Giurisprudenza / Il revirement della Corte Suprema sugli obblighi motivazionali della P.A. nel caso di impugnazione dell’avviso di riclassamento dell’immobile ed attribuzione di nuova rendita catastale.

Con la recentissima ordinanza n. 591 del 15 gennaio 2020, la Corte Suprema interviene nuovamente nel solco del copioso contenzioso tributario incardinatosi in ragione della massiva attività di rideterminazione del classamento e attribuzione di nuova rendita catastale posta in essere dall’Agenzia delle Entrate ai sensi dell’art. 1, comma 335, Legge n. 311/2004, accogliendo il ricorso di due contribuenti che lamentavano il vizio di motivazione dell’avviso di accertamento impugnato e confermando il revirement in corso del precedente orientamento giurisprudenziale prevalente.

La Corte Suprema precisa quale sia la sufficienza dell’obbligo motivazionale incombente sugli atti dell’Amministrazione Finanziaria, in tema di estimo catastale, a seconda che lo stesso debba supportare l’attivazione autonoma dell’Agenzia del Territorio competente ovvero l’attivazione dell’Agenzia a seguito dell’iniziativa del contribuente, mediante la cd. procedura “DOCFA”.

Mentre nella seconda fattispecie l’obbligo motivazionale risulta soddisfatto con la semplice indicazione dei dati oggettivi e della classe attribuita all’unità immobiliare, qualora gli elementi di fatto individuati dal contribuente siano confermati dall’Amministrazione stessa e l’eventuale differenza tra rendita proposta e attribuita sia dovuta ad una mera valutazione tecnica inerente il valore economico dei beni, la conclusione cui perviene il Giudice di Legittimità è totalmente opposta qualora ricorra la prima fattispecie.

Secondo la Corte, infatti, nel caso di iniziativa dell’Ufficio, la motivazione dovrà essere più approfondita, sia per consentire il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente, che dovrà necessariamente essere posto nella condizione di valutare se prestare o meno acquiescenza al provvedimento e di approntare la migliore strategia processuale, sia per delimitare l’oggetto dell’eventuale contenzioso, cristallizzando così le ragioni poste a fondamento dell’avviso e impedendo, altresì, all’Agenzia di aggiungere ulteriori profili rispetto a quanto indicato nell’atto, sulla base della prospettazione offerta dal contribuente stesso.

In merito, la Corte precisa che la motivazione dell’atto di riclassamento non può subire integrazioni nel giudizio di impugnazione, al fine di impedire “un inammissibile giudizio ex post della sufficienza della motivazione, argomentata dalla difesa svolta in concreto dal contribuente, piuttosto che un giudizio ex ante basato sulla rispondenza degli elementi enunciati nella motivazione….

La pronuncia in esame consolida, quindi, anche alla luce delle recenti indicazioni interpretative espresse dalla Corte Costituzionale con la pronuncia n. 249/2017, l’orientamento secondo cui, nel caso di nuovo classamento ex art. 1, comma 335, L. 30 n. 311/2004, nell’ambito di una revisione dei parametri catastali della microzona in cui l’immobile è situato, giustificata dallo scostamento significativo del rapporto tra valore di mercato e valore catastale in una determinata microzona rispetto all’analogo rapporto nell’insieme delle microzone comunali, l’Amministrazione finanziaria non potrà esimersi dalla valutazione, nel caso concreto, del singolo immobile, rispettando in tal modo esigenze di “concretezza e di analiticità”, non risultando sufficiente una “motivazione standardizzata, applicata indistintamente, che si limiti a richiamare i presupposti normativi in modo assertivo (Cass. 3156/2018; Cass. 23129/2018; Cass. 28035/2018; Cass. 2876/2018; Cass. 9770/2019).

Pertanto, un’operazione di riclassamento di massa dal carattere così diffuso e seriale, come quella del caso di specie, potrà essere considerata legittima solo se supportata da una motivazione tanto precisa quanto rigorosa.

In conclusione, la Corte afferma e fissa il seguente principio di diritto: “In tema di estimo catastale, il nuovo classamento adottato ai sensi dell’art. 1, comma 335, della Legge 30 dicembre 2004 n. 311, soddisfa l’obbligo di motivazione se, oltre a contenere il riferimento ai parametri di legge generali, quali il significativo scostamento del rapporto tra il valore di mercato ed il valore catastale rispetto all’analogo rapporto sussistente nell’insieme delle microzone comunali, ed ai provvedimenti amministrativi su cui si fonda, consente al contribuente di evincere gli elementi, che non possono prescindere da quelli indicati nell’art. 8 del D.P.R. 23 marzo 1998 n. 138 (quali la qualità urbana del contesto nel quale l’immobile è inserito, la qualità ambientale della zona di mercato in cui l’unità è situata, le caratteristiche edilizie del fabbricato e della singola unità immobiliare), che, in concreto, hanno inciso sul diverso classamento, ponendolo in condizione di conoscere ex ante le ragioni specifiche che giustificano il singolo provvedimento di cui è destinatario, seppure inserito in un’operazione di riclassificazione a carattere diffuso”.

 

 

Giurisprudenza / Prova scritta ex art. 634 c.p.c. per l’emissione del decreto ingiuntivo e fatturazione elettronica.

Secondo una recente ed interessante giurisprudenza di merito, le fatture elettroniche generate e trasmesse mediante il Sistema di Interscambio di cui all’articolo 1, commi 211 e 212, L. 244/2007 non soddisfano da sole il requisito della prova scritta di cui all’art. 633, n. 1 c.p.c., necessario ai fini della emissione del decreto ingiuntivo, se non accompagnate dall’estratto autentico notarile richiesto dall’art. 634, co. 2 c.p.c. (Tribunale Vicenza, sez. II, 25/10/2019).

A tal proposito, preme rammentare innanzitutto che, affinché il ricorso per decreto ingiuntivo sia considerato ammissibile, si deve fornire al giudice una cd. prova scritta a fondamento del diritto vantato. In materia l’art. 634, co. 2, c.p.c. stabilisce infatti che “Per i crediti relativi a somministrazioni di merci e di danaro nonché per prestazioni di servizi fatte da imprenditori che esercitano una attività commerciale e da lavoratori autonomi anche a persone che non esercitano tale attività, sono altresì prove scritte idonee gli estratti autentici delle scritture contabili di cui agli articoli 2214 e seguenti del codice civile, purché bollate e vidimate nelle forme di legge e regolarmente tenute, nonché gli estratti autentici delle scritture contabili prescritte dalle leggi tributarie, quando siano tenute con l’osservanza delle norme stabilite per tali scritture”.

Pertanto, in caso di crediti derivanti da fatture cartacee, si richiedeva il deposito dell’estratto notarile autentico delle stesse. Ebbene, con l’introduzione dell’obbligo di fatturazione elettronica, si è posto il problema di comprendere se queste ultime siano già di per sé titoli idonei per l’emissione di un decreto ingiuntivo o meno e si sono, di conseguenza, sviluppati diversi orientamenti giurisprudenziali.

Il Tribunale di Vicenza, con la citata sentenza del 25 ottobre 2019, ha sancito il principio secondo cui la fattura elettronica, da sola, non soddisfa il requisito della prova scritta previsto dall’art. 634, co. 2, c.p.c., a meno che non sia accompagnata dal relativo estratto autentico notarile.

La ratio della posizione assunta dal Tribunale vicentino si rinviene nel fatto che la produzione dell’estratto autentico notarile delle scritture contabili garantirebbe il controllo della regolare tenuta di tali scritture, verifica che non può essere effettuata sulla scorta della mera fatturazione elettronica. Poiché, dunque, il Sistema di Interscambio (SDI) – di cui all’art. 1, commi 211 e 212, L. 244/2007 – garantisce solo l’autenticità delle fatture, il ricorrente (per l’ottenimento del provvedimento monitorio) è sempre tenuto a produrre in giudizio l’estratto autenticato delle scritture contabili, ai fini del conseguimento della prova scritta prevista dall’art. 634 c.p.c.

 

 

 

Cassazione / Anche in caso di responsabilità solidale tra committente ed appaltatore prescrizione quinquennale per i contributi INPS

Il termine di decadenza biennale previsto all’art. 29 d.lg. n. 276/2003 fa riferimento ai trattamenti retributivi e contributivi suscettibili, però, di essere fatti valere direttamente dai lavoratori, non potendosi estendere l’efficacia del termine decadenziale anche a soggetti terzi, quale l’ente previdenziale, i cui diritti scaturenti dal rapporto di lavoro disciplinato dalla legge si sottraggono dal termine di decadenza previsto ex lege” (Cass. Civ., Sez. Lav., 4 luglio 2019, n. 18004).

Di recente, sia la Suprema Corte di Cassazione che l’Ispettorato Nazionale del Lavoro sono intervenuti sull’argomento relativo alla responsabilità solidale tra committente e imprese appaltatrici e subappaltatrici in relazione al versamento dei contributi dovuti ai lavoratori impiegati negli appalti.

Preme rammentare che il D.Lgs. n. 276/2003, all’art. 29, co. 2, sancisce il principio della responsabilità solidale del committente di un appalto per i crediti retributivi e contributivi vantati dal lavoratore dipendente verso il proprio datore di lavoro stabilendo che: “in caso di appalto di opere o di servizi, il committente imprenditore o datore di lavoro è obbligato in solido con l’appaltatore, nonché con ciascuno degli eventuali subappaltatori, entro il limite di due anni dalla cessazione dell’appalto, a corrispondere ai lavoratori i trattamenti retributivi, comprese le quote di trattamento di fine rapporto, nonché i contributi previdenziali e i premi assicurativi dovuti in relazione al periodo di esecuzione del contratto di appalto”.

Ebbene, l’Ispettorato del Lavoro, con nota n. 9993 del 19 novembre 2019, ha chiaramente specificato che, nell’ambito di applicazione della responsabilità solidale entro il limite dei due anni, non vi rientrano i crediti contributivi vantati dagli Enti previdenziali. Ne consegue, quindi, che l’INPS potrà far valere il suo credito contributivo entro il termine ordinario di prescrizione di cinque anni, termine previsto dall’art. 3, co. 9, L. n. 335/1995.

Risulta opportuno, pertanto, distinguere i crediti retributivi dei lavoratori dai crediti contributivi vantati dagli Istituti previdenziali. Ciò in quanto, il regime decadenziale dei due anni previsto dalla succitata norma di cui al D.Lgs. n. 276/2003 si applica solo all’azione esperita dal lavoratore e non invece alle azioni promosse dagli Enti previdenziali.

La ratio di tali interventi è riscontrabile nella differenza tra il rapporto di lavoro e quello previdenziale. La Suprema Corte di Cassazione, infatti, ha sancito la funzione garantistica di tale orientamento, spiegando che l’applicazione estensiva del termine decadenziale dei due anni porterebbe all’eventualità che “alla corresponsione di una retribuzione a seguito dell’azione tempestivamente proposta dal lavoratore, non possa seguire il soddisfacimento anche dell’obbligo contributivo solo perché l’ente previdenziale non ha azionato la propria pretesa nel termine di due anni dalla cessazione dell’appalto” (cfr. sent. n. 18004 del 04.07.2019, n. 22110 del 04.07.2019, n. 8662 del 28.03.2019 e n. 13650 del 21.05.2019).

Pertanto, l’INL si è adeguato all’orientamento giurisprudenziale che sancisce il principio secondo il quale l’INPS potrà far valere il suo credito contributivo entro il termine di prescrizione di cinque anni e non entro quello di due anni previsto ex lege.

Cassazione / Sui requisiti di validità del verbale di conciliazione in materia lavoro.

“In materia di atti abdicativi di diritti del lavoratore subordinato, le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto diritti del prestatore di lavoro previsti da disposizioni inderogabili di legge o da contratti collettivi, contenuti in verbali di conciliazione conclusi in sede sindacale, non sono impugnabili, a condizione che l’assistenza prestata dai rappresentanti sindacali sia stata effettiva, così da porre il lavoratore in condizione che dall’atto stesso si evincano la questione controversa oggetto della lite e le reciproche concessioni in cui si risolve il contratto transattivo ai sensi dell’art. 1965 c.c(Cass. Civ., Sez. Lav., 1 aprile 2019, n. 9006).

Di recente, la Suprema Corte si è espressa sulla questione dei requisiti di validità del verbale di conciliazione sottoscritto in sede sindacale, statuendo la non impugnabilità delle rinunce ai diritti dei lavoratori solo a condizione che i rappresentanti sindacali abbiano prestato effettiva assistenza al lavoratore durante la sottoscrizione.

Preme rammentare infatti che l’accordo tra il datore di lavoro ed il lavoratore è esente da vizi quando il verbale, sottoscritto in sede sindacale, è caratterizzato da tutti gli elementi considerati necessari per legge al fine di concludere una valida ed efficace transazione ai sensi dell’art. 1965 c.c.

I giudici della Cassazione hanno, dunque, ribadito che il verbale di conciliazione è valido se dalla scrittura, contenente le rinunce e le transazioni aventi ad oggetto la sfera dei diritti del lavoratore previsti da norme inderogabili di legge o di contratti collettivi, risultino gli elementi essenziali del negozio, quali: la comune volontà delle parti di risolvere una controversia in atto, la materia oggetto delle pretese giuridiche di ciascuna parte e il nuovo regime di interessi che si sostituisce a quello precedente, ossia a condizione che dal testo dell’accordo si evinca la questione controversa oggetto della lite e le reciproche concessioni che le parti dell’accordo si fanno per perfezionare la transazione.

Ne consegue che la conciliazione è efficace e non può essere oggetto di impugnazione solo se i rappresentanti sindacali, in sede di sottoscrizione del verbale, abbiano prestato una assistenza effettiva, ossia abbiano informato chiaramente e precisamente il lavoratore sulle rinunce riguardanti i suoi diritti, rendendolo pienamente conscio di ciò a cui rinuncia, degli effetti e delle eventuali perdite conseguenziali, in buona sostanza ponendo il lavoratore stesso in condizione di sapere a quali diritti stia rinunciando e in quale misura.

Pertanto, con tale ordinanza è stata sancita, unitamente allo svolgimento di un ruolo attivo da parte del rappresentante sindacale, l’effettiva assistenza nei confronti del lavoratore in modo tale che quest’ultimo sia in grado di comprendere coscientemente ciò che stipula e l’irreversibilità degli effetti scaturenti dall’accordo.

Cassazione / Sulla natura dichiarativa della sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro. Conseguenze

Di recente, la Cassazione si è espressa sulla natura rivestita dalla sentenza che statuisce la nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro, statuendone la natura dichiarativa e non costitutiva (Cass. Civ., Sez. Lav., 26 marzo 2019 n. 8385).

Ne discende che la conversione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato opera ex tunc a far data dalla illegittima stipulazione del contratto a termine e che, pertanto, l’indennità di cui all’articolo 32, comma 5, L. 183 del 2010 vale a ristorare per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, con riferimento al periodo compreso fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro.

In ragione della natura dichiarativa della sentenza in oggetto, posta la trasformazione con efficacia ex tunc e non costitutiva ex nunc del rapporto, nel caso specifico la Suprema Corte ha ritenuto che il licenziamento illegittimamente irrogato deve considerarsi intervenuto su un rapporto a tempo indeterminato, con applicazione dell’art. 18 L. 300/1970.

Pertanto, ha precisato la Corte, il danno forfetizzato dall’art. 32 co. 5 della legge n. 183 del 2010, di cui sopra, ha l’effetto di ristorare il periodo che va dalla scadenza del termine fino alla sentenza di nullità del termine stesso, mentre il licenziamento intervenuto deve essere considerato a tutti gli effetti di legge quale recesso da un rapporto a tempo indeterminato.

Il principio di diritto tratto dalla sentenza della Cassazione, Sez. Lav., n. 8385 del 2019 è pertanto il seguente: “In tema di contratti di lavoro a tempo determinato, la sentenza che accerta la nullità della clausola appositiva del termine e ordina la ricostituzione del rapporto illegittimamente interrotto, cui è connesso l’obbligo del datore di riammettere in servizio il lavoratore, ha natura dichiarativa e non costitutiva; ne consegue che la conversione in rapporto di lavoro a tempo indeterminato opera con effetto “ex tunc” dalla illegittima stipulazione del contratto a termine (sicché non è configurabile un recesso datoriale intervenuto “ante tempus” in costanza di un rapporto di lavoro a tempo determinato), mentre l’indennità di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010 ristora per intero il pregiudizio subito dal lavoratore, comprese le conseguenze retributive e contributive, per il periodo fra la scadenza del termine e la pronuncia del provvedimento con il quale il giudice abbia ordinato la ricostituzione del rapporto di lavoro”.

Cassazione / Sul risarcimento del danno da demansionamento

Con la recente sentenza n. 16595 del 20 giugno 2019 la Suprema Corte si è nuovamente pronunciata sull’annosa questione del danno alla professionalità, disaminando la fattispecie di un lavoratore demansionato che, in primo grado di giudizio, aveva ottenuto un risarcimento del danno patrimoniale pari al 50% della retribuzione percepita. In sede di gravame, tuttavia, la sentenza veniva parzialmente riformata e la Corte d’Appello di Roma riduceva l’ammontare del risarcimento al 30% delle retribuzioni maturate. Quanto sopra, in virtù di una prassi giurisprudenziale di merito che non teneva in alcuna considerazione fattori viceversa rilevanti quali, a titolo esemplificativo, la perdita di benefit e i mancati incrementi retributivi.

Nella sentenza in esame, gli Ermellini rinsaldano l’orientamento prevalente sulla quantificazione del danno da demansionamento, confermando la possibilità di un giudizio in via equitativa, seppur dettagliatamente motivato.

Come noto, l’art. 2103, co. 1 c.c. prevede che il lavoratore sia assegnato alle mansioni per le quali è stato assunto o a mansioni equivalenti e, costituendo presidio inderogabile ai principi di libertà e dignità del lavoratore, la nullità di ogni patto contrario.

Dalla violazione dell’art. 2103 c.c. da parte datoriale, può derivare un danno di perdita della professionalità di natura patrimoniale consistente sia nell’impoverimento della capacità professionale del lavoratore e nella mancata acquisizione di ulteriori capacità lavorative, sia nella perdita di chances, nel senso di perdita delle possibilità di maggior guadagno o di potenzialità occupazionali.

In altri termini, la violazione dell’art. 2103 c.c. può arrecare grave pregiudizio alla professionalità del prestatore di lavoro, rappresentando un parametro essenziale nella determinazione del valore di un soggetto in ambito lavorativo e, quindi, un bene economicamente valutabile.

Ebbene, è evidente che in una fattispecie di danno tanto diversificato e condizionato da plurime variabili, al giudice di merito sia consentito il ricorso al giudizio di equità, ex art. 1226 c.c.

Corollario di tale operazione è che incombe sul lavoratore il relativo onere probatorio, mediante allegazione di tutte le circostanze rilevanti, ivi incluse le presunzioni relative ad elementi gravi, precisi e concordanti, inerenti gli elementi di fatto relativi a qualità e quantità dell’esperienza lavorativa pregressa, al tipo di professionalità, alla durata del demansionamento, all’esito della dequalificazione.

Una volta accertato il demansionamento,  è rimessa al prudente apprezzamento del giudice la facoltà di determinare l’entità del risarcimento in via equitativa, indicando nella parte motiva l’iter logico seguito nella valutazione, ossia i parametri seguiti per la determinazione del quantum del danno patito e gli elementi su cui ha basato la propria decisione.

Nella fattispecie esaminata, la Corte d’Appello non aveva motivato adeguatamente la decisione e, omettendo di enunciare i criteri di valutazione seguiti, aveva impedito alle parti di verificare il procedimento logico seguito nella quantificazione del risarcimento del danno.

Anzi, il Collegio giudicante aveva meramente richiamato la prassi giurisprudenziale in virtù della quale il danno da demansionamento veniva generalmente riconosciuto nel 30% della retribuzione percepita, senza aggiungere alcuna motivazione sul punto.

La Corte di Cassazione ha pertanto cassato la sentenza con rinvio.

 

Cassazione / Sul licenziamento intimato tardivamente rispetto al termine previsto nel CCNL di riferimento.

Un interessante sentenza della Corte di Cassazione dello scorso anno (Cassazione civile, sez. lav., 3 settembre 2018 n. 21569) ha stabilito quali siano le conseguenze cui il datore di lavoro va incontro laddove commini un licenziamento che venga dichiarato illegittimo in quanto intimato oltre il termine previsto dal CCNL di riferimento.

Nella specie, la Corte ha ritenuto che la tardività del licenziamento, rispetto al termine previsto dal contratto collettivo per le giustificazioni rese dal lavoratore, non rappresenti una mera violazione di ordine procedurale, bensì un’ipotesi di insussistenza del fatto contestato, in considerazione del fatto che la mancata irrogazione al lavoratore della sanzione nei termini previsti equivale, secondo la Suprema Corte, ad implicito accoglimento delle giustificazioni rese dal dipendente.

In particolare la Suprema Corte si è espressa affermando che: “La violazione del termine stabilito dal contratto collettivo per l’irrogazione della sanzione, comportando un silenzio che vale come accettazione delle difese del lavoratore, si risolve in un venire contra factum proprium, contrario alla clausola di buona fede che presidia il rapporto di lavoro. Il licenziamento intimato nella vigenza della nuova disciplina introdotta dalla l. n. 92/2012 deve perciò considerarsi non semplicemente inefficace, per il mancato rispetto di un termine procedurale e dunque per motivi solo formali, bensì anche illegittimo per l’insussistenza del fatto contestato, per avere il datore di lavoro accolto le giustificazioni a discolpa del dipendente e dunque per la totale mancanza di un elemento essenziale della giusta causa…”.

In definitiva, la Cassazione ha ritenuto applicabile in favore del lavoratore, nel caso concreto, la tutela prevista dall’art. 18, quarto comma, della l. n. 300/1970 – nella versione vigente ratione temporis – ossia la tutela reintegratoria (e non la sola tutela indennitaria) prevista dall’art. 18, quarto comma del medesimo Statuto dei Lavoratori.

In conclusione, la sentenza in commento ha ritenuto che la norma del CCNL, nella parte in cui prevede come conseguenza del ritardo nell’irrogazione della sanzione l’implicita accettazione delle giustificazioni del lavoratore, ancorché inserita in un contesto di norme procedurali, ha rango di norma sostanziale che regola il corretto esercizio del potere di recesso datoriale, anche in applicazione dei principi di correttezza e buona fede che presidiano il rapporto di lavoro.

Geometri / La deontologia come faro necessario nei comportamenti del geometra

Con il presente commento – che fa seguito al precedente già dedicato al tema della deontologia nella professione del geometra – intendiamo soffermarci sul Titolo II (Della condotta) del Codice di Deontologia Professionale dei Geometri.

In sintesi, il titolo II si compone di sei sezioni dedicate alla condotta che il geometra deve osservare nell’esercizio della professione con riferimento specifico all’aggiornamento professionale, alla concorrenza ed alla pubblicità; inoltre, è riservata grande attenzione e dovizia di precetti ai rapporti professionali tra il geometra e gli altri soggetti appartenenti alla categoria: i colleghi, il Consiglio del Collegio, i praticanti.

***

In particolare, la prima sezione del Titolo II è dedicata ai “valori sociali” e si apre con la impegnativa dichiarazione secondo cui il geometra deve ispirare la propria condotta a principi di indipendenza di giudizio, di autonomia professionale e di imparzialità e deve evitare ogni possibile interferenza tra professione ed affari personali (art. 6).

Si prosegue con l’ulteriore obbligo del professionista (art. 7) di coltivare accuratamente il proprio aggiornamento professionale, senza dimenticare che altro precetto (di cui al precedente art. 4) impone che il geometra espleti il proprio incarico “con l’impiego rigoroso di conoscenze scientifiche appropriate per la preordinazione di elaborati ed atti adeguati a conseguire il risultato oggetto dell’incarico”.

Tra i fondamentali canoni deontologici che regolano il corretto agire del geometra vi è anche quello (art. 9) di prestare un’adeguata garanzia per i danni che il professionista possa eventualmente provocare nell’esercizio della propria attività professionale, mediante accensione di specifica polizza assicurativa. In questo caso, come in altri, il Codice Deontologico ha anticipato il legislatore, il quale, solo con il D.L. n. 1 del 24 gennaio 2012, conv. in Legge n. 27 del 24 marzo 2012, ha imposto l’obbligo legale per tutti professionisti di dotarsi di apposita assicurazione di copertura del rischio da danni professionali.

***

Nella successiva sezione, si analizza e si disciplina il comportamento del geometra in tema di possibile concorrenza sleale, imponendo come canone generale di ispirazione per il geometra l’astensione dal porre in essere atti di concorrenza sleale.

In tal caso (art. 10), il Codice – con diversa tecnica redattrice del precetto deontologico rispetto ai principi generali – configura le singole fattispecie di sleale concorrenza, indicando:

  1. a) la riduzione sistematica dell’onorario o la sua incompleta o irregolare documentazione;
  2. b) qualunque attività volta a procacciare clienti, anche avvalendosi di intermediari;
  3. c) l’impiego di qualunque altro mezzo scorretto o illecito volto a procurarsi la clientela in spregio al decoro e al prestigio della Categoria.

Con l’art. 11, il Codice norma la fattispecie del geometra pubblico dipendente, il quale può svolgere la doppia attività se soddisfa i seguenti requisiti: ossia a) se in rapporto di lavoro a tempo parziale con la P.A.; b) se rispetta i limiti discendenti dal rapporto d’impiego con l’amministrazione di appartenenza; c) se si astiene dall’avvalersi della propria posizione privilegiata per trarre vantaggi per sé o per altri; d) se comunica al Presidente del Collegio di appartenenza le mansioni svolte presso l’amministrazione in cui è impiegato e le eventuali variazioni nel tempo.

***

Nella terza sezione, all’art. 12, il Codice regolamenta il rapporto del professionista con la pubblicità, sancendo il cd. obbligo di informazione veritiera e precisando che il geometra può avvalersi della pubblicità informativa purché questa sia improntata a soddisfare l’interesse del pubblico.Tale informazione, pertanto, potrà riguardare le caratteristiche, i risultati ed il compenso della sua prestazione professionale, oltre che le specializzazioni possedute.

È di tutta evidenza che la pubblicizzazione dei costi della prestazione deve essere ispirata a criteri di trasparenza e veridicità, con specificazione analitica dei contenuti della prestazione, delle spese, delle anticipazioni e degli onorari. È severamente vietato un uso ingannevole della pubblicità.

La norma deontologica, come già in altri casi, ha anticipato quella civilistica che, solo con l’art. 4 del DPR n. 137/2012, ha delineato la fattispecie come segue: “È ammessa con ogni mezzo la pubblicità informativa avente ad oggetto l’attività delle professioni regolamentate, le specializzazioni, i titoli posseduti attinenti alla professione, la struttura dello studio professionale e i compensi richiesti per le prestazioni”, statuendo, al co. 2, che “La pubblicità informativa di cui al comma 1 dev’essere funzionale all’oggetto, veritiera e corretta, non deve violare l’obbligo del segreto professionale e non dev’essere equivoca, ingannevole o denigratoria”.

Pertanto, alla luce delle attuali norme disciplinari, si può dedurre che il geometra ha facoltà di utilizzare la rete internet ma, comunque, per fornire informazioni la cui conoscenza corrisponde all’interesse del pubblico. Si ritiene opportuno che, nel caso di utilizzo del web, il professionista – che abbia pubblicato il proprio sito, blog, ecc. – comunichi l’indirizzo del sito internet al Consiglio del Collegio, il quale, in tal modo, ha la possibilità di effettuare eventuali controlli sulla correttezza delle informazioni ivi pubblicate, la continenza delle modalità e delle tecniche di comunicazione, insomma del rispetto delle norme deontologiche anche sul web.

***

Nella quarta sezione si analizzano i rapporti con i colleghi, anche questa volta con la preziosa tecnica della esplicitazione delle singole fattispecie rilevanti, esemplificatrici del principio generale.

Infatti, se è vero che, per l’art. 13 del Codice, il geometra deve comportarsi sempre secondo “principi di correttezza, collaborazione e solidarietà”, in concreto si elencano i più frequenti casi di violazione dei predetti principi:

– se si omette di informare in via riservata il collega di possibili errori od irregolarità che si ritiene questi abbia commesso;

– se si esprimono, alla presenza del cliente, valutazioni critiche sull’operato o sul comportamento del collega, non riconducibili ad osservazioni o controdeduzioni tecniche necessarie per la corretta esecuzione della propria prestazione;

– se si prosegue l’esecuzione di prestazioni oggetto di incarico conferito ad un collega, senza preventivamente informarlo;

– se non si assumono le opportune iniziative volte ad una celere e completa definizione dei rapporti tra il committente ed il collega precedentemente incaricato;

– se si ostacola in qualunque modo la composizione di una controversia tra colleghi per il tramite del Presidente del Collegio;

– se ci si sottrae volontariamente ed in maniera sistematica a scambi di opinioni e di informazioni sull’attività professionale con i colleghi.

Non solo. Qualora nell’esercizio della professione venga a trovarsi in stridente contrasto personale con un collega, il geometra deve darne immediata notizia al Presidente di Collegio affinché questi, personalmente o tramite un delegato scelto tra colleghi esperti in materia, possa esperire un tentativo di conciliazione.

***

Con la quinta sezione e l’art. 15 si disciplinano i rapporti con il Consiglio del Collegio.

In particolare, il geometra è tenuto a prestare la più ampia collaborazione al Consiglio del Collegio di appartenenza affinché questo assolva, in maniera efficiente ed efficace, alle funzioni di vigilanza e ad ogni altro compito ad esso demandato dalla legge, al fine di assicurare la massima tutela al prestigio e al decoro della Categoria. I geometri sono tenuti a partecipare alle assemblee istituzionali del proprio Collegio.

Il geometra deve altresì:

– comunicare al Presidente del Collegio tutte le variazioni dei dati necessari all’iscrizione ed all’aggiornamento dell’Albo;

– informare il Presidente del Collegio in merito a problemi di generale rilevanza per la Categoria;

– segnalare al Presidente del Collegio eventuali difficoltà nei rapporti con gli Uffici Pubblici, astenendosi dall’assumere iniziative personali che possano pregiudicare il più generale interesse della Categoria;

– rispettare le direttive emanate dal Consiglio Nazionale e/o dal Collegio di appartenenza.

Con riguardo al geometra che sia divenuto componente del Consiglio di un Collegio provinciale o circondariale o componente del Consiglio Nazionale, il canone deontologico n. 16 prevede che egli debba adempiere ai doveri dell’ufficio impersonato con diligenza ed obiettività, cooperando per il continuo ed efficace funzionamento del Consiglio. Egli deve partecipare in modo effettivo alla vita e ai problemi della Categoria favorendo il rispetto e la collaborazione reciproca fra i geometri e stimolando la loro partecipazione alle iniziative programmate nell’interesse degli iscritti.

***

Infine, nella sesta sezione del titolo II, qui in analisi, sono normati i rapporti con i praticanti.

Così, all’art. 17 del Codice, si precisa che il geometra è tenuto all’insegnamento delle proprie conoscenze ed esperienze in materia professionale ed a realizzare ogni attività finalizzata a favorire l’apprendimento da parte del tirocinante nell’ambito della pratica professionale.

In particolare, il geometra deve favorire l’acquisizione da parte del praticante dei fondamenti teorici e pratici della Professione, nonché – ricordiamocelo sempre – dei principi di deontologia professionale.

Conservazione del posto e trattamento economico di malattia

Il periodo di conservazione del posto da parte del datore di lavoro (e l’eventuale relativo trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva) non può essere confuso con l’indennità economica di malattia posta a carico dell’INPS.

Infatti, nel caso di malattia del lavoratore, l’indennità economica di malattia garantita dall’istituto previdenziale pubblico è prevista per un periodo massimo di 180 giorni, è determinata in una misura percentuale (in via generale, 50% della Retribuzione Media Giornaliera dal 4° al 20° giorno e 66,66% dal 21° al 180° giorno) ed è posta a carico dell’INPS con il sistema del conguaglio (anticipata dal datore di lavoro e poi recuperata).

Viceversa, la conservazione del posto per il lavoratore in stato di malattia può prolungarsi, a norma del CCNL applicato in azienda, oltre l’indicato periodo indennizzato dall’INPS ed essere accompagnata dall’obbligo di pagamento dell’intera retribuzione ovvero di una misura percentuale della stessa.

Detta retribuzione, pertanto, una volta superato il periodo indennizzato dall’INPS, si pone come un onere – seppure ridotto e diversificato in relazione all’anzianità di servizio e ad altre condizioni previste dal CCNL di riferimento – posto solo a carico del datore di lavoro e direttamente legato al solo periodo di conservazione del posto.

Cassazione / Sulla liquidazione unitaria del danno non patrimoniale (Cass. Civ. Sez. III, 29/03/2019, n. 8755)

Con la sentenza n. 8755 del 29 marzo 2019 la Suprema Corte si è nuovamente pronunciata sulla questione della liquidazione del danno non patrimoniale.

La fattispecie in oggetto riguarda una controversia che ha origine da un sinistro stradale. Il danneggiato conveniva in giudizio la compagnia assicurativa e il proprietario del veicolo danneggiante per ottenere il risarcimento dei danni riportati.

In primo grado,la responsabilità veniva attribuita ad entrambi i conducenti dei veicoli coinvolti nel sinistro e i convenuti venivano condannati in solido al risarcimento, in favore del danneggiato, del danno non patrimoniale subito. In secondo grado, la Corte d’Appello accoglieva l’impugnazione proposta dal danneggiato e, riformando in parte la sentenza del primo Giudice, attribuiva l’intera responsabilità del sinistro all’appellato e condannava questi e la Società di assicurazione all’ulteriore risarcimento del danno in favore dell’appellante.

Avverso la sentenza della Corte di merito, la Compagnia assicurativa proponeva ricorso per cassazione, al quale resisteva il danneggiato con controricorso.

La ricorrente sosteneva che il Giudice di merito non avesse chiarito quali fossero gli elementi di fatto comprovanti la sussistenza del danno morale e che non avesse spiegato le ragioni di diritto sulle quali riconoscere automaticamente l’importo relativo al risarcimento danni.

La Cassazione rigettava il ricorso e condannava la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, in favore del controricorrente.

Il principio di diritto che se ne ricava può essere il seguente:

“La liquidazione finalisticamente unitaria del danno non patrimoniale (non diversamente da quella prevista per il danno patrimoniale) ha pertanto il significato di attribuire al soggetto una somma di danaro che tenga conto del pregiudizio complessivamente subito tanto sotto l’aspetto della sofferenza interiore (cui potrebbe assimilarsi, in una suggestiva simmetria legislativa, il danno emergente in guisa di vulnus “interno” arrecato al patrimonio del creditore), quanto sotto quello dell’alterazione/modificazione peggiorativa della vita di relazione in ogni sua forma e considerata in ogni suo aspetto, senza ulteriori frammentazioni nominalistiche (danno idealmente omogeneo al cd. “lucro cessante” quale proiezione “esterna” del patrimonio del soggetto)”.

Nella parte motiva, la pronuncia dei Giudici di legittimità recita quanto segue:

“La natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, secondo l’insegnamento della Corte costituzionale e delle sezioni unite della S.C. (Corte Cost. 233/2003Cass. ss.uu. 26972/2008) deve essere interpretata, sul piano delle categorie giuridiche (anche se non sotto quello fenomenologico) rispettivamente nel senso: a) di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto e non suscettibile di valutazione economica; b) di onnicomprensività intesa come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze (modificative in peius della precedente situazione del danneggiato) derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, procedendo, a seguito di articolata, compiuta ed esaustiva istruttoria, ad un accertamento concreto e non astratto del danno, all’uopo dando ingresso a tutti i necessari mezzi di prova, ivi compresi il fatto notorio, le massime di esperienza, le presunzioni.

Nel procedere all’accertamento ed alla quantificazione del danno risarcibile, il giudice di merito, alla luce dell’insegnamento della Corte costituzionale (sentenza 235/2014, punto 10.1 e ss.; v. anche Corte Cost. 184/1986, 372/1994, 293/1996233/2003) e della Corte di Giustizia (causa C-371/2012 del 23/01/2014) nonché del recente intervento del legislatore sugli artt. 138 139 C.d.A. come modificati dalla L. 4 agosto 2017, n. 124 art. 1, comma 17 – la cui nuova rubrica (“danno non patrimoniale”, sostituiva della precedente, “danno biologico”) ed il cui contenuto consentono di distinguere definitivamente il danno dinamico-relazionale causato dalle lesioni da quello morale – deve congiuntamente, ma distintamente, valutare la reale fenomenologia della lesione non patrimoniale, e cioè tanto l’aspetto interiore del danno sofferto (cd. danno morale) quanto quello dinamico-relazionale (destinato ad incidere in senso peggiorativo su tutte le relazioni di vita esterne del soggetto).

Nella valutazione del danno alla salute, in particolare – ma non diversamente che in quella di tutti gli altri danni alla persona conseguenti alla lesione di un valore/interesse costituzionalmente protetto (Corte Cost. 233/2003) – il giudice dovrà, pertanto, valutare tanto le conseguenze subite dal danneggiato nella sua sfera morale (che si collocano nella dimensione del rapporto del soggetto con se stesso), quanto quelle incidenti sul piano dinamico-relazionale della sua vita (che si dipanano nell’ambito della relazione del soggetto con la realtà esterna, con tutto ciò che, in altri termini, costituisce “altro da sé”).

In presenza di un danno permanente alla salute, la misura standard del risarcimento prevista dalla legge o dal criterio equitativo uniforme adottato dagli organi giudiziari di merito (oggi secondo il sistema c.d. del punto variabile) può essere aumentata, nella sua componente dinamico-relazionale, solo in presenza di conseguenze dannose del tutto anomale, eccezionali ed affatto peculiari: le conseguenze dannose da ritenersi normali e indefettibili secondo l’id quod plerumque accidit (ovvero quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire) non giustificano alcuna personalizzazione in aumento del risarcimento.

Costituisce, pertanto, duplicazione risarcitoria la congiunta attribuzione del danno biologico – inteso, secondo la stessa definizione legislativa, come danno che esplica incidenza sulla vita quotidiana del soggetto e sulle sue attività dinamico relazionali – e del danno cd. esistenziale, appartenendo tali “categorie” o “voci” di danno alla stessa area protetta dalla norma costituzionale (l’art. 32 Cost.), mentre una differente ed autonoma valutazione va compiuta con riferimento alla sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute (come oggi normativamente confermato dalla nuova formulazione dell’art. 138 del C.d.A., alla lett. e).

In assenza di lesione della salute, ogni vulnus arrecato ad un altro valore/interesse costituzionalmente tutelato andrà specularmente valutato e accertato, all’esito di compiuta istruttoria, e in assenza di qualsiasi automatismo (volta che, nelle singole fattispecie concrete, non è impredicabile, pur se non frequente, l’ipotesi dell’accertamento della sola sofferenza morale o della sola modificazione in peius degli aspetti dinamico-relazionali della vita), il medesimo, duplice aspetto, tanto della sofferenza morale, quanto della privazione/diminuzione/modificazione delle attività dinamico-relazioni precedentemente esplicate dal soggetto danneggiato (in tal senso, già Cass. ss.un. 6572/2006).

Sulla liquidazione unitaria del danno non patrimoniale.

La Suprema Corte ritiene che, nell’attribuzione di una somma risarcitoria al soggetto danneggiato, il Giudice di merito deve tener conto del pregiudizio complessivamente subìto sia sotto il profilo del danno morale, relativo all’aspetto interiore del danno sofferto, sia sotto il profilo del danno dinamico-relazionale, riguardante le conseguenze in senso peggiorativo di tutti gli ambiti relazionali di vita esterni del soggetto.

In presenza di un danno permanente alla salute, la misura del risarcimento può essere aumentata in base al danno dinamico-relazionale verificatosi, ma solamente nel caso di ripercussioni dannose eccezionali e anomale. Pertanto, in questi specifici casi, non si crea duplicazione risarcitoria nel momento in cui si attribuiscono, congiuntamente, una somma di danaro a titolo di risarcimento del danno biologico e una somma a titolo di risarcimento dei pregiudizi subiti dal danneggiato, in relazione alla sua personalità, alle sue attività quotidiane e alle sue capacità relazionali.

Al contrario, in assenza di un danno permanente alla salute, dovrà esser compiuta una precisa valutazione sulla lesione dell’interesse costituzionalmente garantito. Infatti, dal caso analizzato nella sentenza in esame, emerge che, in tali situazioni, il Giudice deve effettuare una valutazione che tenga conto sia del danno in re ipsa, sia del suo effetto modificativo in peius della quotidianità del danneggiato. Si evince, dunque, che tale valutazione dovrà essere oggetto di un procedimento approfondito al fine di evitare l’applicazione di automatismi risarcitori.

In conclusione, la giurisprudenza di Cassazione ha ribadito come la liquidazione della componente dinamico-relazionale del danno alla salute avvenga attraverso una personalizzazione del danno biologico e non mediante la rischiosa duplicazione di poste risarcitorie.