio gravante sull’attore si ritiene che trovi una deroga in ragione della duplicità dell’azione di regolamento di confini. L’azione sarebbe duplice nel senso che ciascuna parte avrebbe il medesimo interesse alla definizione dei confini. Conseguentemente, si afferma, su ciascuna grava il medesimo onere probatorio e il giudice è svincolato dalla regola che gli impone di assolvere il convenuto se l’attore non prova il proprio assunto.

Al riguardo va però obiettato che ciascuna parte ha l’interesse all’accertamento ad essa più favorevole, e che il convenuto anziché assumere una linea di difesa adesiva può controbattere le ragioni dell’attore (specie se questi lamenti l’usurpazione di una striscia del fondo).

La tesi della duplicità dell’azione implica che in caso di totale inerzia delle parti il giudice dovrebbe provvedere d’ufficio ad accertare la linea di confine tra i fondi delle parti.

Ma una tale conclusione è stata smentita dalla stessa giurisprudenza, la quale ha riconosciuto che il giudice deve attenersi al principio della disponibilità delle prove pur avendo ampia facoltà di scegliere gli elementi decisivi per il suo convincimento.

Il codice prevede anche che in mancanza di altri elementi il giudice “si attiene al confine delineato dalle mappe catastali” (art. 950 c.c.). Questa norma assegna ai dati catastali un valore, per quanto sussidiario, che non viene loro riconosciuto nell’azione di rivendicazione. Neppure essa attribuisce tuttavia al giudizio carattere inquisitorio. L’attore che non disponga di altre prove deve quindi produrre i documenti catastali occorrenti per l’accertamento giudiziale dei confini. In mancanza, la sua domanda dev’essere respinta.

Codice del Consumo: innovazione o continuità?

Non è necessario dedicarsi a fare il “bilancio” dell’operazione legislativa messa in cantiere con l’adozione del cd. Codice del Consumo (1), entrato in vigore il 23 ottobre 2005, tuttavia in questa sede può essere utile rammentarne la genesi ed offrire una lettura “comparata” con la precedente legislazione, di cui esso costituisce un logico e fedele sviluppo.

Il Codice supera, infatti, la fase della frammentazione legislativa e della dispersione dei riferimenti, che aveva sinora caratterizzato il cd. diritto dei consumatori.

In tal modo, il legislatore ha inteso fornire una disciplina unitaria alla materia fino allora disorganica e non coordinata del diritto dei consumatori, con l’altisonante introduzione di un “codice” del “consumo”, avvenuta, in realtà, con la semplice trasposizione delle norme previgenti, salvo le sporadiche modifiche ed aggiunte, di cui vogliamo dar conto.

E’ utile a tal fine, anche a costo di cadere in un certo schematismo, configurare una sorta di mappa del provvedimento (2), al fine di chiarirne meglio la  trama.

Il Codice del Consumo (formato da 146 articoli) consta di sei parti, a loro volta divise in titoli:

  • parte prima – nel primo titolo vengono indicate le finalità del Codice, stabiliti i diritti fondamentali dei Consumatori, offerte le definizioni degli istituti richiamati nel Codice;
  • parte seconda – nel primo titolo viene introdotto il concetto di educazione del consumatore. Nel secondo vengono offerte definizioni rilevanti al fine di un’adeguata informazione. Nel titolo terzo vengono stabilite le regole generali in materia di pubblicità, vengono indicate le ipotesi di pubblicità ingannevole e le conseguenti forme di tutela amministrativa e giurisdizionale. Sempre nel titolo terzo vengono individuate forme di autotutela e viene regolata la fattispecie della televendita;
  • parte terza – nel titolo primo sono disciplinate le ipotesi di vessatorietà delle clausole contrattuali e viene attribuita in capo alle associazioni dei consumatori la legittimazione processuale a proporre azione inibitoria avverso le condizioni contrattuali ritenute abusive. Il titolo secondo regola l’attività commerciale ed il credito al consumo. Il titolo terzo disciplina i contratti negoziati nei locali commerciali e i contratti negoziati fuori dai locali commerciali, nonché i contratti a distanza. Quindi, prefissa le sanzioni per il professionista che contravviene alle indicazioni stabilite nel codice circa i contratti conclusi fuori dei locali commerciali o a distanza. Stabilisce per queste due categorie contrattuali regole comuni in materia di recesso. Infine, rinvia ad altre disposizioni per la disciplina del commercio elettronico. Il titolo quarto disciplina la multiproprietà, la proprietà ternaria ed i contratti aventi ad oggetto servizi turistici. Nel titolo quinto viene disposto l’obbligo dello Stato di garantire gli utenti nella fruizione dei servizi pubblici;
  • parte quarta – il titolo primo stabilisce le condizioni di sicurezza dei prodotti immessi sul mercato. Nel titolo secondo viene disciplinata la responsabilità extracontrattuale del produttore e del fornitore. Nel titolo terzo si regolamentano i contratti di vendita e le garanzie riguardanti i beni di consumo;
  • parte quinta – il titolo primo disciplina il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti e l’elenco delle associazioni dei consumatori rappresentative a livello nazionale. Il titolo secondo definisce l’ambito della legittimazione ad agire in giudizio delle associazioni iscritte nel suddetto elenco e prevede le ipotesi di composizione extragiudiziale delle controversie;
  • parte sesta – va dall’art. 142 all’art. 146 e reca una serie di disposizioni peculiari.

Il Codice si apre con le “Disposizioni Generali”, in cui sono confluite molte delle norme della Legge-quadro dei diritti dei consumatori, la Legge n. 281/98 (3), confermando in pieno il quadro dei diritti dei consumatori ivi enucleato (art. 2), così come le definizioni di consumatore o utente, professionista, associazione dei consumatori, ora contenute nell’art. 3.

Sulla nozione di consumatore, in particolare, va evidenziato che il legislatore ne ha limitato l’ambito alla sola “persona fisica che agisce per scopi estranei all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta” (salvo quanto si vedrà in relazione alla disciplina della pubblicità).

Pertanto, all’esito di un serrato dibattito sviluppatosi tra gli specialisti della materia, le associazioni di categoria ed il movimento dei consumatori, occorre  prendere atto del mancato ampliamento della categoria di consumatore, non includente alcuna persona giuridica, come auspicato da vari settori di categoria.

Il Decreto ribadisce alcuni fondamentali diritti dei consumatori già riconosciuti con la legge-quadro del 1998, ora abrogata:
a) alla tutela della salute;
b) alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi;
c) ad una adeguata informazione, al diritto di recesso e ad una corretta pubblicità;
d) all’educazione al consumo;
e) alla correttezza, alla trasparenza ed all’equità’ nei rapporti contrattuali;
f) alla promozione e allo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti;
g) all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.

Nella seconda parte il Codice disciplina l’educazione, l’informazione e la pubblicità, ed accoglie norme tratte da varie normative (4).

Rispetto alla formulazione della disciplina previgente è stata aggiunta una norma (art. 4) relativa all’educazione del consumatore di cui vengono individuate le finalità nel favorire la consapevolezza dei diritti, lo sviluppo dell’associazionismo, la partecipazione ai procedimenti amministrativi e la rappresentanza.

Il Titolo II, dedicato all’informazione ai consumatori (5), contempla poche modifiche rispetto alla normativa precedente: in particolare si è precisato che, ai fini delle norme sull’informazione, deve intendersi per consumatore “la persona fisica alla quale sono dirette le informazioni commerciali” (art. 5) senza riferimento alla natura professionale o meno del destinatario; viene aggiunto al contenuto minimo delle informazioni l’indicazione del Paese di origine dei prodotti se situato fuori dall’UE (art. 6) ed è introdotto l’obbligo per i distributori di carburanti di esporre in modo visibile dalla strada i prezzi praticati al consumo (art. 15).

Il Titolo III, relativo alla pubblicità (6), ha introdotto una ulteriore nozione di consumatore: ai fini delle norme sulla pubblicità e sulle altre comunicazioni commerciali, infatti, “si intende per consumatore o utente anche la persona fisica o giuridica cui sono dirette le comunicazioni commerciali o che ne subisce le conseguenze” (art. 18).

Orbene, nonostante l’adozione del Codice avesse, tra le altre, la finalità di rendere unitaria la normativa, la nozione di consumatore continua ad essere poliedrica e sfaccettata.

Sempre nell’ambito del Titolo III, troviamo, dopo la normativa (rimasta invariata) sulla pubblicità ingannevole e comparativa, nonché la rinnovata disciplina (articoli 28 – 32) a tutela del consumatore in materia di televendite (7), in cui viene stabilito, tra l’altro, che tali norme si applicano alle televendite “comprese quelle di astrologia, di cartomanzia ed assimilabili”.

La terza parte del Codice disciplina il rapporto di consumo e si apre con la disciplina dei contratti del consumatore in generale (artt. 33-37) (8).

In tale ambito, è rimasta invariata l’elencazione delle clausole vessatorie mentre la sanzione a carico delle clausole di cui sia accertata la vessatorietà, che nella precedente formulazione venivano dichiarate inefficaci, nel Codice sono invece dichiarate nulle: viene quindi introdotta una sanzione più incisiva rafforzando la tutela del consumatore.

Il Titolo II prevede una novità: la norma generale contenuta nell’art. 39, sull’obbligo di valutare i principi di buona fede, correttezza e lealtà nelle attività commerciali “anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori” seguita dalla disciplina del credito al consumo, artt. 40 – 43 (9).

Il Titolo III della terza parte, relativo alle “modalità contrattuali”, raccoglie agli artt. 45 – 61 le norme relative ai contratti negoziati fuori dei locali commerciali e quelle relative ai contratti a distanza (10).

Tali normative (nella versione previgente) avevano ad oggetto la disciplina del cd. diritto di ripensamento del consumatore, ovverosia il suo diritto a recedere dai contratti medesimi, entro termini e con modalità stabilite dalla legge.

La trasposizione di tali norme è stata l’occasione per unificare la disciplina del diritto di recesso, ora collocata nell’autonoma sezione IV (artt. 64-68), adottando un unico termine per l’esercizio del diritto di recesso che è ora, in ogni caso, di 10 giorni lavorativi, generalizzando così la previsione più vantaggiosa per il consumatore, precedentemente limitata ai casi di recesso nei contratti a distanza (contro i sette giorni previsti nei contratti conclusi fuori dei locali commerciali).

La seconda modifica importante concerne la disciplina delle spese accessorie che il consumatore che eserciti il diritto di recesso è tenuto a rimborsare al professionista: mentre nella precedente disciplina era stabilito che il consumatore dovesse risarcire le spese accessorie indicate preventivamente nel contratto, l’art. 67, comma 3 del Codice stabilisce che “le sole spese dovute dal consumatore per l’esercizio del diritto di recesso sono le spese dirette di restituzione del bene al mittente, ove espressamente previsto dal contratto”.

La disposizione, quanto mai utile, elimina gli spazi nei quali i soggetti commerciali scorretti inserivano clausole tendenti a garantire rimborsi di asserite spese accessorie assolutamente esorbitanti, coartando quindi il consumatore che avesse esercitato il diritto di recesso a pagare, sotto forma di rimborso spese, vere e proprie penali.

L’ulteriore profilo di novità concerne, come sopra anticipato, la materia del credito al consumo: l’art. 67, comma 6, infatti, generalizza la regola (includendo anche i contratti negoziati fuori dei locali commerciali), precedentemente limitata ai soli contratti a distanza, secondo cui l’esercizio del diritto di recesso da parte del consumatore determina la risoluzione di diritto dell’eventuale contratto di finanziamento collegato al contratto di fornitura.

Nel Codice sono state inserite anche le norme concernenti i contratti aventi ad oggetto l’acquisizione di un diritto di godimento ripartito di beni immobili, (artt.69-81, già D. Lgs. n. 427/1998), e quelle sui servizi turistici (artt. 82-100 già D. Lgs. 111/1995), per le quali viene ora richiamata la nuova ed unificata disciplina del diritto di recesso, senza divergenze di rilievo rispetto ai precedenti testi.

Nella quarta parte del Codice, relativa alla sicurezza ed alla qualità, sono confluite, restando sostanzialmente invariate, anche le norme sulla sicurezza dei prodotti (artt.102-113, già D.Lgs. n.172/2004), sulla responsabilità per danno da prodotti difettosi (artt. 114-127, già DPR 224/1988 e D.Lgs n.25/2001), nonché quelle sulla garanzia legale di conformità e le garanzie commerciali per i beni di consumo (artt. 128-135, già inserite agli artt.1519 bis – nonies del codice civile dal D.Lgs. n. 24/2002).

Tra le novità mancate si segnala, a proposito di tale ultima normativa, che la stessa è rimasta invariata e che, in particolare, non è stata modificata la previsione dell’art. 1519 quinquies, ora art. 131, che sancisce la natura disponibile del diritto di regresso del venditore finale, che abbia ottemperato i rimedi esperiti dal consumatore, nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili del difetto di conformità facenti parte della medesima catena contrattuale distributiva ovvero di qualsiasi intermediario.

Il venditore può rinunciare o escludere sin dall’inizio del rapporto il proprio diritto di regresso nei confronti dei venditori precedenti della medesima catena distributiva per la responsabilità nei confronti del consumatore.

E’ noto che tale previsione determina una posizione di debolezza dei piccoli rivenditori nei confronti delle grandi aziende che tendono ad imporre contrattualmente, in virtù della maggior forza negoziale, la preventiva rinuncia al diritto di regresso del venditore, scaricando così sui piccoli commercianti gli oneri relativi alla responsabilità verso i consumatori.

Proprio in ragione di tale fenomeno era stata ipotizzata una modifica della disciplina volta a tutelare i venditori finali.

La parte quinta del Codice, che disciplina le Associazioni dei Consumatori e l’accesso alla Giustizia, non modifica le norme previgenti ma aggiunge, all’articolo 141, una nuova regola per la composizione extragiudiziale delle controversie, intesa a favorire il ricorso alle procedure conciliative, specie quelle amministrate dalle Camere di Commercio (11).

Appare dunque particolarmente felice l’incipit di Enzo Maria Tripodi, il quale ha afferma, non senza una certa enfasi, che “con il nuovo Codice del consumo cambia tutto e niente” (12).

Con ciò evidentemente marcando l’accento sul “niente”, leggendo il testo normativo più che come un codice vero e proprio, come una mera collazione di norme già vigenti nel nostro ordinamento, semplicemente riordinate in un testo unitario.

Non solo. Le anomalie e le insufficienze si evidenziano, ad esempio, con il mancato inserimento delle normative più recenti ed innovative, come la regolamentazione dei servizi finanziari on line e del multi-level marketing.

Inoltre, non è stato inserito alcun riferimento al documento elettronico, quale strumento di comunicazione della volontà di recedere da parte del consumatore, che, considerata la previsione contenuta nel D.P.R. n. 523/97 che equipara il documento elettronico a quello cartaceo, il legislatore avrebbe potuto operare tale apertura.

Analizzando il testo del Provvedimento, le innovazioni rispetto alla normativa previgente sono:

  1. l’introduzione del titolo terzo, “garanzia legale di conformità e garanzie commerciali per i beni di consumo”;
  2. la eliminazione della definizione di consumatore, che si leggeva all’art. 1519 bis, secondo comma lett. a) del codice civile, dall’art. 128, secondo comma;
  3. all’art. 135, secondo comma, una norma di raccordo con il codice civile che non si trovava nell’articolo corrispondente e cioè l’art. 1519 nonies del codice civile.

Dunque niente di nuovo sotto il sole, se non una facilitazione per gli operatori del diritto. Il legislatore, per dirla con una dottrina che si è pronunciata sul tema (13), si è limitato ad effettuare un’operazione di copia-incolla della normativa previgente, che non garantisce una piena sistematicità alla disciplina del consumo.

Insomma, quel “tutto” riferito all’innovazione apportata dal Codice del Consumo, più che una realtà è una potenzialità, nel senso che il nuovo Codice rappresenta la volontà del legislatore di definire, in modo sempre più coerente e sistematico le regole poste a tutela del consumatore, anche se per il momento non sembra ancora esservi riuscito compiutamente.

 

Box delle fonti:

  1. Decreto Legislativo 6 settembre 2005, n. 206
  2. cfr., per il dettaglio, Guida al Diritto (Il Sole 24 ORE) n. 18 del 17 dicembre 2005
  3. di cui già in questa Rubrica, Tutela del consumatore: dal movimentismo alla codificazione, n. 6/2006
  4. in particolare, dalla Legge n. 281/98, dalla Legge n. 126/91 e dal Decreto Ministeriale n. 101/97
  5. materia già raccolta nel D. Lgs. n. 84/2000, cui si rinvia
  6. sostitutivo dei decreti legislativi nn. 74/1992 e 67/2000
  7. già contenuta nelle Leggi nn. 120/1998 e 39/2002
  8. precedentemente incasellata nel codice civile agli artt. 1469 bis – sexies
  9. già prevista dai decreti legislativi nn. 63/2000 art. 125, commi 4° e 5°, e 385/1993
  10. già D. Lgs. 50/1992 e D. Lgs.185/1999
  11. tra i primi commenti organici, v. A. Lisi (a cura di), Codice del Consumo, Edizioni CiErre, 2006; G Briganti, Guida al Codice del Consumo, Edizioni CiErre, 2006
  12. Enzo Maria Tripodi, Ettore Battelli – Codice del consumatore. Guida pratica alla nuova normativa – IPSOA, 2006
  13. Giorgio De Nova – La disciplina della vendita dei beni di consumo nel “Codice” del consumo – I Contratti, Rivista di dottrina e giurisprudenza, n. 4 del 2006 (IPSOA)

Tutela del consumatore: dalla normazione europea alla codificazione italiana.

Anche nel campo della tutela del consumatore – parafrasando un noto brocardo latino – possiamo dire che dalla vita nasce il diritto.

Dai problemi del cittadino nella sua veste di destinatario dell’offerta di beni e servizi è sorta l’esigenza di avere standard di qualità dei prodotti, attenzione ai prezzi del mercato, tutela della salute della collettività e dei singoli.

Dalle esigenze dei fruitori di prodotti e servizi nelle libere economie di mercato è discesa la necessità di approntare strumenti di tutela alla parte contrattuale dotata di minore forza economica, conoscitiva e, quindi, contrattuale, nonché regole certe che valgano per tutti i produttori o professionisti del medesimo settore.

Abbiamo già visto come la Comunità europea prima, l’Unione Europa dopo hanno fatto da apripista e da bussola, laddove in Italia – a livello normativo  e non solo – si era piuttosto in ritardo e la tutela era affidata alle applicazioni dei principi generali dell’ordinamento giuridico.

Il corpus normativo del diritto dei consumatori si è formato e stratificato nel tempo grazie al concorso di un moto autoctono, fatto della circolazione delle idee e dei modelli di intervento attraverso convegni, seminari, conferenze, studi comparati, pubblicazione di articoli specializzati, primi approfondimenti accademici, ma anche e soprattutto di un impulso potente di diretta derivazione comunitaria ed internazionale.

Se tentiamo di scattare una istantanea del quadro attuale delle fonti dell’ordinamento del diritto dei consumatori, occorre iniziare l’esame dalla Carta costituzionale, in cui però le categorie giuridiche, ancora profondamente legate al sistema economico–sociale dell’epoca, non contemplano quella del consumatore, di emersione più recente.

a) Peraltro, dalla lettura della Carta, di certo, si può implicitamente sussumere la tutela del consumatore in quella dell’individuo e della persona e, come tale, essa può costituire un limite interno alla iniziativa economica privata, che non deve offendere la dignità, la sicurezza e la salute della persona e deve conformarsi alla utilità.

b) Tra le leggi ordinarie, il codice civile (nel testo originario del 1942) non menzionava il consumatore.

Successivamente, ed in maniera più mirata a cominciare dagli anni Ottanta, numerose sono le iniziative legislative, molte in attuazione di direttive comunitarie, che si susseguono fino alla Legge-quadro del 30 luglio 1998, n. 281, che ha riconosciuto i diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti.

Di seguito, proviamo a riferire, seppur senza pretese di esaustività, della legislazione speciale adottata all’epoca in alcuni settori, ripartiti per affinità di materia, prima della sua raccolta nel futuro Codice del Consumo:

  • informazione del consumatore: L. 10 aprile 1991, n. 126 (ed il relativo regolamento di attuazione, DM 8 febbraio 1997, n. 101);
  • modalità di fabbricazione dei prodotti, presentazione al pubblico delle merci, etichettatura; degne di rilievo sono la L. 11 ottobre 1986, n. 713 e L. 29 dicembre 1990, n. 428 sulla produzione e vendita di cosmetici; L. 29 dicembre 1990 n. 428 e D. Lgs. 27 dicembre 1991 n. 313 sulla vendita dei giocattoli; L. 25 novembre 1975, n. 797 sulla sicurezza dei veicoli; D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 sulla responsabilità del fabbricante di prodotti difettosi; L. 3 agosto 2004, n. 204, sull’etichettatura di alcuni prodotti agroalimentari, nonché in materia di agricoltura e pesca;
  • sicurezza generale dei prodotti: D. Lgs. 17 marzo 1995, n. 115; igiene degli alimenti: L. 30 aprile 1962, n. 283, D. Lgs. 26 maggio 1997, nn. 155 e 156;
  • prodotti biologici: D. Lgs. 17 marzo 1995, n. 220;
  • pubblicità di prodotti e servizi: D. Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 e D. Lgs. 25 febbraio 2000, n. 67 sulla pubblicità ingannevole; L. 10 aprile 1962, n. 165 sul divieto della propaganda dei prodotti da fumo; L. 6 agosto 1990, n. 223 sulla pubblicità televisiva;
  • modalità di vendita: D. Lgs. 15 gennaio 1992, n. 50 sui contratti negoziati fuori dei locali commerciali; L. 15 marzo 1997, n. 59 e D. Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10 sulla firma digitale; D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 114 sul settore del commercio; sui contratti a distanza, D. Lgs. 22 maggio 1999, n. 185; sulla indicazione dei prezzi offerti ai consumatori, D. Lgs. 25 febbraio 2000, n. 84; D. Lgs. 9 aprile 2003, n. 70 sul commercio elettronico e contraffazione via web;
  • credito al consumo: L. 19 febbraio 1992, n. 142, poi nel testo unico bancario, D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385; D. Lgs. 25 febbraio 2000, n. 63; D.M. 14 giugno 2004, sulla gestione del fondo di garanzia per il credito al consumo;
  • contratti dei risparmiatori nei servizi bancari e finanziari: L. 17 febbraio 1992, n. 154 per le norme sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari; poi, il testo unico bancario ed il testo unico sul mercato finanziario;
  • contratti dei consumatori: L. 6 febbraio 1996, n. 52;
  • legislazione su viaggi e organizzazioni turistiche, case in multiproprietà: D. Lgs. 11 marzo 1995, n. 111, D. Lgs. 9 novembre 1998, n. 427;
  • assicurazioni: D. Lgs. 17 marzo 1995, nn. 174 e 175; successivamente, il Codice delle Assicurazioni Private, D. Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, composto da 355 articoli in sostituzione e aggiornamento delle oltre mille norme che regolavano il settore per la regolazione di tutto il settore assicurativo;
  • beni di consumo (vendita e garanzie): D. Lgs. 2 febbraio 2002, n. 24;
  • servizi pubblici e Carte dei Servizi: DPCM 27 gennaio 1994 e L. 14 novembre 1995, n. 481;
  • legge quadro sulla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti e promozione della loro tutela in sede nazionale e locale: L. 30 luglio 1998, n. 281, come modificata dalla L. 24 novembre 2000, n. 340, dal D. Lgs. 23 aprile 2001, n. 224, dalla L. 1 marzo 2002, n. 39.

c) A livello inferiore agli atti normativi nazionali stanno le leggi regionali che hanno provveduto a disciplinare numerosi aspetti dei rapporti di consumo.

In realtà, la legislazione regionale si è occupata prevalentemente di finanziamento di associazioni e di attività a tutela dei consumatori ovvero dell’istituzione di organismi regionali di natura consultiva in materia di diritto dei consumatori.

d) L’attività delle amministrazioni comunali e provinciali si sono concentrate nella istituzione di uffici per la tutela del consumatore.

e) Le cd. Autorità amministrative indipendenti – come l’Antitrust, l’Isvap, la Consob, l’Autorità per i servizi di pubblica utilità, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, – hanno anch’esse il potere di adottare provvedimenti a tutela degli interessi dei consumatori e costituiscono punti di riferimento per le medesime associazioni dei consumatori quale referente istituzionale nelle materie di osservazione e competenza.

L’esperienza italiana presenta, poi, altre peculiarità:

  • le problematiche della materia sono oggetto di indagine e cura di una Direzione apposita costituita presso l’ex Ministero dell’Industria, poi delle Attività Produttive, presso il quale operava la Consulta nazionale dei consumatori e degli utenti, poi modificato nel CNCU – Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (introdotto dalla Legge-quadro, 1998);
  • esistono alcune istituzioni, come l’Istituto del Marchio di Qualità, l’Istituto per il Controllo della Pubblicità, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria che svolgono funzione di verifica delle attività delle imprese associate;
  • esistono numerose associazioni di consumatori che, pur non disponendo di un patrimonio di esperienze e di iscrizioni paragonabili a quello degli altri paesi europei o a quello nord-americano, si collocano come interlocutori dei pubblici poteri;
  • sono state avviate varie iniziative dirette alla soluzione extra-giudiziale delle controversie tra consumatori, utenti, risparmiatori ed i relativi soggetti contraddittori (da quelle di iniziativa privata, come il caso Telecom, a quelle previste dalle stesse Autorità indipendenti);
  • con la Legge n. 580/1993 si sono attribuite alle Camere di Commercio competenze di moral suasion per la redazione di modelli contrattuali delle imprese e competenze in materia di conciliazione e di arbitrato dei conflitti tra imprese e consumatori.

È indubbio, tuttavia, che in Italia l’approvazione della Legge 281 del 30 luglio 1998 ha costituito il punto d’approdo delle dottrine e delle idee che propugnavano l’affermazione in materia, anche a livello legislativo, di principi, diritti e categorie autonome, nonché il momento e lo strumento di riconoscimento da parte dei pubblici poteri del ruolo dell’associazionismo consumeristico.

Con tale provvedimento legislativo, infatti, si è introdotta la possibilità per le associazioni dei consumatori di ottenere il riconoscimento ministeriale e, di contro, è stato istituito il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (CNCU). Quest’ultimo rappresenta un vero e proprio soggetto istituzionale e riveste una funzione per lo più consultiva.

Tali associazioni ottenevano il riconoscimento tramite l’iscrizione in un “elenco” tenuto dal Ministero delle Attività Produttive, che era subordinato al possesso di determinati requisiti previsti dal decreto ministeriale n. 20/1999. Tutte le associazioni iscritte in detto elenco concorrono a formare il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti o CNCU.

La legge ha riconosciuto alle associazioni dei consumatori e degli utenti, registrate nell’elenco di cui sopra, la legittimazione ad agire in giudizio a tutela degli interessi collettivi dei rappresentati.

A livello teorico, la legge-quadro ha previsto e canonizzato la serie dei diritti fondamentali del consumatore: la tutela della salute;  la sicurezza e qualità dei prodotti e dei servizi; una adeguata informazione ed una corretta pubblicità; l’educazione al consumo; la correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi; la promozione e lo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti; l’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.

I meriti della Legge n. 281/98 stanno nell’aver raccolto in un’unica enunciazione i fili sparsi di una disciplina altrimenti spezzettata, in modo da realizzare una sorta di Statuto del consumatore e dell’utente, cui fare riferimento per attingerne principi e linee-guida.

Con essa il consumatore e l’utente sono divenuti soggetti di posizioni tutelate: non più per singole occasioni settoriali, ma quali soggetti protagonisti del mondo economico.

L’evoluzione storica ha fatto del cittadino-consumatore la potenziale vittima di un mercato sempre più sofisticato ed agguerrito; l’evoluzione normativa ha inteso provvedere a difendere il cittadino-consumatore, riconducendolo, con l’arma della legge, verso una posizione di sostanziale parità con le controparti.

Tuttavia, negli anni successivi, in linea con l’appassionarsi del legislatore italiano alla redazione di “testi unici”, è maturata l’idea di realizzare un “codice” della materia del diritto dei consumatori.

Per l’effetto, il 6 settembre 2005 è stato emanato il D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 sulla scorta delle legge delega 29 luglio 2003, n. 229, in cui, a mente del suo art. 1, il Codice del consumo “armonizza e riordina le normative concernenti i processi di acquisto e consumo, al fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti”.

Con il Codice del consumo, tuttavia, non è cambiato molto nello scenario teorico ed operativo del settore.

Esso, infatti, non brilla per originalità di soluzioni ed è sostanzialmente frutto di una collazione di norme già esistenti, già conosciute dagli addetti ai lavori.

Non solo, il lavoro di riordino e raccolta in unico testo è riuscito solo in parte, vuoi per evidenti oggettive esclusioni dal testo di alcune discipline di settore, vuoi per il mancato scioglimento di alcune contraddizioni ed incertezze, da tempo caratterizzanti la materia e fonti di non pochi tentennamenti per gli operatori del diritto (ad esempio, in tema di clausole vessatorie).

Infine, il problema della tutela giudiziaria dei consumatori rispetto alle questioni “minime” (small claims) è rimasto senza soluzione così come, più in generale, il problema della effettività della tutela degli interessi dei consumatori come classe era rimasto ancora da affrontare.

In ogni caso, sia chiaro che nessun testo legislativo in materia, per quanto tecnicamente raffinato e socialmente avanzato, poteva e potrà da solo supplire e sostituirsi agli unici elementi che potrebbero assicurare maggiore tutela delle istanze dei cittadini altrimenti privi di difesa: una coscienza etica dei produttori, da un lato, e, dall’altro, una maggiore consapevolezza dei consumatori della loro natura, del ruolo e della funzione nel circuito produttivo.

La breve e frammentaria ricognizione che precede induce alla conclusione che anche il Codice del consumo non poteva e non può costituire quella summa, unica ed esaustiva, della materia in esame, ma solo il punto di partenza per la sistemazione di un settore sempre in grande fermento legislativo ed operativo.

Jobs Act / Corte Costituzionale sulle indennità in caso di licenziamento illegittimo

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, co. 1, del Decreto Legislativo n. 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte in cui determina in modo automatico l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato.

È quanto preannunciato in un comunicato stampa dalla Corte stessa con riguardo alla disciplina del cd. contratto a tutele crescenti, che ha modificato le tutele per il licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015.

Il comunicato riferisce che la Corte ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, co. 1, del suddetto D.Lgs. 23/15 “nella parte che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato”: criterio che, secondo la Corte, è contrario ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza.

Pur in difetto delle motivazioni della sentenza, dal predetto comunicato si ricava che la Corte ha tralasciato alcuni dei profili di sospetta legittimità proposti dal Tribunale di Roma, come l’esiguità e il carattere non dissuasivo dell’indennizzo previsto dal decreto ovvero la disparità di trattamento tra i lavoratori con contratto a tutele crescenti ed altre categorie di lavoratori dipendenti, soffermandosi invece sul meccanismo di determinazione dell’indennizzo.

Con riferimento alla misura dell’indennità, si deve ipotizzare che come conseguenza della rimozione del meccanismo automatico di calcolo della stessa vi sia l’affidamento di tale compito al Giudice, chiamato a scegliere tra il minimo e il massimo dell’indennità previsti dalla legge. Criteri questi originariamente fissati per il licenziamento che fosse dichiarato ingiustificato, in 4 e 24 mensilità di retribuzione, anche se il recente Decreto Dignità (dello scorso agosto) li ha elevati a 6 e 36 mensilità.

Ora, il Giudice del lavoro si troverà a decidere secondo il suo prudente apprezzamento? Il Jobs Act, proprio in quanto escludeva qualsiasi discrezionalità dell’organo giudicante, nulla aveva previsto sul punto. Si può presumere che il Giudice dovrà far applicazione dei noti e storici criteri di cui all’art. 8 della legge n. 60471966, invocati dalla legge anche con riguardo ai contratti a termine illegittimi.

A questo punto, è lecito osservare che la pronuncia della Corte Costituzionale finisce per attribuire una rilevanza imprevista alle recenti modifiche introdotte dal Decreto Dignità. Infatti, dette modifiche sembravano aver un impatto più simbolico che altro, almeno per ora, essendo rinviato l’aumento più consistente (quello del massimo da 24 in 36 mensilità) solo nel caso di lavoratore a tutele crescenti con una anzianità di almeno 12 anni, ossia dal 2027 in poi.

Al contrario, con l’intervento della Corte sembrerebbe che sin da subito un lavoratore licenziato possa ricevere un indennizzo fino a 36 mensilità. Indennizzo che, nello schema legislativo precedente, poteva essere concepibile solo in caso di lavoratore con almeno 12 anni di anzianità.

Non si può non rilevare il paradosso che ne deriva: mentre il Jobs Act voleva ridurre gli imprevisti e dare certezza al datore di lavoro di fronte al “rischio” di un licenziamento illegittimo, la situazione che si è andata determinando per effetto del combinato disposto (del Decreto Dignità e della sentenza della Corte Costituzionale) vede, da un lato, ancora come marginali i casi di possibile reintegrazione ma, dall’altro, appare ampliato lo spazio risarcitorio che, nel caso di indennizzo economico per il lavoratore illegittimamente licenziato, diviene addirittura più elevato di quello previsto dall’art. 18 St.Lav. come novellato dalla Legge Fornero.

Consumerismo: Europa chiama Italia

Da molti anni il consumerismo ha trovato casa in Europa e, sul binario del treno europeo, è giunto anche in Italia.

Il consumerismo, cui facciamo riferimento, è identificabile nell’insieme di opinioni, movimenti, proteste, denunce ed azioni propositive, studi ed attività di lobbing, nonché norme e regolamenti attuati in difesa del cd. consumatore.

Consumerismo, quindi, come movimento di massa? Consumerismo, club di privati utopisti? Consumerismo, come mera tecnica di normazione nelle mani di pochi specialisti? Consumerismo, operazione strumentale di etero-controllo del mondo imprenditoriale sulle istanze più radicali dei cittadini fruitori delle merci? Consumerismo, come associazionismo di anonimi invasati?

Plausibilmente, un po’ di tutto, qualcosa di meno e molto di più. Per questo, vale la piena chiedersi quando, dove e come nasce il consumatore, nel senso giuridico attuale del lemma (persona fisica che si procura o utilizza beni o servizi per il soddisfacimento di esigenze personali o della famiglia,  al di fuori della propria attività professionale e comunque non perseguendo scopi di tipo imprenditoriale).

Quando si parla di diritto dei consumatori o più in generale, di consumatore, ci si riferisce ad un fenomeno piuttosto recente.

La sua scoperta e successiva affermazione avviene nei paesi occidentali, man mano che essi raggiungono gli stadi del capitalismo avanzato, vale a dire solo nel corso del ventesimo secolo.

In questi paesi, più che gli approfonditi studi di economisti e sociologi sono le embrionali organizzazioni spontanee di consumatori a richiamare l’attenzione dei legislatori sul problema del consumo, soprattutto attraverso campagne di stampa volte a segnalare le più gravi storture dell’attività imprenditoriale nella ricerca del profitto, nonché a perseguire il controllo della qualità dei prodotti, il contenimento dei prezzi, il rafforzamento del potere contrattuale del consumatore.

Così, non sorprende il fatto che il movimento dei consumatori abbia origine negli Stati Uniti d’America, ove il capitalismo monopolistico ed oligopolistico è più profondamente radicato.
Nel ventesimo secolo il mondo economico statunitense è stato
scosso dal movimento dei consumatori almeno in tre periodi: la prima volta, agli inizi dello scorso secolo, il movimento fu provocato dall’aumento dei prezzi (in particolare delle sostanze alimentari e farmaceutiche); la seconda volta, a cavallo degli anni ’30, la protesta dei consumatori dipese da fattori quali lo sbalzo in alto dei prezzi al consumo nel pieno della depressione economica e si evidenziò nella nascita della Consumer Union (Unione dei Consumatori); il terzo movimento, intorno alla metà degli anni ’60, è il risultato di una complessa convergenza di circostanze, tra le quali una delle più importanti è senza dubbio il contrasto che si è venuto a creare tra la prassi abituale del commercio e gli interessi a lungo termine dei consumatori.

Proprio negli anni dell’ultimo movimento dei consumatori di matrice americana, il movimento si estende ai paesi europei.

Sorgono associazioni, riviste, opuscoli; si scrivono articoli e si diffondono trasmissioni radiofoniche e televisive sul problema dei consumatori; vengono istituiti organismi amministrativi a tutela del consumatore in Francia, in Inghilterra, in Svezia e in Olanda.

In Italia, viceversa, ove nel medesimo periodo esistono solo alcune spontaneistiche associazioni, si registra una scarsa sensibilità ai problemi del consumo.
Peraltro, non mancano strumentalizzazioni del fenomeno; esse sono sia politiche, in quanto i  detentori del potere non si fanno scrupoli ad utilizzare il consumerism per fini demagogici; sia economiche, infatti le imprese, attraverso le ricerche di marketing, possono conoscere meglio i gusti dei consumatori ed adeguare ad essi la loro produzione.

In realtà, questa strumentalizzazione sortisce anche qualche effetto positivo, almeno per quel che riguarda la produzione dei beni di consumo.

Infatti, vengono immessi nel mercato prodotti sempre più sicuri, meno pericolosi, meno dannosi per la salute e per l’ambiente.
La fondazione del Consiglio danese del consumatore, nata nel 1947, rappresenta la prima organizzazione privata dei consumatori.

Su tale modello, alla fine degli anni ’50, analoghe associazioni iniziarono a fiorire in altri paesi occidentali.

Ma, come si diceva, fu solo verso la fine degli anni ’60 che i movimenti dei consumatori cominciarono ad influenzare in qualche modo i governi europei, incoraggiando nuove proposte di legge ed ottenendo l’istituzione di enti amministrativi ad hoc.

Fermentano iniziative, manifestazioni, denunce, ma anche azioni propositive volte alla tutela sempre più incisiva del consumo. In questo contesto concorrono a tale risultato, le associazioni dei consumatori, le associazioni degli imprenditori, i sindacati, i partiti politici, le cooperative.

La Comunità europea inizia ad occuparsi di tutela dei consumatori soltanto negli anni ’70, allorché i Capi di Stato dei Paesi europei, riuniti a Parigi decidono di potenziare il Fondo sociale europeo, di istituire un Fondo regionale, di chiedere alla Commissione di approntare programmi per la protezione dell’ambiente e dei consumatori, al fine di promuovere l’azione comunitaria oltre gli stretti confini delle relazioni economiche.

Il Trattato di Roma non prevedeva la categoria dei consumatori, né precipue norme di tutela.

Negli anni ’70 i primi diritti dei consumatori ricevono un significativo riconoscimento con l’approvazione da parte del Consiglio d’Europa della Convenzione europea, con risoluzione n. 543 del 1973 (Carta europea di protezione dei consumatori).

Con tale testo, frutto delle istanze fondamentali in materia e modello per molti ordinamenti nazionali, il Consiglio ha previsto un ampio programma di interventi nel settore.

La Carta, precisata la nozione di consumatore, individua quattro diritti fondamentali:

a) alla protezione ed all’assistenza dei consumatori, con un agevole accesso alla giustizia;

b) al risarcimento del danno sopportato dal consumatore;

c) all’informazione ed all’educazione;

d) alla rappresentanza in numerosi organismi e la possibilità di esprimere direttive a livello di scelte politiche ed economiche inerenti la disciplina dei consumi.

Nel 1973 venne anche istituito un “Comitato consultivo dei consumatori” (nel 1989 denominato Consiglio consultivo dei consumatori), con la funzione di trasmettere alla Commissione i punti di vista dei consumatori.

Segue nei medesimi anni un fermento di iniziative di approfondimento e di studio e sulla scorta di simili premesse, la CEE dà inizio ad un intensa attività legislativa di carattere specifico.

Nel 1975 viene emanata una significativa risoluzione (Risoluzione del Consiglio 14 aprile 1975) volta ad armonizzare le iniziative assunte fino allora in favore dei consumatori.

Con la Risoluzione del Consiglio del 15 dicembre 1986, la politica per la tutela e la promozione degli interessi del consumatore viene considerata in rapporto alle altre politiche comuni affinché se ne tenga conto negli interventi degli organismi comunitari.

L’Atto unico europeo, con cui si è integrato il Trattato di Roma, in vigore dal 1 luglio 1987, ha rafforzato il ruolo del Comitato economico e sociale, che ha competenze in materia di protezione dei consumatori.

Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992, ha previsto un titolo apposito, dedicato alla protezione dei consumatori. Con tali disposizioni, l’Unione si è attribuita competenze specifiche in materia, in quanto “contribuisce al conseguimento di un livello elevato di protezione del consumatore”.

Quanto alla politica comunitaria degli interessi dei consumatori, l’Unione Europea ha elaborato il primo piano generale di azione triennale (1990-1992) per la protezione dei consumatori, rivolto ad adottare provvedimenti in materia di salute e di sicurezza per aggiornare e migliorare la legislazione comunitaria nel campo delle garanzie dei prodotti; ciò al fine di orientare i produttori a fabbricare articoli più sicuri.

Il secondo piano generale (1993-95) tende ad elevare la protezione dei consumatori al rango di vera e propria politica comunitaria ed ha quindi aperto nuovi orizzonti agli organi della Comunità.

Nel 1994 la Commissione europea ha approvato, altresì, due documenti di rilevante importanza: il libro verde sulle garanzie dei beni di consumo ed i servizi di assistenza ai clienti ed il libro verde sull’accesso dei consumatori alla giustizia.

Con il Trattato di Amsterdam (1997) l’impegno della Comunità è volto, come sancito nell’art. 153, a “promuovere gli interessi dei consumatori e ad assicurare un livello elevato di protezione”.

È in tale contesto che viene adottato il piano di azione per la politica dei consumatori 1999-2001, che definisce tre grandi settori di intervento: a) la rappresentanza e l’istruzione dei consumatori, organizzando un miglior dialogo fra le associazioni e fra i consumatori e le imprese; b) la salute e la sicurezza dei consumatori, adattando la legislazione in maniera da garantire prodotti più sani e servizi più sicuri; c) gli interessi economici dei consumatori.

Dal 2002, con Comunicazione della Commissione del 7 maggio 2002 al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo ed al Comitato delle regioni (“Strategia per la politica dei consumatori 2000-2006”), tenendo conto dell’allargamento dell’Unione Europea ed al fine di sfruttare il potenziale del mercato interno, si è constatato che i consumatori necessitano di regole semplici ed uniformi, di misure di informazione e di educazione più accessibili, nonché di meccanismi di tutela più efficaci.

Di qui, nel triennio 2003-2006, la strategia della politica dei consumatori si è posta tre obiettivi: un elevato livello di protezione dei consumatori, l’applicazione effettiva di tali regole di protezione, la partecipazione delle organizzazioni dei consumatori alle politiche comunitarie.

Infine, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 7 dicembre 2000) all’art. 38 si sancisce che: “Nelle politiche dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori”, con ciò “costituzionalizzando” il diritto del consumatore in quanto tale alla sua tutela.

Decreto Dignità 8 / Legge di conversione

A seguito dell’approvazione del Senato del 7 agosto 2018, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 186 dell’11 agosto 2018, la Legge n. 96 del 9 agosto 2018 di “Conversione in legge, con modificazioni, del Decreto legge 12 luglio 2018 n. 87, recante disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese (c.d. Decreto Dignità)”.

Il provvedimento definitivo si articola come segue:

Capo I Misure per il contrasto al precariato;

Capo I bis Misure finalizzate alla continuità didattica;

Capo II Misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali;

Capo III Misure per il contrasto del disturbo da gioco d’azzardo – divieto di pubblicità per giochi e scommesse;

Capo IV Misure in materia di semplificazione fiscale – superamento di redditometro, spesometro e split payment;

Capo V Disposizioni finali e di coordinamento – Società sportive dilettantistiche.

Nell’impianto giuslavoristico, la legge di conversione ha sostanzialmente confermato le novità introdotte dal Decreto legge, già diffusamente esaminate nei ns. precedenti post.

In materia contributiva, si annovera la conferma dell’esonero contributivo del 50%, sino al 2020, per i datori di lavoro che assumeranno giovani sino ai 35 anni di età (in luogo dei 30 originariamente previsti).

Viene reintrodotto l’utilizzo dei voucher (che erano stati definitivamente aboliti), limitati ad una durata massima di dieci giorni e destinati alla retribuzione di pensionati, disoccupati, studenti fino ai 25 anni, nei settori turismo, agricolo e degli enti locali.

Sono confermate sanzioni rigide per le imprese beneficiarie di aiuti di Stato che trasferiscano la propria attività o parte di essa al di fuori dell’Unione Europea, nei cinque anni successivi all’ottenimento del beneficio. Nell’ipotesi esaminata, l’azienda decadrà dal beneficio ottenuto e risulterà destinataria di sanzioni economiche il cui importo andrà dalle due alle quattro volte quanto ottenuto a titolo di aiuto di Stato.

Nel provvedimento è prevista una parziale definizione della questione relativa agli insegnanti provvisti del solo diploma magistrale (recentemente, in proposito, il Consiglio di Stato aveva precluso l’insegnamento alla categoria ritenendo il titolo insufficiente e prorogando i contratti in essere sino al 30 giugno 2019).

L’intervento legislativo prevede l’indizione di una procedura concorsuale straordinaria riservata alla predetta categoria di insegnanti e ai laureati in scienze della formazione primaria, in possesso di requisiti minimi di servizio presso le scuole statali, che andranno così a coprire in parte i posti vacanti nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria.

Quanto al gioco d’azzardo: “slot” e “videolottery” saranno muniti obbligatoriamente di lettori di tessera sanitaria in modo tale da impedire il gioco ai minorenni. In caso di violazione, sono previste sanzioni per € 10.000,00, per ogni dispositivo non a norma. Viene confermato il divieto di pubblicità, sia diretta che indiretta, avente ad oggetto giochi o scommesse con vincite in denaro, con la previsione di sanzioni, in caso di violazione, non inferiori a € 50.000,00 e, comunque, dal 5% al 20% del valore della sponsorizzazione.

In ambito fiscale, la Legge conferma il rinvio dell’obbligo di fatturazione elettronica per i distributori di carburanti sino a gennaio 2019 e proroga per tutto il 2018 la facoltà prevista per le aziende di compensare crediti nei confronti delle P.A. con eventuali debiti iscritti in cartelle esattoriali.

Infine, il provvedimento definitivo conferma lo stop al redditometro, il rinvio dello spesometro a fine febbraio 2019, l’abolizione (appena introdotta) della scissione dei pagamenti, cd. “split payment”, per i professionisti nei confronti delle P.A.

Decreto Dignità 7 – Rischio Riforma: pochi rinnovi e nessun effetto deterrente contro i licenziamenti illegittimi

Con l’entrata in vigore del cd. Decreto Dignità le eterne opposte fazioni del ns. agone politico (i fautori della nuova norma, da un lato, e i contrari, dall’altro) hanno iniziato a duellare, senza tuttavia offrire chiarezza e trasparenza, forse senza neppure troppa consapevolezza della reale portata della nuova disciplina.

In ogni caso, se da un lato si è compreso che un effetto sulla gestione delle imprese il provvedimento lo ha avuto o lo avrà senza dubbio, dall’altro appare utile indagare se le novità introdotte hanno o avranno una qualche reale incidenza sulla vita dei lavoratori.

 

In primis, si rammenti la riduzione della durata massima consentita dei contratti a termine da 36 mesi a 24 o a 12 senza causale e, appunto, la reintroduzione della causale per i contratti superiori a 12 mesi.

Anche nell’ottica dei lavoratori, va detto che un contratto che duri meno (24 mesi anziché 36 mesi) può̀ essere solo penalizzante per il dipendente, che vedrà̀ così ridursi la prospettiva della durata del suo rapporto di lavoro, senza avere alcuna certezza che in questo modo si favorisca la stipula di contratti a tempo indeterminato.

 

Con riguardo alla cd. reintroduzione delle causali, neppure questo appare un provvedimento idoneo a combattere il “precariato”.

Infatti, l’effetto più probabile è l’aumento dell’utilizzo di contratti a termine inferiori a 12 mesi senza necessità di apporre causale e, solo nel caso di soddisfazione datoriale, la trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato. Nel caso contrario, il rapporto a tempo finirà prima e senza possibilità di rinnovi acausali. Un altro effetto possibile potrebbe essere il ritorno in auge dei co.co.co. per ovviare all’ostacolo della apposizione della causale.

Anche in questo caso la riforma non sembra, allo stato, idonea a modificare significativamente il panorama del cd. precariato.

 

Ed ancora. Quanto alla indennità per il licenziamento ingiustificato, anche in questo caso le modifiche sono state agitate, da entrambe le fazioni contendenti, come capaci di cambiare i destini dei lavoratori o delle imprese, ma anche su questo punto con mera finalità di propaganda partigiana e senza badare molto alla sostanza delle cose.

Gli aggravi introdotti sulle due indennità risarcitorie (la minima e la massima)possono essere giudicati in vario modo ma, se la minima (da 2 a 4 mesi) oggettivamente non sembra in grado di cambiare la vita delle persone, la massima (da 24 a 36 mesi) si appalesa come più efficace e gravosa.

Ma, a guardare il provvedimento in controluce, occorre evidenziare come il lavoratore che possa rivendicare la indennità massima prevista , ad oggi, “non esiste”, in quanto la misura della indennità è legata all’anzianità̀ del lavoratore.

Infatti, per poter invocare il diritto ad una indennità di 36 mensilità occorrerebbe che il lavoratore (si badi bene, assunto a tutele crescenti) vanti almeno 18 anni di anzianità̀.

Pertanto, la nuova disciplina è applicabile solo a chi sia stato assunto a tutele crescenti, ossia dal 7 marzo 2015, il che vuol dire che l’effetto (più minaccioso e forse più efficace) della intera riforma (Decreto Dignità) potrebbe iniziare a sentirsi davvero solo a partire dal marzo 2027 in poi, ovverosia dopo che i primi assunti a tutele crescenti avranno maturato almeno 12 anni di anzianità̀ e potranno quindi, se del caso, beneficiare dell’aumento dell’indennizzo.

Fino a quella data si potrà invocare la nuova norma ma nessun lavoratore avrà diritto a beneficiare dell’aggravio della sanzione, che inizia a produrre i suoi effetti su lavoratori con anzianità superiore ad almeno 12 anni.

 

Insomma, una riforma di grande clamore ma dagli scarsi effetti immediati.