Tributario / Il fermo amministrativo: disciplina, procedura e implicazioni socio-giuridiche

Il fermo amministrativo è un istituto disciplinato dall’art. 86 del DPR 602 del 1973, attraverso il quale l’Amministrazione Finanziaria o altri enti pubblici come Comuni, Regioni, INPS e lo Stato, tramite gli Agenti della riscossione, dispongono il “blocco” dei beni mobili registrati come veicoli, imbarcazioni e aeromobili.

Questa misura comporta, fino alla rimozione del cd. blocco, il divieto di circolazione del veicolo, che tuttavia rimane in custodia del proprietario.

La normativa prevede che, in caso di violazione da parte del proprietario dell’automezzo del dispositivo del fermo, si possa incorrere – alternativamente o cumulativamente – nel sequestro del bene e/o in una sanzione pecuniaria.

Data l’efficacia e l’utilità dell’istituto, il legislatore, con il D.L. 13 maggio 2011, n. 70, art. 7, lett. g) quinquies, ne ha ampliato la portata applicativa, prevedendo la sua estensione sia nel caso di qualunque debito a titolo di IRPEF o IVA, sia nel caso di sanzione al C.d.S. che di violazioni contributive, purché di importo inferiore ad Euro 2.000.

Il fermo amministrativo si è rivelata una misura di grande efficacia nell’ambito della riscossione dei crediti tributari e delle sanzioni amministrative. Questo strumento giuridico mira infatti a garantire che i debiti nei confronti dello Stato o di altri enti pubblici vengano saldati, costituendo esso un mezzo di stringente coercizione economica.

Va anche detto che la decisione di procedere con l’intimazione di un fermo amministrativo non è immediata: il contribuente inadempiente viene dapprima avvisato con una comunicazione, denominata preavviso di fermo, che prevede un termine di trenta giorni per regolarizzare la sua posizione. Solo se detto termine spira senza che il debitore si adoperi per assolvere alla sua esposizione, l’Amministrazione procede con l’iscrizione effettiva del fermo sul veicolo.

Il preavviso di fermo rappresenta un vero e proprio “avvertimento” per il destinatario, il quale, se rimane inadempiente nel termine di legge di trenta giorni dalla ricezione dell’atto, vedrà il provvedimento diventare esecutivo e, quindi, iscritto nel Pubblico Registro Automobilistico.

Dal punto di vista giuridico, il preavviso di fermo è considerato autonomamente impugnabile, a prescindere dalla successiva ed eventuale iscrizione del fermo nel pubblico registro. La Suprema Corte di Cassazione ha precisato che il preavviso di fermo amministrativo, introdotto nella prassi sulla base di istruzioni fornite dall’Agenzia delle Entrate alle società di riscossione al fine di superare il disposto dell’art. 86, comma 2, D.P.R. 602 del 1973, rappresenta un atto autonomamente ed immediatamente impugnabile, anche se riguardante obbligazioni di natura extra-tributaria. Questo poiché si tratta di un atto funzionale a portare a conoscenza dell’obbligato una determinata pretesa dell’Amministrazione, rispetto alla quale sorge l’interesse alla tutela giurisdizionale per il controllo della legittimità sostanziale della pretesa stessa (Cass., SS.UU., 7 maggio 2010, n. 11087).

Si rammenti anche che l’Agente per la riscossione non può porre in essere azioni cautelari come il predetto fermo amministrativo o l’ipoteca ovvero esecutive come il pignoramento, senza aver inviato almeno due solleciti di pagamento a distanza di sei mesi l’uno dall’altro. Va detto che tali invii devono avvenire per mezzo di posta ordinaria o tramite strumenti analoghi di posta elettronica o posta elettronica certificata.

Se diversamente concepito, l’atto di fermo non garantirebbe il diritto di difesa del contribuente, che avrebbe tutela solo al momento della sua esecutività a seguito dell’iscrizione nel pubblico registro.

È possibile per il destinatario dell’atto, come forma di garanzia, ottenerne l’annullamento. Per comprendere gli strumenti a disposizione, è necessario fare una distinzione tra crediti di natura tributaria e crediti di natura non tributaria. Per i primi, ci si rivolge alla Corte di Giustizia Tributaria, la quale ha giurisdizione sulle controversie tributarie. Per i secondi, è possibile porre in essere un’azione di opposizione ex art. 615 c.p.c., senza limiti di tempo, se si ricorre per prescrizione; per tutti gli altri casi, è prevista l’opposizione agli atti esecutivi nel termine di venti giorni, ex art. 617 c.p.c. Per i crediti INPS, è previsto il ricorso dinanzi al giudice del lavoro entro il termine di quaranta giorni, ma solo per situazioni inerenti al merito dell’iscrizione al ruolo. La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha stabilito che con riferimento alle controversie aventi per oggetto il provvedimento di fermo di beni mobili registrati, di cui all’art. 86 del D.P.R. n. 602/1973, ai fini della giurisdizione rileva la natura dei crediti posti a fondamento del provvedimento di fermo, con la conseguenza che la giurisdizione spetterà al giudice tributario o al giudice ordinario a seconda della natura tributaria o meno dei crediti, ovvero ad entrambi, se il provvedimento di fermo si riferisce in parte a crediti tributari e in parte a crediti non tributari (Cass. SS. UU. 5 giugno 2008, n. 14831).

Proprio per la sua efficacia ma anche invasività della sfera personale del contribuente, lo  strumento non è andato esente da contestazioni. Una delle principali critiche al fermo amministrativo riguarda la sua percepita durezza e il potenziale impatto sproporzionato sulla vita quotidiana dei debitori. Il fermo di un veicolo può infatti causare gravi difficoltà, specialmente a coloro che utilizzano l’auto per lavoro o per esigenze familiari impellenti. Tuttavia, è importante sottolineare che il fermo amministrativo è considerato una misura di ultima istanza, adottata solo dopo che altri tentativi di recupero del credito sono falliti.

Esistono alcune tutele per i debitori. Ad esempio, il fermo non può essere disposto se il veicolo è indispensabile per l’attività lavorativa del debitore. In tali casi, il contribuente può presentare una richiesta all’Agente della riscossione, corredata da adeguata documentazione, per evitare il fermo o per ottenerne la revoca. È anche possibile richiedere una rateizzazione del debito che, se accordata, può sospendere l’efficacia del fermo amministrativo, consentendo al debitore di utilizzare il veicolo mentre provvede al pagamento dilazionato delle somme dovute.

L’efficacia del fermo amministrativo come strumento di riscossione è confermata dai dati statistici, che mostrano come molti debitori, una volta ricevuto il preavviso, si affrettino a saldare il loro debito per evitare il blocco del veicolo. Tuttavia, questo risultato positivo non deve far dimenticare l’importanza di garantire un equo trattamento per tutti i cittadini e di adottare misure che rispettino pienamente i principi di proporzionalità e di giustizia.

Lavoro e previdenza / Malattia del lavoratore ed assenza alla visita fiscale

Il D.L. n. 663/1979, all’art. 2, convertito in Legge 29 febbraio 1980, n. 33, fornisce la definizione di malattia, da intendersi come “infermità comportante l’incapacità del lavoratore a svolgere la propria prestazione lavorativa per causa non inerente al lavoro”.

Quindi si considerano “malattia e/o infortunio non professionale” tutti quegli eventi morbosi che determinano un’inabilità temporanea e concreta ad eseguire la prestazione lavorativa, consentendo al lavoratore di assentarsi legittimamente dal lavoro, mantenendo al contempo il diritto al trattamento economico nonché all’indennità di malattia.

In questi casi, il lavoratore deve provvedere tempestivamente a comunicare il proprio stato di morbilità al datore di lavoro, attraverso idonea certificazione medica, e l’indirizzo di reperibilità ai fini di eventuali controlli medici. Infatti, sia il datore di lavoro che l’I.N.P.S. hanno la facoltà di verificare l’effettività dello stato morbile del lavoratore.

Tutta la procedura, dalla richiesta di visita medica di controllo alla comunicazione dell’esito del suddetto controllo, si svolge in materia informatizzata attraverso apposito canale dedicato gestito dall’Ente di Previdenza. Una volta inviata la richiesta di controllo da parte del datore, l’I.N.P.S. provvederà a designare il medico che si recherà presso l’indirizzo di reperibilità indicato precedentemente dal lavoratore, nelle fasce di garanzia previste dalla legge.

La disciplina delle modalità di svolgimento della visita fiscale è contenuta  nel Decreto Legge n. 206 del 17 ottobre 2017della Presidenza del Consiglio dei Ministri della Funzione Pubblica, contenente il “Regolamento recante le modalità per lo svolgimento delle visite fiscali e per l’accertamento delle assenze dal servizio per la malattia, nonché l’individuazione delle fasce orarie di reperibilità, ai sensi dell’articolo 55-septies, co. 5-bis, del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165”.

Può accadere, però, che il lavoratore risulti assente alla visita fiscale del medico verificatore. In questi casi, il medico deve lasciare l’avviso di presentazione a visita medica ambulatoriale per la prima giornata lavorativa successiva, presso l’Ufficio medico legale dell’Inps competente per territorio. Le modalità operative a cui il medico dell’INPS deve attenersi, nell’espletamento di tale adempimento, sono quelle previste dalla Circolare Inps n. 87 del 12 settembre 2008, avente ad oggetto “Trattamento dei dati sanitari nella gestione della certificazione di malattia”.

Circolare la quale, ai sensi dell’art. 3, “Trattamento dati sensibili nella certificazione malattia”, al punto 9)  dispone che il funzionario medico deve inserire il prescritto Avviso in busta chiusa sigillata, su cui deve indicare il numero di cronologico di notificazione, senza apporre ulteriori segni e/o indicazioni da cui possa desumersi il contenuto dell’atto (ai sensi dell’art. 137 cpc, in tema di notificazioni), comunicando il numero di cronologico e il nominativo del lavoratore assente, al Centro Medico Legale dell’Inps. La busta deve essere lasciata nella cassetta per le lettere del lavoratore ovvero consegnata a una persona di famiglia o addetta alla casa, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace. In mancanza di tali persone, la copia è consegnata al portiere dello stabile in cui si trova l’abitazione indicata ed, in mancanza del portiere, anche ad un vicino di casa, che accetti di riceverla (come prescrive l’art. 139 c.p.c. in tema di notificazioni), facendo in questo caso sottoscrivere apposita ricevuta di consegna.

Il verbale della visita fiscale, vergato dal medico redigente, viene poi inoltrato al datore di lavoro, che, nel caso di assenza a visita del lavoratore, potrà assumere tutti i provvedimenti del caso, sia a carattere economico, quali trattenuta dello stipendio per le giornate di malattia, che disciplinare.

Pertanto, nel caso in cui il lavoratore si debba allontanare dal proprio domicilio, durante le fasce di reperibilità, è altamente consigliabile che questi in primo luogo, avvisi anticipatamente il proprio datore lavoro, al fine di non risultare assente ingiustificato all’eventuale visita fiscale, fornendo opportuna documentazione a supporto, o alternativamente dovrà comunicare direttamente all’I.N.P.S. la necessità dell’allontanamento dal proprio domicilio.

Come già sopra evidenziato, l’allontanamento dal proprio domicilio durante le fasce di reperibilità (ossia dalle ore 10,00 alle ore 12,00 e dalle 17,00 alle 19,00), compresi domeniche e festivi, al di fuori dei casi previsti dalla legge comporta sanzioni graduali a carattere economico: nel caso di assenza ingiustificata alla prima visita, vi è la perdita del trattamento per i primi dieci giorni di malattia; nel caso di assenza alla seconda visita, oltre alla sanzione precedente è comminata l’ulteriore trattenuta del 50% dell’indennità di malattia per i giorni successivi al decimo fino al termine della malattia; infine, in caso di infrazione anche alla terza o successiva visita, si ha l’interruzione totale dell’erogazione dell’indennità da parte dell’I.N.P.S. dal giorno di tale ulteriore assenza.

Accanto alle descritte sanzioni economiche, il datore di lavoro potrà dare luogo all’apertura del procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori che, in relazione alla gravità del fatto, si può concludere con la irrogazione della proporzionale sanzione disciplinare (tra quelle previste nella Contrattazione collettiva).

Professionisti / Il procedimento disciplinare a carico dei geometri e le sue fasi

Con il presente commento – che fa seguito ai precedenti approfondimenti in merito al Codice di Deontologia Professionale dei Geometri – proseguiamo l’analisi del procedimento disciplinare ex art. 12 RD n. 274/1929, come integrato dal DPR 7 agosto 2012, n. 137.

Il procedimento disciplinare e le sue fasi

Il procedimento disciplinare può essere analizzato distinguendo almeno cinque fasi:

  1. Impulso;
  2. Istruzione preliminare;
  3. Non luogo a procedere o rinvio a giudizio disciplinare;
  4. Trattazione;
  5. Decisione

1. Impulso

Tre sono i modi con cui il Consiglio di disciplina dà avvio alla procedura disciplinare: tramite segnalazione, su richiesta del Pubblico Ministero ovvero d’ufficio.

  • La segnalazione: chiunque vi abbia interesse può dare impulso all’azione disciplinare mediante un “esposto” al Collegio di disciplina territoriale, con indicazione della notizia del presunto illecito deontologico commesso da un professionista iscritto al medesimo albo professionale. Ricevuto l’esposto (sotto qualsiasi forma), il Collegio deve trasmettere la segnalazione al Presidente del Consiglio di disciplina per i successivi adempimenti.
  • La richiesta del PM: è il Pubblico Ministero che, avuta notizia della presunta condotta disciplinarmente illecita, richiede l’avvio della procedura al Consiglio.
  • L’azione d’ufficio: su istanza di uno o più membri del Consiglio di disciplina a seguito dell’avvenuta conoscenza di illeciti disciplinari comunque appresi.

In tutti i casi, elemento essenziale e comune all’avvio del procedimento disciplinare è la notizia della commissione di un illecito a presunto rilievo disciplinare, la cd. notitia criminis. Infatti, il Consiglio di disciplina può attivare la procedura soltanto se ha avuto conoscenza di un presunto illecito disciplinare e non in via meramente autonoma. È l’atto di impulso che rende legittimo l’avvio della procedura, dovendosi escludere un autonomo potere in tal senso in capo al Consiglio di disciplina, ossia al Presidente di tale Consiglio.

  1. Istruttoria preliminare.

Il comma 2 dell’art. 12 del R.D. 274/29 prevede che: “Il presidente del (Consiglio di disciplina), verificati sommariamente i fatti, raccoglie le opportune informazioni e, dopo di avere inteso l’incolpato, riferisce al (Consiglio di disciplina), il quale decide se vi sia luogo a procedimento disciplinare”.

Il disposto citato disciplina in maniera semplice e chiara la fase istruttoria preliminare, individuando il soggetto preposto al suo svolgimento, l’oggetto su cui verte ed i suoi possibili esiti.

Preposto allo svolgimento dell’istruttoria preliminare è il Presidente del Consiglio di disciplina, il quale, all’esito del raccordo con le intervenute modifiche al Regio Decreto n. 274/29, ha il potere di assumere tutte le informazioni opportune per lo svolgimento delle indagini. A titolo esemplificativo, il Presidente può estrarre copia della documentazione necessaria custodita presso pubblici uffici e può, tramite istanza al Procuratore della Repubblica, persino avvalersi degli organi di polizia giudiziaria.

In concreto, l’attività istruttoria consiste nell’assunzione di tutte le informazioni opportune per lo svolgimento delle indagini da parte del Presidente del Consiglio di disciplina o di un consigliere delegato.

Tale fase, essendo preposta all’assunzione delle informazioni necessarie a verificare l’opportunità o meno dell’apertura del procedimento disciplinare vero e proprio, si colloca in una fase antecedente al vero e proprio procedimento disciplinare. L’istruttoria consente di verificare il fondamento dei fatti emersi con l’atto d’impulso, valutarne la consistenza ed il rilievo disciplinare, nell’ottica di indagare ed accertare solo fatti e circostanze che potenzialmente integrino violazione deontologiche.

  1. Non luogo a procedere o rinvio a giudizio disciplinare.

Esaurita questa attività preliminare d’indagine e di vaglio dei fatti che costituiscano violazioni di norme deontologiche, il Presidente non può esercitare in concreto l’attività giudicante, ma deve relazionare al Consiglio di disciplina, il quale solamente può delibare circa l’esercizio dell’azione disciplinare, ossia decidere in concreto se avviare o meno il procedimento.

In particolare, a questo punto, esaminato quanto rilevato dal Presidente, il Consiglio di disciplina si trova di fronte a due strade alternative ed opposte tra di loro:

a) il non luogo a procedere: viene emesso laddove il Consiglio ravvisi l’inesistenza dei fatti di rilievo disciplinare. Chiamato altresì “archiviazione”, il provvedimento non ha natura decisoria in senso giurisdizionale, ma meramente amministrativa, con due conseguenze di rilievo: da una parte, esso non può essere impugnato (ossia il ricorso dell’esponente contro il provvedimento di archiviazione è destinato a essere dichiarato inammissibile da parte del CNGeGL), dall’altra, un provvedimento di non luogo a procedere non esclude che il Consiglio di disciplina possa valutare di dare avvio a un nuovo procedimento fondato sui medesimi fatti ma sulla scorta dell’acquisizione di eventuali nuovi elementi documentali;

b) il rinvio a giudizio disciplinare: si avrà allorché il Consiglio rinvenga la sussistenza di circostanze che appaiono di rilevanza disciplinare. Ciò comporta la nomina di un “collegio” di tre consiglieri che sarà preposto a gestire il giudizio assegnatogli. Il Presidente del collegio di disciplina nomina il consigliere relatore (che si preoccuperà dell’istruzione del giudizio) e fissa la seduta del collegio per la discussione. L’iscritto in questo modo da indagato diviene “incolpato”.

  1. Trattazione.

A questo punto, il procedimento disciplinare prende concretamente avvio ed è necessario convocare l’incolpato. A tal fine, il Presidente del Collegio assegnatario dà notizia della fissazione della seduta di discussione all’indagato e del rinvio a giudizio (almeno dieci giorni prima) per consentirgli di presentare giustificazioni e documentazione a difesa.

In particolare, tale termine svolge la funzione di:

  • garantire al professionista indagato un congruo termine per predisporre le sue difese. In quest’ottica, il termine di dieci giorni prima della seduta per l’avviso all’indagato è considerato a pena di annullamento di tutto il procedimento laddove sia in concreto lesivo del diritto di difesa;
  • invitare l’indagato a comparire alla stessa per essere sentito e produrre documenti a difesa;
  • garantire il contraddittorio contenendo una chiara contestazione dell’addebito disciplinare mosso al professionista.

Alla seduta fissata per la convocazione dell’incolpato, si procede alla discussione dei fatti oggetto del procedimento. Nella seduta ha luogo la discussione formale del giudizio in cui vengono sentiti il relatore, l’incolpato (e/o il suo difensore), eventuali testimoni e se, del caso, persino il soggetto che ha avanzato l’esposto.

Si rammenti che, qualora l’incolpato ritualmente convocato non compaia alla seduta o non giustifichi la sua assenza con un legittimo impedimento, il Collegio giudicante procederà lo stesso in sua assenza ad istruire il giudizio.

Va anche ricordato che, nel caso in cui il Collegio aggiorni la seduta di discussione per qualsivoglia motivo (approfondimenti, nuovi accertamenti, necessità di acquisizioni documentali), lo stesso Collegio dovrà procedere ad una nuova formale convocazione dell’iscritto incolpato.

  1. Decisione.

All’esito della discussione, il Collegio può adottare immediatamente la decisione ovvero rinviare la decisione ad un secondo momento. In ogni caso, la seduta del Collegio non è pubblica e la decisione è adottata a porte chiuse.

La decisione del Collegio potrà essere di “archiviazione” ovvero di adozione della “sanzione” disciplinare.

Le sanzioni irrogabili all’incolpato ritenuto responsabile dell’addebito disciplinare contestatogli sono quelle di cui all’art. 11 del RD n. 274/1929: avvertimento, censura, sospensione dall’esercizio della professione (fino ad un massimo di sei mesi), cancellazione dall’albo professionale.

Si può concludere ricordando che se, da un lato, le sanzioni sono rigidamente tipizzate dall’ordinamento professionale (ossia, non sono previste sanzioni diverse da quelle sopra elencate), dall’altro, nel Codice di Deontologia vi è una mancata tipizzazione degli illeciti disciplinari, per cui le sanzioni non sono collegate a specifiche fattispecie deontologiche.

Tanto che il Collegio di disciplina, allorché decida di irrogare la sanzione, non è obbligato a seguire rigorosamente l’ordine delle sanzioni di cui all’art. 11 e soprattutto ha facoltà di adottare sanzioni diverse per la medesima infrazione, secondo una sua discrezionale valutazione purché adeguatamente motivata.

Lavoro e previdenza / Lo straining tra medicina legale ed apprezzamento giuridico

Il termine straining ha origine dall’inglese “to strain”, ovverosia “forzare, stringere, mettere sotto pressione” ed individua una nozione di tipo medico legale utile in ambito tecnico-giuridico in quanto espressione di un comportamento datoriale contrario ai doveri risultanti dall’art. 2087 c.c.

Secondo la definizione del Dott. Herald Ege, per “straining” si   intende: “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante”.

Circa l’esatta individuazione delle condotte, il Dott. Ege ritiene configurabile lo straining in considerazione di alcuni indici come l’ambiente lavorativo, il tipo di azioni realizzate, la loro frequenza anche isolata con effetti duraturi, la durata di almeno sei mesi, le posizione di inferiorità gerarchica di chi subisce, l’andamento secondo fasi successive, l’intento persecutorio o l’obiettivo discriminatorio.

La nozione è entrata nel panorama giuridico, anche italiano, quale categoria e fattispecie autonoma già nel 2005 quando, nel corso di una causa pendente innanzi al Tribunale di Bergamo, veniva nominato consulente tecnico proprio il Dott. Ege ai fini della valutazione della ricorrenza di condotte mobbizzanti. Egli, non riscontrando gli estremi del mobbing, riteneva invece essersi concretata la diversa ipotesi di straining.

Secondo la giurisprudenza che si è di recente sviluppata, lo straining si pone in rapporto di continenza rispetto alla più ampia fattispecie di mobbing, costituendone un minus o meglio una forma attenuata.

Nello straining, infatti, sembra sufficiente anche una sola azione intenzionale idonea a sottoporre il lavoratore a uno stress superiore a quello normalmente richiesto dalla natura della prestazione.

Alla luce della giurisprudenza di legittimità più recente, infatti: “è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844)”.

Rilevante e sufficiente, pertanto, appare non la reiterazione delle condotte datoriali, bensì l’effetto dannoso che anche una sola azione produce sulla condizione lavorativa della vittima e conseguentemente sulla salute del lavoratore.

A tale proposito, la norma quadro in materia, ossia l’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro l’obbligo di assicurare la salute dei lavoratori, intesa quale integrità psico-fisica, con la massima diligenza possibile. Secondo un cospicuo orientamento giurisprudenziale, infatti, il datore di lavoro ha l’onere di prevenire, evitare ed eliminare: “situazioni <stressogene> che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, Cass. n. 3291 del 2016)” (Cass. 7844/2018).

Pur nella coscienza di avere a che fare con una fattispecie dai contorni ancora in divenire, giova precisare che la giurisprudenza propenda nel sostenere la configurabilità dello straining anche in assenza della prova compiuta circa la vessatorietà/discriminatorietà delle condotte datoriali ed il preciso intento persecutorio nei confronti del lavoratore, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare in ogni caso situazioni stressogene sul luogo di lavoro (Cass. civ. sez. lav. 4 ottobre 2019, n. 24883).

Professionisti / Il procedimento disciplinare a carico dei geometri

L’azione disciplinare può definirsi come la reazione che l’ordinamento prevede di fronte alla violazione di norme di contenuto deontologico.

La prima questione da affrontare concerne l’individuazione del novero delle violazioni che danno luogo a procedimento disciplinare.

In primis, giova premettere che non esiste un numerus clausus di infrazioni, un elenco tipizzato di comportamenti che consentono l’esercizio del potere disciplinare. È lecito pertanto affermare che i principi, i doveri e le regole previste dal Codice deontologico professionale non costituiscano un’elencazione tassativa.

Se per un verso, infatti, il procedimento disciplinare si pone come necessaria conseguenza della violazione dei precetti di natura deontologica, imposti a ciascun professionista, dall’altro questi precetti e doveri non rinvengono la loro fonte esclusivamente nel codice di deontologia professionale. In buona sostanza, anche comportamenti che non trovano espresso divieto nel codice deontologico possono dar luogo a un procedimento disciplinare.

Ciò trova la sua ratio nel fatto che la deontologia professionale affonda le sue radici nell’etica professionale la quale, a sua volta, trova corrispondenza nel comune sentire.

In altre parole, il sistema dei doveri relativi ad una categoria di professionisti si realizza nel corso del tempo sulla base di regole di natura e contenuto prettamente etici. È l’etica, nel senso di complesso di norme morali e di costume che connotano una professione, a individuare quali comportamenti siano così degradanti da meritare l’esercizio dell’azione disciplinare ed eventualmente l’irrogazione di una sanzione. È proprio il sentire della comunità in un dato momento storico a individuare regole comportamentali e doveri del professionista, integrando e completando le disposizioni codicistiche.

Questo legame tra deontologia ed etica determina inevitabilmente che le regole deontologiche mutino nel corso del tempo, di modo che ciò che costituiva violazione in un pregresso momento storico e contesto sociale potrebbe non esserlo più in epoca successiva.

Alla luce delle considerazioni appena svolte è possibile comprendere il vero scopo dell’azione disciplinare che, lungi dal caratterizzarsi quale mero strumento inquisitorio, assolve la funzione di vera e propria tutela dell’ordine professionale.

Infatti, il fine dell’azione disciplinare è quello di salvaguardare il corretto esercizio della professione nell’ottica dei principi di dignità, onorabilità e correttezza che la informano e la permeano. Principi che, giova rammentarlo, costituiscono in fondo il punto di partenza per l’individuazione delle condotte disciplinarmente rilevanti.

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La natura “mista” del procedimento disciplinare.

Come si è già avuto modo di vedere nei precedenti approfondimenti, il procedimento disciplinare si conclude con una decisione del Consiglio di Disciplina preposto la quale, a seconda dei casi, può essere rappresentata dall’irrogazione di una sanzione ovvero dall’archiviazione del procedimento.

Può notarsi subito che le due locuzioni lessicali adoperate per individuare i provvedimenti del Consiglio di Disciplina fanno pensare immediatamente agli analoghi provvedimenti del procedimento penale. Di talché la domanda sorge spontanea: questi provvedimenti hanno natura giurisdizionale o amministrativa?

Ebbene, a dispetto del nomen, entrambi hanno natura amministrativa. Invero, l’intero procedimento disciplinare ha natura amministrativa e si conforma alla normativa prevista per l’agire amministrativo.

D’altronde, il quadro normativo di riferimento è costituito innanzitutto dal dettato normativo specificamente dedicato al procedimento disciplinare (R.D. 274/29 e D.P.R. 137/12) ma anche, pacificamente, dalla Legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, in via sussidiaria e in quanto compatibile. Ossia, vige una generale clausola di compatibilità, secondo cui la citata legge sul procedimento amministrativo trova applicazione se non in contrasto con quanto previsto dalla disciplina specifica del procedimento disciplinare.

Ad ogni modo, sebbene non vi siano dubbi circa la natura amministrativa dell’azione disciplinare, essa conserva due caratteri propri dell’attività giurisdizionale.

1) L’obbligatorietà dell’azione.

Carattere tipico dell’attività giurisdizionale è quello dell’obbligatorietà, che comporta il dovere per l’autorità giudiziaria adita di proseguire il giudizio fino all’adozione di un provvedimento decisorio.

In un’ottica sostanzialmente analoga si pone il principio dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare, seppur con una precisazione. In realtà, l’obbligatorietà dell’azione disciplinare comporta che il Consiglio di Disciplina ha l’obbligo di dare seguito all’azione disciplinare laddove ravvisi:

  • indizi gravi, precisi e concordanti riguardo la commissione di una condotta deontologicamente rilevante
  • la sua attribuibilità ad un soggetto determinato e legittimato.

Sussistendo tali presupposti, il Consiglio non ha potere discrezionale, dovendo disporre, come meglio si vedrà, il cd. rinvio a giudizio disciplinare.

Tuttavia, va ribadito per dovere di chiarezza, l’obbligatorietà concerne esclusivamente l’attivazione del procedimento disciplinare, non incidendo in alcun modo sulla decisione. L’obbligatorietà dell’azione disciplinare non deve, infatti, essere intesa quale presunzione di responsabilità in capo al destinatario della stessa.

Invero, il Consiglio di Disciplina gode di discrezionalità in ordine all’accertamento dei fatti e della responsabilità del professionista, nonché in merito all’adozione del provvedimento di archiviazione ovvero nel comminare una sanzione.

Pertanto, può concludersi che non sussiste alcun vincolo di interdipendenza necessaria tra l’obbligatorietà dell’azione disciplinare (ossia di promuovere l’azione disciplinare in presenza di una “notitia criminis”) e l’irrogazione della sanzione disciplinare (che rimane eventuale e comminabile solo all’esito dell’intero procedimento).

2) La prescrizione dell’illecito.

Ulteriore carattere dell’azione disciplinare comune a quella giurisdizionale concerne la prescrizione dell’illecito deontologico.

La prescrizione svolge la funzione di tutelare il professionista, ponendo un limite temporale all’esercizio dell’azione disciplinare.

Infatti, in mancanza, si verserebbe nell’assurdo per cui il singolo professionista che ha commesso un illecito deontologico avrebbe sulla testa la spada di Damocle dell’avvio di un procedimento disciplinare nei suoi confronti sine die, ossia fino alla fine del suo excursus professionale.

Un simile paradosso è di certo incompatibile con le garanzie che informano l’attività amministrativa e nella specie la tipizzazione di un procedimento disciplinare.

Pertanto, sebbene, l’art. 12 del R.D. 274/29 nulla preveda in ordine alla prescrizione, si ritiene estendibile al procedimento disciplinare il termine di cinque anni decorrente dalla commissione del fatto. Il termine di prescrizione quinquennale è, difatti, previsto specificamente in relazione ad altre professioni e non vi sono ostacoli alla sua applicazione analogica anche alla professione del Geometra.

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Ambito soggettivo ed oggettivo dell’azione disciplinare.

Prima di procedere all’esame del procedimento disciplinare e delle sue varie fasi (su cui ci soffermeremo compiutamente nel prossimo contributo), occorre delimitare l’ambito soggettivo ed oggettivo dell’azione disciplinare, enucleando i presupposti della stessa.

Ambito soggettivo (geometra iscritto all’Albo vs. Consiglio di disciplina).

  1. Legittimazione passiva. Destinatari dell’azione disciplinare sono ad ogni evidenza i geometri professionisti.

Requisito per la sottoposizione al procedimento disciplinare è dunque l’iscrizione all’albo professionale. Infatti, legittimati passivi dell’azione disciplinare sono i soggetti iscritti all’albo professionale dei Geometri.

  1. Legittimazione attiva. Viceversa, legittimato attivo all’esercizio dell’azione disciplinare è il Consiglio di disciplina del Collegio di appartenenza del professionista.

Pertanto, la competenza dal punto di vista territoriale ad azionare il procedimento disciplinare è fondata su un criterio formalistico, consistente nell’ambito territoriale di iscrizione del Geometra al singolo Collegio territoriale. Semplificando, eserciterà l’azione disciplinare il Consiglio territoriale nel cui albo il professionista è iscritto, non necessariamente coincidente con quello in cui il geometra opera e, quindi, in cui l’illecito disciplinare è stato realizzato.

Come premesso, il Consiglio di disciplina è competente ad avviare l’azione disciplinare. Tuttavia, non è automatico che sia anche competente a pronunciarsi sulla stessa azione. Nel senso che, il D.P.R. 137/12 ha istituito presso ogni Consiglio di disciplina dei Collegi territoriali preposti ad istruire i procedimenti disciplinari e ad assumerne le relative decisioni.

Dal punto di vista organico, dunque, il Consiglio di disciplina può essere unico, composto esclusivamente da tre Consiglieri ovvero suddiviso in Collegi. Tale eventualità viene in rilievo laddove i Consigli di disciplina siano composti da più di tre componenti. In questi casi, vengono costituiti più Collegi tri-personali.

Dunque, da una parte il Consiglio di disciplina avvia un’azione disciplinare, dall’altra designa al suo interno il Collegio giudicante. La distinzione trova fondamento nella diversa funzione svolta dagli organi: il Consiglio è preposto all’attività preliminare-istruttoria, per individuare le condotte rilevanti dal punto di vista disciplinare; il Collegio, quale organo in concreto giudicante, subentra nella fase eventuale e successiva del rinvio a giudizio.

Ambito oggettivo: la condotta tipica ed atipica.

Dal punto di vista oggettivo, atteso quanto già anticipato in tema di atipicità dell’illecito, vale porre in rilievo che sono suscettibili di sanzione non soltanto i comportamenti tenuti dal professionista nell’esercizio della professione, bensì anche le condotte estrinsecatesi al di fuori di essa, laddove siano suscettibili di recare pregiudizio alla categoria professionale.

Nello specifico, l’art. 11 del R.D. n.  274/29 prevede che le sanzioni disciplinari sono applicabili a fronte di violazioni commesse dal professionista “nell’esercizio della professione”.

Dalla lettera della legge sembrerebbe l’irrogazione delle sanzioni sia racchiusa nell’alveo dei comportamenti tenuti durante l’esercizio della professione in occasione della stessa.

Tuttavia, la giurisprudenza ha teso ad ampliare il novero delle condotte suscettibili di indagine e sanzione, valorizzando il criterio dell’atipicità. Secondo tale impostazione, sono idonee a dare avvio al procedimento disciplinare anche condotte che sia siano verificate in ambiti diversi da quello professionale.

Per comprendere la ragione di ciò, vale richiamare quanto già specificato in ordine allo scopo dell’azione disciplinare. Il principio della tutela della dignità ed onorabilità della professione determina che il professionista sia sanzionabile anche laddove, al di fuori della sua attività professionale, il suo operato si rifletta negativamente sulla intera categoria, sul decoro e la reputazione della collettività professionale a cui si appartiene.

Sulla questione, la Giurisprudenza ha posto l’accento sull’offensività al decoro della professione dei comportamenti posti in essere. In tal modo, le condotte rilevanti ai fini dell’avvio della procedura disciplinare, non soltanto, sono svincolate dalla mera violazione di prescrizioni di legge civile o penale, ovvero dalle disposizioni previste dal codice deontologico, ma possono comprendere ulteriori comportamenti che, seppur non strettamente inerenti con l’esercizio della professione, si riflettano negativamente sulla stessa.

Lavoro e previdenza / La conservazione dei diritti dei lavoratori nel trasferimento d’azienda

L’art. 2112 c.c. introduce la disciplina del trasferimento d’azienda sancendo un principio cardine: “In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”.

Lo scopo della disposizione è tutelare i rapporti di lavoro in essere con il soggetto cedente al momento del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, proteggendo il lavoratore dalle modificazioni soggettive della parte datoriale. Conseguenza immediata di questa tutela è che i rapporti di lavoro proseguono senza soluzione di continuità in capo alla nuova datrice di lavoro, ossia l’impresa cessionaria.

L’effetto quindi che si produce, alla luce della norma richiamata, non è unico, in quanto essa garantisce -oltre alla continuazione del rapporto di lavoro – anche la conservazione dei diritti che vi sono connessi.

Al riguardo, la dottrina ha ritenuto sussistere una successione del complesso delle posizioni giuridiche, attive e passive, che qualificano il rapporto di lavoro.

Pertanto, muovendo da tale assunto, i lavoratori avrebbero diritto al mantenimento globale del trattamento giuridico e retributivo già fruito alle dipendenze della impresa cedente.

Tuttavia, in concreto, quanto all’individuazione dei diritti che permangono inalterati a seguito della cessione d’azienda o di ramo d’azienda,  vale rilevare che la locuzione utilizzata dall’art. 2112 è ampia e tendenzialmente omnicomprensiva, riferendosi genericamente a “tutti i diritti” che derivino dal rapporto di lavoro.

Nello specifico, la Corte di Cassazione (cfr. sent. n. 19681/2003), alla luce del quadro normativo risultante dal disposto dell’art. 2112 c.c. e dalla Direttiva 77/187/CEE, ha individuato un nucleo di diritti che il lavoratore indubbiamente conserva al momento del passaggio alle dipendenze del cessionario: i cd. diritti quesiti. Si tratta di tutti quei diritti già maturati dal lavoratore al momento del trasferimento, oramai facenti parte della sua sfera patrimoniale.

 

Per effetto del trasferimento d’azienda, dunque, il lavoratore mantiene inalterati i diritti che trovano il loro fondamento e riconoscimento sia nel contratto individuale di lavoro sia nella legge, essendo questi ultimi conservati a prescindere dai mutamenti soggettivi del datore di lavoro. Per cui, inalterata la normativa di riferimento, il mutare del datore di lavoro dal punto di vista soggettivo non interferisce sulla maturazione dei diritti del lavoratore.

A titolo esemplificativo, i lavoratori ceduti non possono vedersi alterare o comprimere il diritto a svolgere le medesime mansioni esercitate per la cedente (nei limiti di cui all’art. 2103 c.c.). Lo stesso vale a dirsi quanto al riconoscimento di mansioni superiori, laddove una siffatta attribuzione trovi fonte e regolazione nella legge.

Infatti, entrambe le ipotesi trovano fondamento e disciplina direttamente nella legge che non subisce influenza al mutare del datore di lavoro.

Ancora, da un punto di vista economico, invariato rimane l’eventuale superminimo individuale, laddove disciplinato dal contratto individuale di lavoro. In questo caso, il diritto alla conservazione trova sostegno nella clausola contrattuale volta a disciplinare una singola posizione.

D’altro canto, pochi dubbi si pongono quanto alla conservazione dell’anzianità, alla luce della chiara giurisprudenza di legittimità (paradigmatiche in tal senso Cass. n. 2609/2008 e n. 19564/2006). Si tratterebbe, infatti, di un principio assoluto e non negoziabile, che trova fondamento nell’automatismo del transito del lavoratore dall’una all’altra parte datoriale, prescindendo da una nuova assunzione. Dal punto di visto economico, la giurisprudenza riconosce ai lavoratori il diritto all’applicazione da parte della cessionaria degli scatti di anzianità corrispondenti all’anzianità maturata presso la cedente, laddove appunto sia fornita la prova della sussistenza di un pregresso diritto alla maturazione di scatti di anzianità presso l’impresa cedente (Cass. n. 14208/2013, già in Cass. n. 6428/98).

Civile / Diffamazione a mezzo stampa: risarcibilità del danno non patrimoniale in favore delle persone giuridiche

La divulgazione di notizie lesive dell’onore e della reputazione altrui, oltre a configurare il reato di diffamazione disciplinato all’art. 595 c.p., costituisce un illecito civile ed è pertanto fonte di obbligazione risarcitoria ex art. 2043 c.c.

I danni da diffamazione, generalmente, non involgono soltanto la sfera patrimoniale del soggetto danneggiato, ma si estendono a quelle situazioni giuridiche inerenti alla persona, non connotati da valore di scambio, e che sono pacificamente riconducibili nella categoria del danno non patrimoniale,  disciplinato all’art. 2059 c.c.

Nel nostro ordinamento, infatti, il danno non patrimoniale deve essere inteso come categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un valore – costituzionalmente garantito – quale, a titolo esemplificativo, l’identità personale, il nome,  l’immagine e la reputazione.

Ebbene, tali diritti ricevono tutela principalmente con riferimento alle persone fisiche. Tuttavia, non vi è ragion di ritenere che la tutela di cui si discute sia preclusa per le persone giuridiche.

Il codice civile, infatti, disciplina, nel primo libro, sia le persone fisiche (art. 1 ss.) sia le persone giuridiche (art. 11 ss.), come due species di un unico genus, cui vengono riferite le norme dei successivi libri, nei limiti della compatibilità. Ciò porta ad escludere l’applicabilità alle persone giuridiche unicamente di quelle norme che presuppongono una determinata condizione fisica del soggetto (quali, ad esempio, quelle relative al matrimonio, alla filiazione ed ai rapporti di diritto familiare in genere).

Pertanto, anche le persone giuridiche possono godere di quelle forme di protezione che discendono direttamente dal dettato costituzionale ed in modo particolare dalla previsione generale dell’art. 2 Cost. che tutela le formazioni sociali in cui si svolge la personalità dell’individuo.

Sul punto, si richiama il granitico orientamento della giurisprudenza di legittimità, in virtù del quale il danno non patrimoniale all’immagine ed alla reputazione si può configurare anche nei confronti della persona giuridica quando il fatto lesivo colpisce una situazione giuridica dell’ente che sia equivalente ai diritti fondamentali della persona umana garantiti dalla Costituzione (Cass., sez. I, n. 12929/2007; Cass., sez. III, n. 29185/2008; Cass., sez. III, n. 20643/2016).

Ebbene, poiché l’immagine della persona giuridica rientra tra tali diritti, può essere risarcito anche il danno non patrimoniale costituito dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica nella quale si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo dell’incidenza negativa che tale riduzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente, e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della riduzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica sovente interagisce.

Quanto alla prova della lesività della condotta e del conseguente verificarsi del danno-conseguenza, la giurisprudenza di legittimità ha più volte precisato che essa è raggiunta anche mediante il ricorso a presunzioni, quali, ad esempio la diffusione dello scritto, la rilevanza dell’offesa e la posizione sociale della vittima (ex multis: Cass. civ., sez. 3, 26 ottobre 2017 n. 25420, Cass. civ., sez. 6, 31 marzo 2021 n. 8861).

 

Infine, la quantificazione e liquidazione di tali danni dovrà avvenire in ragione di un criterio equitativo, secondo parametri cristallizzati dal lavoro della giurisprudenza ma che, in ogni caso, dovranno aver riguardo alla coscienza nei responsabili della potenzialità lesiva della pubblicazione della altrui reputazione, alla attribuzione di fatti offensivi determinati e circostanziati, alla diffusione del giornale, alla credibilità di cui gode presso il pubblico, alla collocazione ed evidenza grafica degli articoli stessi, alla gravità dell’addebito, alla suggestione indotta nei lettori.

Lavoro e previdenza / Buste paga ed insinuazione allo stato passivo fallimentare

Il prospetto paga (o cedolino) emesso dal datore di lavoro, se recante firma o sigla o timbro di quest’ultimo, fa piena prova del credito del lavoratore di cui si chiede l’insinuazione al passivo fallimentare.

Di contro, al curatore rimane la facoltà di contestare le risultanze delle buste paga con altri mezzi di prova ovvero con specifiche deduzioni e argomentazioni volte a dimostrarne l’erroneità, la cui valutazione finale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice.

Tutto questo perché il valore probatorio dei prospetti paga discende dal fatto che il contenuto degli stessi è obbligatorio e sanzionato in via amministrativa e, per ciò solo, è sufficiente a provare il credito maturato dal lavoratore.

Tali principi, da ultimo, sono stati ribaditi da Cass. ord. 27 maggio 2022, n. 17312, a conferma di un orientamento pluri-consolidato (cfr. anche Cass. civ., 19 gennaio 2022, n. 1649; Cass. civ. sez. lav., 7 gennaio 2021, n. 74; Cass. civ., 11 dicembre 2019, n. 32395).

Nella predetta ord. n. 17312/22 la questione era stata posta da una lavoratrice che aveva presentato istanza di insinuazione al passivo del fallimento del proprio datore di lavoro, chiedendo l’ammissione, in via privilegiata, di crediti di lavoro a titolo di ferie non godute, indennità di mancato preavviso, ratei relativi alle mensilità aggiuntive e di T.F.R. ma che aveva ricevuto il diniego all’ammissione da parte del giudice delegato.

Il problema posto all’attenzione del giudice di legittimità riguardava la prova del credito vantato dal lavoratore dipendente dell’impresa fallita.

Come è noto, in sede di formazione dello stato passivo, le buste paga allegate dal creditore alla propria istanza di insinuazione dimostrano l’esistenza del credito fatto valere.

La Corte di Cassazione ha dato continuità all’indirizzo sopra richiamato ed ha rilevato il valore probatorio dei prospetti paga prodotti in atti dalla lavoratrice, anche in considerazione del fatto che la procedura fallimentare non aveva in alcun modo contestato l’asserita erroneità dei dati in esse contenuti.

Tuttavia, nella prassi è frequente che il creditore non chieda semplicemente l’ammissione al passivo per la mancata corresponsione di spettanze retributive attestate dai cedolini paga, ma anche il riconoscimento di differenze retributive derivanti da altre rivendicazioni, come può essere l’adibizione a mansioni superiori. In detta ipotesi, poiché l’istanza proposta non troverà accoglimento per difetto degli elementi costitutivi del credito fatto valere, lo strumento per ottenere il riconoscimento della domanda proposta da parte del lavoratore romane quello dell’opposizione allo stato passivo.

Giova precisare che una simile procedura si configura come un vero e proprio giudizio ordinario di cognizione in cui trovano applicazione le regole generali in tema di onere della prova. Per l’effetto, l’opponente sarà tenuto a fornire la prova della fonte negoziale o legale del suo diritto di credito; all’opposto, sulla curatela graverà l’onere di dimostrare l’esistenza di fatti modificativi, impeditivi o estintivi dell’obbligazione (Cass. civ. sez. lav., 3 marzo 2021, n. 5847).

Pertanto, con riguardo alle differenze retributive rivendicate, sarà onere del lavoratore provare in maniera certa ed inequivoca l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato con la società fallita e lo svolgimento del suddetto rapporto secondo le modalità dedotte. La prova della prestazione lavorativa in concreto effettuata, della sua durata, nonché dell’effettivo impegno in termini di giorni e di ore non potrà essere fornita mediante la produzione delle buste paga, dal momento che le voci retributive richieste saranno ulteriori o diverse rispetto a quelle in esse indicate. Se questo è vero, ne deriva che l’onere probatorio può essere assolto mediante prova testimoniale o documentale (diversa dai prospetti paga), sempre che queste offrano elementi certi in ordine alla sussistenza dei fatti posti dall’opponente a fondamento della domanda. Naturalmente, il mancato raggiungimento della prova comporterà inevitabilmente il rigetto della domanda proposta.

Professionisti / Responsabilità dei tecnici certificatori energetici

LA CERTIFICAZIONE “APE”

Alla luce delle norme attualmente vigenti in materia, l’Attestato di Prestazione Energetica (cd. APE) può essere redatto esclusivamente da un tecnico abilitato, il cd. certificatore energetico (ai sensi del D. Lgs. 192/05).

In tale ruolo possono operare varie figure professionali, come l’architetto, l’ingegnere, il geometra, il perito tecnico, ecc. ma per ciascuna di esse è indispensabile essere in possesso di titoli specifici, oltre ad essere abilitato alla professione e quindi essere iscritto al proprio Ordine o Collegio professionale di riferimento. In caso di assenza di alcune delle competenze specifiche richieste, il certificatore dovrà essere affiancato da un altro tecnico abilitato nella redazione del certificato energetico.

La necessità di munirsi della certificazione energetica è piuttosto frequente. Ad esempio:

  • per gli atti notarili di compravendita;
  • per i contratti d’affitto;
  • per l’accesso alle detrazioni fiscali previste per gli interventi di efficientamento energetico;
  • per la pubblicità degli annunci immobiliari;
  • per la possibilità di ottenere dal GSE gli incentivi statali sull’energia prodotta dagli impianti fotovoltaici.

Non solo. L’APE è un certificato obbligatorio per gli edifici di nuova costruzione; gli edifici sottoposti a demolizione e ricostruzione; gli edifici sottoposti a lavori di ristrutturazione importante (in genere, per una ristrutturazione di più del 25% dell’intero edificio).

Le sanzioni per chi non presenta l’APE negli atti in cui la certificazione risulta obbligatoria sono particolarmente onerose (ad esempio, il proprietario che non alleghi l’Attestato di Prestazione Energetica al contratto di compravendita rischia il pagamento di una sanzione tra un minimo di 3.000 ed un massimo di 18.000 euro).

***

Ora, venendo alle responsabilità del professionista, laddove il certificatore energetico emetta una certificazione senza rispettare i criteri delle normative vigenti, attribuendo una classe energetica errata oppure dichiarando informazioni non veritiere, può andare incontro a diverse tipologie di responsabilità:

  • responsabilità amministrativa. Se il tecnico rilascia una certificazione energetica non veritiera, incompleta o non conforme allo stato dei luoghi rischia una multa pari al 70% della sua parcella, calcolata secondo la tariffa professionale;
  • responsabilità deontologica. Parimenti, qualora il certificatore incorra in una condotta negligente o, peggio, ponga in essere un abuso consapevole, si accolla il rischio di essere sottoposto a procedimento disciplinare e di ricevere l’irrogazione di una delle sanzioni disciplinari previste dall’ordinamento professionale (fino alla sospensione dall’esercizio della professione) da parte del Consiglio di disciplina dell’Ordine di appartenenza;
  • responsabilità penale. Il professionista certificatore energetico che rilasci un Attestato di Prestazione Energetica non veritiero o comunque infedele rischia di incorrere anche nella responsabilità penale di cui all’art. 481 c.p. In particolare, la predetta norma al co. 1 prevede che: “Chiunque, nell’esercizio di una professione sanitaria o forense, o di un altro servizio di pubblica necessità, attesta falsamente, in un certificato, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa da euro 51 a euro 516”. Si pensi al caso in cui il proprietario di un immobile colluda con il certificatore energetico affinché da questi venga attribuita all’immobile una classe energetica “più alta” ed in sostanza inveritiera. In tal caso, l’acquirente risulta chiaramente danneggiato dalla falsa certificazione energetica per il fatto che consumerà molto di più (per il riscaldamento e per il raffreddamento dell’immobile acquistato) rispetto a quanto appreso attraverso la certificazione. Si configurerebbe, in tal caso, una grave responsabilità penale sia del certificatore sia di chi ha commissionato la certificazione (costruttore o venditore che sia), che può essere sussunta anche nella fattispecie penale della truffa;
  • responsabilità civile. Il tecnico certificatore che emetta un Attestato di Prestazione Energetica falso, non corretto o comunque errato a causa di negligenza, imperizia o errore di calcolo può essere chiamato a risarcire i danni procurati ai terzi sia involontariamente che dolosamente. In particolare, il tecnico che (anche per mero errore) attribuisca ad un immobile una classe energetica superiore a quella reale espone il venditore al rischio di vedersi comminare una sanzione in via amministrativa, oltre che a subire un’azione dell’acquirente finalizzata alla risoluzione del contratto (anche per aliud pro alio, ossia per il caso in cui venga consegnato un bene completamente diverso da quello pattuito) o, quanto meno, alla riduzione del prezzo ed al risarcimento del danno. In tale circostanza, l’acquirente non è tutelato solo con le azioni per vizi/difetti del bene compravenduto, ma anche in base ad un’ordinaria azione di risoluzione contrattuale (a prescrizione decennale), non trovando applicazione l’art. 1495 c.c. ed i brevi termini di prescrizione e decadenza in esso previsti. Tutte conseguenze estremamente negative per il venditore che, a quel punto, potrà rivalersi solo sul tecnico certificatore, incorso nel grave errore o mera imprecisione che sia.

Senza contare anche i rischi del caso opposto. Ossia quello in cui l’eccessiva “prudenza” del certificatore energetico potrà essere addebitata dal venditore al tecnico abilitato che certifichi una classe energetica troppo “bassa”, con conseguente svilimento del prezzo di vendita dell’immobile (e, per l’effetto, conseguente mancato guadagno proprio a causa dell’attribuzione di una classe più bassa rispetto a quella che sarebbe spettata all’immobile).

***

Fra gli obblighi di cui è onerato il certificatore energetico vi è anche quello di assoluta estraneità ed indipendenza nonché imparzialità di giudizio. Questa è una delle differenze fondamentali che distinguono la redazione dell’APE da quella dell’AQE (Attestazione di Qualificazione Energetica). Infatti, mentre l’AQE può essere redatto anche da un tecnico coinvolto nella progettazione e realizzazione dell’edificio (ad esempio, il progettista o il direttore dei lavori), il certificatore energetico che redige l’APE deve essere un soggetto del tutto “terzo”, ovverosia egli non può avere conflitti di interesse con il proprietario, con il progettista o il direttore dei lavori e con i produttori dei materiali o dei componenti incorporati nell’edificio.

Per questo motivo, il certificatore energetico dovrà allegare all’APE una vera e propria “Dichiarazione di indipendenza”, ovvero una dichiarazione espressa (effettuata ai sensi degli artt. 359 e 481 del Codice Penale) in cui attesta l’assenza di conflitto di interessi, espressa attraverso il non coinvolgimento nel processo di progettazione e realizzazione dell’edificio da certificare, nonché l’assenza di rapporti di parentela fino al quarto grado con il committente.

LA CERTIFICAZIONE “AQE”.

L’AQE, che viene rilasciato dal costruttore dell’edificio ed inviato al Comune, in allegato al resto della documentazione per il rilascio della dichiarazione di fine lavori, non ha la finalità di individuare e specificare la classe energetica dell’edificio, oggi non è più molto utilizzato rispetto al passato, atteso che esso è stato adottato come sostituto temporaneo dell’Attestato di Prestazione Energetica per il caso delle Regioni che non avevano ancora emesso i decreti attuativi della nuova certificazione energetica.

L’AQE (ossia, Attestato di Qualificazione Energetica), come già premesso, differisce dall’APE proprio perché può essere redatto dal progettista dell’edificio o dal direttore dei lavori ovvero anche da un qualunque altro tecnico abilitato anche se abbia già ricoperto un ruolo nella progettazione e nella realizzazione dell’immobile stesso. Al contrario, il certificatore energetico che redige l’APE deve essere un soggetto del tutto estraneo alla realizzazione dell’immobile.

LA CERTIFICAZIONE PER L’ECOBONUS.

L’art. 119 del D.L. n. 34 del 2020 (cd. Decreto Rilancio) regolamenta il cd. Ecobonus 110%. In materia, un aspetto rilevante è quello legato alla responsabilità dei tecnici certificatori che eseguiranno i lavori. Infatti, ai fini della validità del cd. Ecobonus del 110%, è necessario che ad eseguire i lavori siano tecnici abilitati, ai quali richiedere sia la documentazione sul rischio sismico, sia gli Attestati di Prestazione Energetica, certificanti che l’intervento in questione abbia apportato un miglioramento di almeno due classi energetiche. L’APE, segnatamente, è un documento non solo prezioso ma persino necessario per poter usufruire del Superbonus 110%, poiché l’attestato (da produrre prima e dopo la realizzazione degli interventi agevolati) serve a dimostrare il miglioramento della prestazione energetica dell’edificio, ottenuto a seguito dei lavori incentivati (per non meno di due classi energetiche o eventuale conseguimento di classe più elevata).

Circa la regolarità delle dichiarazioni energetiche, la norma di cui art. 119, co. 14 del D.L. Rilancio descrive le conseguenze delle asseverazioni “infedeli”.

In particolare è opportuno rammentare che, nel caso di emissione da parte del tecnico abilitato di certificazione irregolare o abusiva, il richiedente il bonus (ossia, il committente) incorre nella decadenza dell’agevolazione fiscale prevista nell’Ecobonus del 110%.

Mentre per il professionista (scorretto o distratto) che rilasci attestazioni e/o asseverazioni infedeli in questa materia sono previste sanzioni amministrative severe. Ossia, è previsto che i tecnici che rilascino asseverazioni false o non conformi alla realtà possano ricevere, per ogni attestazione falsa e non conforme, una sanzione pecuniaria che va da un minimo di 2.000,00 euro a un massimo di 15.000,00 euro.

Non solo. Al fine di tutelare i proprietari richiedenti l’accesso all’Ecobonus, è significativa l’introduzione dell’obbligo per i tecnici certificatori di stipulare una polizza assicurativa per la responsabilità civile, con un massimale di almeno 500.000,00 euro. Più nel dettaglio, si sottolinea che tale polizza assicurativa deve essere sottoscritta con un massimale coerente con il numero delle attestazioni che verranno rilasciate e con il loro valore (comunque non inferiore a € 500.000,00). Questo per garantire ai propri clienti (oltre che al bilancio dello Stato) il risarcimento dei danni eventualmente provocati dall’attività prestata.

Si evidenzia, inoltre, che la responsabilità dei tecnici in materia di Ecobonus del 110% riguarda sia la redazione, in forma di dichiarazione asseverata, dell’Attestato di Prestazione Energetica che dell’attestato relativo al rischio sismico. Per quel che riguarda l’efficienza energetica, una volta redatta, l’attestazione deve essere inviata all’ENEA tramite i canali telematici abilitati. Per l’attestazione sul rischio sismico, invece, è necessario che i tecnici rilascino l’asseverazione conforme alle Linee guida in materia formulate dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti.

Infine, va ricordato come la responsabilità dei tecnici riguardi anche la cessione del credito e lo sconto in fattura. Infatti, i tecnici avranno l’obbligo di verificare ed attestare la congruità delle spese in relazione ai lavori eseguiti ai fini dell’ottenimento dell’agevolazione fiscale.

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Alla stregua della pur rapida osservazione svolta del quadro delle molteplici e variegate prestazioni richieste alla categoria dei tecnici certificatori energetici, si può rilevare e concludere che altrettanto ampio ed impegnativo è lo spettro delle responsabilità professionali loro ascrivibili.

Per l’effetto, appare tanto utile quanto necessario per il certificatore energetico apporre la massima attenzione operativa – sia nella fase della preventivazione che in quella della esecuzione della prestazione – non tanto al tempo che si impiega nella redazione materiale del certificato quanto piuttosto alla scrupolosa effettuazione del sopralluogo come alla puntuale rilevazione delle misure richieste.

Solo in questo modo si consegue il migliore risultato dovuto al committente (il rilascio di un attestato completo, corretto ed incontestabile) oltre che l’incremento della considerazione e dell’onorabilità, presso i terzi, della categoria tutta dei tecnici certificatori energetici.

Lavoro e previdenza / Risoluzione consensuale del rapporto di lavoro e incentivazione all’esodo

La risoluzione consensuale del rapporto di lavoro è per lo più associata all’erogazione di emolumenti da parte del datore di lavoro finalizzata ad acquisire il consenso del lavoratore alla rinuncia della prosecuzione del rapporto di lavoro.
Infatti, il datore di lavoro sovente favorisce l’uscita dei dipendenti attraverso l’erogazione di importi a titolo di incentivo all’esodo.
Con riguardo all’entità della proposta economica incentivante, l’impresa datrice di lavoro ha libertà di azione e non è vincolata da legge o contrattazione collettiva.

Tuttavia, sarà buona norma adottare parametri che garantiscano un trattamento quantomeno equo tra i lavoratori, orientando, quindi, la contrattazione individuale lungo direttive che consentano di entrare nell’ottica del lavoratore per proporgli un bilanciamento tra quanto perde e come viene ristorato economicamente.
Un orientamento prudente suggerisce alla parte datoriale che l’ammontare minimo dell’incentivazione all’esodo possa essere individuato in un importo pari almeno all’indennità sostitutiva del preavviso per licenziamento prevista dal contratto collettivo.

Mentre, il criterio generalmente utilizzato al fine di valutare l’importo massimo dell’offerta è il rischio economico conseguente ad un’eventuale soccombenza nel giudizio instaurato per l’accertamento della legittimità in caso di licenziamento per motivo economico. Il cd. “rischio causa”, incrementato dell’indennità sostitutiva del preavviso, costituisce una valida esemplificazione del massimo che il lavoratore potrebbe ottenere qualora non  volesse in alcun modo raggiungere l’accordo.

Con particolare riferimento alle risoluzioni consensuali della categoria dei dirigenti, invece, appare necessario prendere in esame la particolare disciplina sanzionatoria prevista dalla loro contrattazione collettiva in caso di licenziamento ingiustificato.

A tutto questo si aggiungano come fattori da considerare come possibili rischi di causa i costi connessi ad un possibile licenziamento del lavoratore (contribuzione INPS su tale indennità sostitutiva del preavviso, ticket di licenziamento, spese legali, ecc.).
Infatti, conoscere le conseguenze economiche complessive di un licenziamento illegittimo può essere utile per stimare il possibile risparmio per l’azienda nel giungere ad un accordo di risoluzione consensuale e di conseguenza fissare criteri (anzianità, carichi familiari, prossimità alla pensione) di determinazione degli incentivi all’esodo.

Una volta identificato e concordato con il lavoratore l’ammontare offerto per la risoluzione consensuale, di prassi viene redatto un accordo, volto a rendere definitiva l’intesa, nel quale vengono inserite specifiche clausole finalizzate a mettere al riparo il datore di lavoro da possibili rivendicazioni connesse al rapporto di lavoro in fase conclusionale.

Nello specifico, mediante tali clausole, il lavoratore rinuncia ad ogni suo diritto, pretesa ed azione legale in ordine al pregresso rapporto di lavoro ab origine, alla sua esecuzione ed alla risoluzione del medesimo a fronte dell’erogazione di un importo a titolo transattivo.

Si rammenta che l’istituto della rinuncia costituisce una dichiarazione di volontà con la quale una parte dismette abdicativamente un proprio diritto, scegliendo di non goderne più. La rinuncia farà riferimento ad uno specifico oggetto e deve contenere la chiara rappresentazione dei diritti che vengono dismessi: se riferita ad ogni imprecisato diritto maturato nel corso del rapporto di lavoro, così come la rinuncia preventiva a futuri, eventuali e non precisati diritti, sarà radicalmente nulla. Invece, mediante la transazione, le parti facendosi reciproche concessioni, pongono fine a una lite già iniziata o prevengono una lite che potrebbe insorgere tra di loro.

L’accordo così perfezionato, infine, è soggetto all’obbligo di formalizzazione in una cd. sede protetta: infatti, le rinunce e/o le transazioni che hanno per oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili di legge e dei contratti o accordi collettivi non sono valide, salvo nei casi in cui siano contenute nei verbali di conciliazione sottoscritti in sede sindacale, giudiziale o avanti la commissione di conciliazione istituita presso l’Ispettorato del lavoro o presso le sedi di certificazione.

In generale, si può affermare che le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare la risoluzione consensuale del rapporto di lavoro nonché quelle la cui erogazione trae origine proprio dalla predetta cessazione, fatta salva l’indennità sostitutiva del preavviso, tendenzialmente sono esenti da contribuzione.

Rientrano in tale fattispecie anche le somme erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, in eccedenza alle normali competenze comunque spettanti ed aventi lo scopo di indurre il lavoratore ad anticipare la risoluzione rispetto alla sua normale scadenza.

Una simile previsione, finalizzata ad evitare effetti distorsivi sulla base imponibile e pensionabile, ricomprende tutte quelle forme di erogazione prive di uno specifico titolo retributivo, corrisposte in sede di risoluzione del rapporto e la cui funzione, desumibile dalla volontà delle parti, sia riconducibile a quella di agevolare lo scioglimento del rapporto.

Al contrario, le somme corrisposte a titolo transattivo o di rinuncia ad alcuni diritti, trovando la propria causa nel rapporto di lavoro e non essendo ricomprese tra le fattispecie di esclusione, sono soggette anche a contribuzione previdenziale.

Occorre, infatti, tener conto sia del principio secondo il quale tutto ciò che il lavoratore riceve, in natura o in denaro, dal datore di lavoro in dipendenza e a causa del rapporto di lavoro rientra nell’ampio concetto di “retribuzione imponibile” ai fini contributivi sia della assoluta indisponibilità, da parte dell’autonomia privata, dei profili contributivi che l’ordinamento collega al rapporto di lavoro.

Infine, si ritenga che, dal punto di vista fiscale, dovrà essere assoggettato a tassazione separata, con l’aliquota del TFR, sia l’incentivo all’esodo in quanto costituisce una somma percepita da parte del lavoratore una tantum in dipendenza della cessazione del rapporto di lavoro dipendente, sia gli importi transattivi erogati in sede di risoluzione consensuale.