Civile / Il credito d’imposta e le esenzioni nella procedura di mediazione civile: come funziona

L’istituto della media-conciliazione civile rappresenta una alternativa possibile al contenzioso giudiziale, grazie alla potenziale capacità di risolvere le controversie in modo celere e tendenzialmente più economico. Con la Riforma Cartabia sono stati introdotti ulteriori incentivi fiscali che consentono di amplificare i vantaggi di questa procedura.

Tra esenzioni e crediti d’imposta, chi sceglie la mediazione può contare su agevolazioni concrete, sia che si tratti di cittadini privati sia di imprese. Una delle novità più rilevanti riguarda l’esenzione dall’imposta di registro per gli accordi raggiunti in mediazione. Questo beneficio è particolarmente interessante perché copre valori fino a 100.000 euro, un tetto innalzato rispetto ai 50.000 euro previsti in precedenza. L’esenzione è valida per tutte le tipologie di mediazione, comprese quelle volontarie, oltre che per quelle obbligatorie o delegate dal giudice, ed è applicabile anche in casi complessi, come le divisioni ereditarie o i trasferimenti immobiliari.

Oltre all’imposta di registro, tutti gli atti e i documenti relativi alla mediazione sono esenti da imposta di bollo, tasse e qualsiasi altra spesa di natura fiscale. Questo significa che ogni passaggio della procedura, dalla fase preliminare fino alla conclusione, non comporta costi aggiuntivi legati a tributi o diritti amministrativi.

Un ulteriore vantaggio fiscale offerto dalla Riforma riguarda i crediti d’imposta, che permettono di recuperare una parte delle spese sostenute per la procedura. In generale, il credito d’imposta è destinato a tutti coloro che partecipano a una mediazione civile, sia cittadini privati che imprese, a condizione che le spese siano documentate. Non importa se la mediazione abbia avuto esito positivo o negativo: il beneficio è riconosciuto in ogni caso, anche se in misura ridotta nel caso di mancato accordo. Questo incentiva l’utilizzo della mediazione come strumento di risoluzione delle controversie.

Tra le spese che danno diritto al credito d’imposta rientrano principalmente tre voci.

La prima riguarda le indennità versate all’organismo di mediazione, ovverosia i costi per la gestione della procedura. In caso di accordo tra le parti, è possibile ottenere fino a 600 euro; se invece la mediazione non va a buon fine, l’importo massimo si riduce a 300 euro.

La seconda riguarda i compensi pagati agli avvocati. Se la mediazione è obbligatoria per legge o viene disposta dal giudice, anche questi costi possono essere recuperati, sempre nei limiti di 600 euro con accordo e 300 euro senza.

Infine, nel caso in cui la mediazione porti alla chiusura del procedimento giudiziario, è possibile recuperare anche il contributo unificato versato, fino a un massimo di 518 euro.

Nonostante queste agevolazioni, esistono anche dei limiti. Ogni singola procedura di mediazione consente di ottenere al massimo 600 euro di credito d’imposta. Inoltre, per le persone fisiche, l’importo massimo annuale è di 2.400 euro, mentre per le persone giuridiche il tetto arriva a 24.000 euro.

Richiedere il credito d’imposta è semplice, ma necessita di attenzione. La domanda deve essere presentata esclusivamente online, attraverso la piattaforma dedicata del Ministero della Giustizia, disponibile al sito https://lsg.giustizia.it. Per accedere al servizio è necessario disporre di un’identità digitale, come SPID, CIE o CNS. Una volta entrati nella piattaforma, bisogna compilare un modulo specifico con i propri dati, quelli dell’organismo di mediazione e i dettagli delle spese sostenute. Tra le informazioni richieste figurano, ad esempio, il numero di protocollo della pratica di mediazione, l’importo pagato e l’esito della procedura. Le domande possono essere presentate dal 1° gennaio al 31 marzo dell’anno successivo alla conclusione della mediazione. Entro il 30 aprile, il Ministero della Giustizia comunicherà l’importo del credito d’imposta riconosciuto. Una volta ottenuto il beneficio, il credito può essere utilizzato per compensare imposte tramite il modello F24. Questo va presentato esclusivamente attraverso i canali telematici dell’Agenzia delle Entrate, pena il rifiuto della richiesta. Inoltre, è possibile riportare l’importo del credito nella dichiarazione dei redditi, utilizzandolo per ridurre l’IRPEF o altre imposte sui redditi.

La mediazione civile, quindi, è un’opzione che può rivelarsi vantaggiosa per risolvere conflitti in modo rapido e non troppo oneroso ma approfittare fino in fondo di questo beneficio richiede una conoscenza approfondita delle regole e delle tempistiche, da affidare alla supervisione dei professionisti e non gestibile in autonomia dal cittadino ignaro delle tecnicità necessarie.

Professionisti / L’accesso agli atti della pubblica amministrazione: chi, cosa, quando, come

La procedura di accesso agli atti amministrativi costituisce uno strumento partecipativo di fondamentale importanza per il professionista.

Guardando alle differenti forme di accesso (documentale e civico) si è posto in rilievo che lo strumento rappresenta un punto di equilibrio tra contrapposti interessi meritevoli di tutela, nell’ottica del miglior bilanciamento degli stessi.

Nell’ambito dell’attività del professionista e, pertanto, anche del geometra, la principale forma di accesso è quella documentale.

Si tratta, come già visto, della forma di accesso disciplinata in maniera dettagliata dalla L. 241/1990, che ne prescrive caratteristiche e limiti.

In particolare, l’accesso documentale si fonda sulla sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale del privato, finalizzato alla tutela di un bene della vita.

Può essere, infatti, definito come la situazione giuridica soggettiva strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante ed opera in due diverse contesti: procedimentale e difensivo. Lo scopo dell’accesso documentale è quello di poter prendere visione e/o estrarre copia di documenti amministrativi che si trovano della disponibilità della Pubblica Amministrazione.

LE REGOLE PROCEDURALI AI FINI DELL’INOLTRO

DELL’ISTANZA DI ACCESSO DOCUMENTALE.

Muovendo da questi punti è opportuno approfondire le regole procedurali dell’accesso documentale, ragionando sui requisiti e sui limiti dell’istanza.

Per rendere più fruibile la presente argomentazione, si è preferito schematizzare il tema dell’accesso agli atti rispondendo ai seguenti quesiti: chi? cosa? quando? come?

  1. CHI?

La prima questione che merita approfondimento attiene all’individuazione del soggetto attivo e passivo dell’istanza di accesso agli atti. Pertanto, la risposta non può che articolarsi su due direttrici volte ad individuare, da una parte, il soggetto che può avanzare l’istanza di accesso agli atti e, dall’altra, il soggetto a cui deve essere diretta.

Ai sensi dell’art. 22 L. 241/1990 possono esercitare il diritto di accesso tutti i soggetti privati, compresi quelli portatori di interessi pubblici o diffusi.

Pertanto, sebbene l’istanza debba essere compilata correttamente, chiunque può redigerla. La legge, infatti, non prescrive nessun requisito soggettivo peculiare, in modo che qualunque cittadino comune può predisporla e presentarla all’amministrazione competente. In sostanza, non è necessaria nessuna abilitazione professionale o tecnica.

La ratio di tale scelta normativa si riconduce alla funzione e finalità dell’accesso documentale. Infatti, essendo uno strumento con finalità partecipativa, volto alla collaborazione tra privato e pubblica amministrazione, non è richiesta alcuna qualifica per effettuare la richiesta documentale.

Tuttavia, l’assistenza di un professionista di fiducia già nella fase di redazione dell’istanza di accesso agli atti ha il vantaggio di garantire una particolare attenzione ai requisiti della stessa al fine di un accoglimento celere e di evitare inerzie o ritardi nella risposta della P.A. ed eventuali pretestuose giustificazioni degli uffici pubblici destinatari della istanza.

Senza dire che l’assistenza del professionista (questa volta, legale) diviene fondamentale nei casi in cui si debba procedere in sede giurisdizionale al fine di richiedere il riesame dell’istanza a seguito di un primo rigetto.

Dal punto di vista del soggetto passivo, l’istanza è indirizzata alla pubblica amministrazione.

In materia di accesso documentale si definiscono pubbliche amministrazioni tutti i soggetti di diritto pubblico e privato limitatamente alla loro attività di pubblico interesse disciplinata dal diritto nazionale o comunitario (art. 22, comma 1, Lett. E).

Pertanto, alla luce del dato normativo richiamato, il novero dei soggetti ai quali può indirizzarsi l’istanza di accesso è esteso a tutti i soggetti pubblici, ricomprendendo non soltanto le amministrazioni statali, ma anche gli enti locali, gli enti pubblici e i gestori di pubblici servizi, nonché le Autorità di garanzia e vigilanza (cfr. art. 23 L. 241/1990).

Sono considerate pubbliche amministrazioni anche i soggetti privati laddove l’attività posta in essere da questi risulti di pubblico interesse. In altri termini, è sufficiente che un soggetto di diritto privato realizzi un’attività corrispondente a un interesse pubblico perché sia assoggettato alla disciplina in materia di accesso documentale (Cons. Stato n. 110/2020).

L’istanza deve essere indirizzata all’autorità che ha formato i documenti amministrativi o all’autorità che li detiene stabilmente (art. 25, co. 2 L. 241/1990).

Tuttavia, la richiesta inviata ad un soggetto incompetente non può, solo per tale ragione, essere respinta. In questi casi la pubblica amministrazione può invitare l’istante a riparare all’irregolarità della richiesta ma è comunque tenuta ad inoltrarla al soggetto competente.

  1. COSA?

L’istanza di accesso è volta a visionare e/o estrarre copia di documenti amministrativi. È, pertanto, essenziale definire il concetto di documento amministrativo per circoscrivere l’ambito oggettivo del diritto di accesso documentale.

Secondo la definizione fornita dalla lett. d) dell’art. 22 L. 241/1190, per documento amministrativo si intende: “ogni rappresentazione grafica, fotocinematografica, elettromagnetica o di qualunque altra specie del contenuto di atti, anche interni o non relativi ad uno specifico procedimento, detenuti da una pubblica amministrazione e concernenti attività di pubblico interesse, indipendentemente dalla natura pubblicistica o privatistica della loro disciplina sostanziale”.

Anche in questo caso, la disciplina normativa è tesa ad estendere il più possibile l’ambito applicativo oggettivo mediante l’utilizzo di una locuzione ampia di documento amministrativo.

In tal modo, sono ricompresi nella definizione anche i documenti privati usati per l’attività amministrativa, gli atti dei concessionari o gestori di pubblici servizi, gli atti amministrativi connessi all’esecuzione di sentenze, gli atti preparatori di un accertamento fiscale, gli atti di diritto privato dell’amministrazione.

La norma ha risolto espressamente ed in maniera positiva il problema se oggetto del diritto di accesso possano essere anche gli atti interni, ossia quegli atti endoprocedimentali che non hanno effetto immediato verso il privato ma costituiscono gli antecedenti del provvedimento finale (es. pareri tecnici e nulla osta). La norma ha risolto anche l’ulteriore questione se il diritto di accesso possa riguardare gli atti di diritto privato emessi dalla P.A.

Secondo la nuova disciplina – che sul punto ha recepito le decisioni della giurisprudenza più recente – ciò che conta ai fini del diritto di accesso non è la natura pubblica o privata dell’attività realizzata, bensì il fatto che l’attività di diritto privato, posta in essere dalla P.A., miri alla tutela del pubblico interesse e sia soggetta al canone di imparzialità.

  1. QUANDO?

Alla luce del dato normativo, può dirsi che non esiste un momento predeterminato per procedere con l’istanza di accesso agli atti.

Normalmente però i documenti di cui si chiede l’ostensione sono necessari per il compimento di attività ulteriori. Ad esempio, la documentazione richiesta con l’istanza deve essere presentata al notaio affinché ne tenga conto nel rogito.

Per questo è importante tenere conto delle tempistiche che la pubblica amministrazione usualmente impiega per il rilascio documentale. Infatti, come si approfondirà nei prossimi articoli, la pubblica amministrazione ha l’obbligo di provvedere nel termine di 30 giorni. Tuttavia, troppo di frequente, questo termine è ulteriormente prolungato a causa dell’inerzia dell’amministrazione, finendo per contrarre se non negare il diritto dell’istante.

Per altro verso, deve tenersi in conto che il 6° comma dell’art. 22 L. 241/1990 segna comunque un limite temporale indiretto.

La disposizione chiarisce, infatti, che il diritto di accesso ai documenti può essere esercitato fino a quando la pubblica amministrazione ha l’obbligo di detenere i documenti amministrativi oggetto dell’istanza.

Un’altra questione connessa agli aspetti temporali è quella che concerne l’eventualità della pendenza di un processo civile o amministrativo.

Infatti, in sede giurisdizionale l’ordinamento ha previsto dei mezzi istruttori volti all’esibizione e alla produzione documentale, soggetti ad una disciplina ad hoc e aventi requisiti e limiti peculiari.

Pertanto, è importante comprendere come si conciliano il diritto di accesso regolato dalla L. 241/1990 e i mezzi di prova predisposti in ambito processuale. Per quanto rileva in questa sede, può muoversi dalla regola generale dell’autonomia tra accesso difensivo e gli strumenti processuali istruttori di esibizione (artt. 210, 211 e 213 c.p.c.).

Infatti, da una parte, l’accesso difensivo non è inscindibilmente legato al contenzioso in senso stretto, perciò non presuppone la pendenza di un processo; dall’altra, l’accesso può essere fatto valere con autonomo giudizio, anche se fosse possibile chiedere un provvedimento istruttorio nel giudizio già pendente nel merito.

In altri termini, l’accesso non è ostacolato dalla pendenza di un giudizio civile o amministrativo nel corso del quale gli stessi documenti potrebbero essere richiesti.

Ciò vale anche se è stata già respinta l’istanza d’esibizione ex art. 210 c.p.c. e anche se il documento è assoggettato a forme di pubblicità generali.

In sostanza, i due strumenti operano in maniera del tutto autonoma e parallela.

  1. COME?

Infine, è opportuno soffermarsi sulla modalità di formulazione dell’istanza.

Si possono distinguere due tipologie di accesso: l’accesso informale e quello formale.

Il primo può essere utilizzato quando, alla luce della natura del documento, non vi sono controinteressati. In questo caso la richiesta può essere effettuata anche verbalmente all’amministrazione competente.

Viceversa, quando esistono soggetti controinteressati ovvero vi siano dubbi sulla legittimazione del richiedente, sarà necessario l’accesso formale. In questa ipotesi si procederà alla nomina di un responsabile del procedimento, che curi gli interessi contrapposti.

L’istanza d’accesso deve essere motivata e specificare gli atti utili o gli elementi per specificare gli atti utili a individuarli, onde consentire all’amministrazione di verificare in concreto la sussistenza dell’interesse dell’istante all’ostensione documentale.

La motivazione dell’istanza costituisce un elemento essenziale ai fini dell’accoglimento della stessa dovendo rispecchiare l’interesse concreto e attuale fatto valere dall’istante.

Professionisti / L’accesso agli atti della pubblica amministrazione: tipologie, diritti, limiti e tutela privacy

L’accesso ai documenti amministrativi è uno strumento rivolto a tutti i cittadini ma ben noto ed utilizzato soprattutto dai professionisti che hanno rapporti con le Pubbliche Amministrazioni. Si può affermare che l’accesso ai documenti amministrativi costituisce uno strumento a doppio destinatario, rivolgendosi tanto ai privati quanto ai liberi professionisti che sono tenuti ad entrare in contatto con le PP.AA. per conto dei loro committenti.
Proprio in ragione della rilevanza e della indispensabilità dello strumento a livello professionale, è quanto mai opportuno conoscerlo ed inquadrarlo all’interno del sistema dei principi dell’ordinamento giuridico.
Vale sin da subito precisare che aver sancito il diritto del cittadino all’accesso ai documenti amministrativi costituisce il punto di bilanciamento più equilibrato tra il principio di trasparenza e la tutela della riservatezza.
Infatti, mentre la trasparenza rappresenta il fondamento dell’accesso ai documenti amministrativi, la riservatezza ne rappresenta il principale limite.
Da una parte, il diritto d’accesso rappresenta il precipitato applicativo del più generale principio di trasparenza, in quanto consente ai cittadini di conoscere i processi decisionali della pubblica amministrazione. Dall’altra, il diritto di accesso è contemperato dal diritto alla riservatezza, che è volto a tutelare i cittadini stessi da ingerenze eccessive dei terzi nella propria sfera privata.
Trasparenza e riservatezza sono entrambi interessi meritevoli di peculiare tutela da parte dell’ordinamento, rinvenendo ambedue il proprio fondamento ai vertici delle fonti del diritto interno e sovranazionale.
Proprio la sussistenza di contrapposti interessi di primaria importanza per l’ordinamento comporta la previsione a livello normativo di limiti al diritto di accesso, al fine di operare un contemperamento tra trasparenza e riservatezza.
Le diverse forme di accesso
A livello normativo primario sono disciplinate tre forme di accesso: documentale, civico semplice e civico generalizzato.
1. L’accesso documentale, previsto dalla L. 241/1990, può essere definito come la situazione giuridica soggettiva strumentale alla tutela di un interesse giuridicamente rilevante ed opera in due diverse contesti: procedimentale e difensivo.
Con riserva di approfondire la struttura e i requisiti dell’istanza di accesso agli atti in un successivo più specifico contributo, vale anticipare soltanto che, in ambito procedimentale, l’accesso ha funzione partecipativa e nel contesto difensivo assume una funzione propriamente difensiva.
Più in particolare, nella prima dimensione, coloro che partecipano al procedimento amministrativo sono legittimati a chiedere ed ottenere l’accesso ai relativi documenti, purché siano titolari di un interesse diretto, concreto e attuale; nella logica difensiva, il privato che intende accedere a specifici documenti amministrativi deve motivare in modo persuasivo la strumentalità della richiesta per finalità difensive.
Da quanto sinteticamente rilevato emerge nell’ordinamento la primarietà dell’interesse dell’istante all’ostensione documentale. Tuttavia, come anticipato, la protezione e la tutela di questi interessi non è priva di limiti.
L’art. 24 della L. 241/1990 prevede una serie di limiti all’esercizio del diritto di accesso documentale. In particolare, il diritto di accesso è limitato: ai fini della tutela di interessi pubblici (segreto di Stato, procedimenti tributari, eccetera); in relazione a documenti individuati
dalla pubblica amministrazione (le singole amministrazioni possono sottrarre all’accesso alcuni documenti di cui hanno la disponibilità); di fronte a istanze massive preordinate a un controllo generalizzato; in relazione a documenti individuati dal Governo quando l’accesso può recare pregiudizio a sicurezza nazionale, relazioni internazionali, politica monetaria; nonché qualora vengano in rilievo particolari categorie di dati.
Infatti, al di là della tutela degli interessi pubblici, viene assicurato un efficace bilanciamento di interessi qualora l’oggetto dell’ostensione documentale riguardi dati riservati, dati sensibili e dati sensibilissimi.
In presenza di tali dati riservati, l’accesso è consentito se si prova la necessarietà del documento a fini difensivi; nel caso vengano in rilievo dati sensibili, l’istante deve provare la stretta indispensabilità dei documenti a fini difensivi; in relazione a dati sensibilissimi, il privato deve dimostrare la strumentalità alla difesa di un bene di pari rango.
2. L’accesso civico è disciplinato dal D.Lgs. 33/2013 ed è stato introdotto al preciso fine di attuare il principio di trasparenza.
L’art. 5 del D.Lgs. 33/2013 prevede due forme di accesso civico: semplice (comma 1) e generalizzato (comma 2).
a) L’accesso civico semplice presuppone la violazione da parte della pubblica amministrazione dell’obbligo giuridico di pubblicazione di dati e informazioni.
Infatti, il legislatore ha previsto in capo alle pubbliche amministrazioni il dovere di pubblicare sui siti istituzionali una serie di documenti e dati concernenti l’organizzazione e l’attività.
Si tratta di un’elencazione tassativa di documenti dei quali è obbligatoria la pubblicazione, la cui omissione fa sorgere il diritto di chiunque di chiedere la pubblicazione di quel documento.
Considerata la finalità dell’accesso civico e i principi di trasparenza e partecipazione che vi sono alla base, l’istanza di ostensione è soggetta a legittimazione assoluta (può essere richiesta da parte di chiunque) e non è necessario alcun nesso di strumentalità.
Peraltro, a differenza dell’accesso documentale, rispetto alle istanze di accesso civico semplice non si rinvengono controinteressati e, pertanto, non vi sono necessità di bilanciamento di interessi.
Non vi sono, infatti, neppure limiti legali in quanto il bilanciamento dei contrapposti interessi è stato compiuto ex ante dal legislatore.
b) L’accesso civico generalizzato è stato introdotto con la riforma del 2016, per assicurare trasparenza e imparzialità, anche in attuazione della sussidiarietà orizzontale.
Con questa seconda forma di accesso civico si è inteso estenderne l’ambito oggettivo, consentendo a chiunque di accedere a dati e documenti detenuti dalla pubblica amministrazione «ulteriori» rispetto a quelli oggetto di obbligo di pubblicazione.
Anche in questo caso l’accesso è consentito a chiunque. La ragione della legittimazione assoluta si comprende in considerazione della natura e delle finalità dell’accesso civico, ovverosia favorire forme partecipative e collaborative tra privati e pubblica amministrazione.
Circa la natura giuridica dell’accesso civico, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 10/2020) ha qualificato la situazione giuridica soggettiva del privato come diritto fondamentale della persona in quanto espressivo del diritto all’informazione (right to know).
A differenza dell’accesso civico semplice, per l’accesso generalizzato sono previsti alcuni limiti, che possono essere distinti in due categorie: i limiti assoluti e i limiti relativi.
Mentre i primi operano automaticamente, per i secondi il legislatore rimette alla valutazione discrezionale dell’amministrazione la ponderazione degli interessi concreti che vengano in rilievo.
Tra i limiti assoluti possono essere annoverati il segreto di Stato, specifici divieti legali e gli interessi pubblici di cui all’art. 24, comma 1 L. 241/1990. Tra i limiti relativi si rinvengono due sottocategorie. Gli interessi pubblici: sicurezza nazionale, ordine pubblico, difesa, eccetera; gli interessi privati: dati personali, corrispondenza, interessi economici e commerciali, eccetera.
In sintesi, le tre forme di accesso hanno diversi punti in comune ma anche rilevanti tratti che li differenziano
L’accesso documentale si fonda sulla sussistenza di un interesse diretto, concreto e attuale del privato strumentale alla tutela di un bene della vita. L’istanza è formulata per prendere visione e/o estrarre copia di documenti amministrativi per i quali non è prevista la pubblicazione; perciò, sono previsti dei limiti a tutela di interessi pubblici e privati.
L’accesso civico semplice si basa sulla trasparenza dell’azione amministrativa e, dunque, viene in rilievo nei casi in cui la pubblica amministrazione sia venuta meno all’obbligo di pubblicazione di matrice legale. In questo caso l’interesse alla pubblicazione è in capo a chiunque e non c’è bisogno di dimostrare una specifica necessità di tutela.
L’accesso civico generalizzato, infine, consente di accedere a dati e documenti detenuti dalle pubbliche amministrazioni, ulteriori rispetto a quelli oggetto di pubblicazione obbligatoria. Anche per questa forma di accesso, il privato non deve essere titolare di un interesse peculiare, tuttavia, vi sono limiti relativi alla tutela di interessi giuridicamente rilevanti.
La privacy e la tutela dei terzi controinteressati
Come anticipato, rispetto alle istanze di accesso agli atti il richiedente deve porre attenzione alla posizione giuridica di soggetti terzi. Ciò è di primaria importanza in considerazione del necessario bilanciamento degli interessi che vengono in rilievo.
Infatti, a seconda della diversa tipologia di accesso e degli interessi meritevoli di tutela, il contemperamento è operato ex ante dal legislatore ovvero rimesso alla valutazione discrezionale della pubblica amministrazione.
In via generale, rispetto alla posizione dei soggetti terzi, opera il limite della tutela della riservatezza. Infatti, i terzi sono i soggetti controinteressati rispetto all’istanza di accesso agli atti e sono titolari di un interesse alla riservatezza dei documenti.
Dall’eventuale accoglimento dell’istanza essi possono essere pregiudicati nei loro interessi strettamente personali indicati all’art. 8 D.P.R. 352/92 (interesse epistolare, sanitario, professionale, finanziario, industriale e commerciale).
Per questo motivo, l’accesso può essere limitato o escluso a tutela della riservatezza di terzi (art. 24, co. 6, lett. d L. 241/1990).
L’art. 24, co. 7 L. 241/1990 fissa le regole per l’equilibrio tra il diritto d’accesso e la tutela della privacy riferita a particolari categorie di dati di cui al D.Lgs. 196/03, così come modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101.
In particolare, graduando l’onere probatorio in funzione della tipologia di dati che vengono in rilievo, prevale l’accesso:
– di fronte a dati riservati, se il richiedente dimostra che il documento è necessario a fini difensivi;
– di fronte a dati sensibili, quando l’istante dimostri che il documento è strettamente indispensabile a fini difensivi;
– di fronte a dati sensibilissimi qualora l’istante dimostri che il documento è strumentale alla difesa di un bene di pari rango.
La tutela della privacy è, infatti, garantita nell’ordinamento dal cd. “Codice Privacy” (D.Lgs. 196/2003, aggiornato con il D.Lgs. 101/2018), il quale contiene le disposizioni nazionali in materia di protezione dei dati personali, nei limiti previsti dal GDPR (General Data Protection Regulation – Regolamento europeo 2016/679), nonché dal D.L. 139/2021 (il cd. Decreto Capienze) che ha apportato notevoli modifiche al Codice Privacy.
Secondo la normativa richiamata sono dati personali le informazioni che identificano o rendono identificabile, direttamente o indirettamente, una persona fisica e che possono fornire informazioni sulle sue caratteristiche, le sue abitudini, il suo stile di vita, le sue relazioni personali, il suo stato di salute, la sua situazione economica, ecc.
Possono essere distinte varie categorie di dati:
– i dati che permettono l’identificazione diretta: dati anagrafici, immagini, numeri di identificazione (ad esempio, il codice fiscale);
– i dati rientranti in particolari categorie, ossia i cd. dati sensibili: quelli che rivelano l’origine razziale od etnica, le convinzioni religiose, filosofiche, le opinioni politiche, l’appartenenza sindacale, relativi alla salute o alla vita sessuale;
– i dati relativi a condanne penali e reati: si tratta dei dati giudiziari, ovverosia quelli che possono rivelare l’esistenza di determinati provvedimenti giudiziari soggetti ad iscrizione nel casellario giudiziale o la qualità di imputato o di indagato.
A fronte di tali diritti meritevoli di tutela, il legislatore ha previsto alcuni strumenti di tutela in capo ai terzi. In questa sede, si anticipa che l’ordinamento ha predisposto due diverse tipologie di tutela: procedimentale e processuale.
Nell’ambito della tutela procedimentale il terzo, in qualità di controinteressato, è notiziato dell’avvio del procedimento ed ha diritto di conoscere la motivazione del provvedimento adottato dalla pubblica amministrazione.
Per quanto attiene alla tutela processuale, il terzo, a cui deve essere necessariamente notificato il ricorso, è titolare del potere di opposizione processuale, può intervenire volontariamente ad opponendum o con l’opposizione di terzo, può intervenire anche con un intervento volontario ad adiuvandum se vanta un interesse specifico.

Lavoro e previdenza / NASpI: sostegno alla disoccupazione ed incentivo all’autoimprenditorialità, tra ricerca di nuova occupazione ed incentivo al lavoro autonomo.

Il D.Lgs. n. 22/2015 ha introdotto la cd. Nuova prestazione di Assicurazione Sociale per l’Impiego – NASpI operativa per gli eventi di disoccupazione verificatisi dal 1 maggio 2015, con la finalità di introdurre un sussidio a favore del lavoratore per far fronte allo stato di disoccupazione involontaria. Di tale contributo possono usufruire tutti i lavoratori dipendenti, inclusi apprendisti e soci lavoratori di cooperativa che abbiano stabilito un rapporto di lavoro subordinato, con esclusione degli operai agricoli a tempo determinato o indeterminato per i quali l’ordinamento prevede invece una disciplina specifica.

Per poter avere diritto al godimento della NASpI, devono ricorrere congiuntamente due requisiti:

  1. a) oggettivo:il lavoratore deve aver perduto involontariamente la propria occupazione (vi rientrano anche le ipotesi di dimissioni per giusta causa; dimissioni avvenute durante la fruizione del congedo per maternità, risoluzione consensuale del rapporto di lavoro intervenuta nell’ambito della procedura di conciliazione ex art. 7 L. n. 604/1966, licenziamento per motivi disciplinari, conciliazione volontaria agevolata ex art. 6 D.lgs n. 23/2015, fino all’ipotesi di cessazione del rapporto a seguito di procedura di liquidazione giudiziale), e quindi trovarsi in stato di disoccupazione;
  2. b) contributivo, avere almeno tredici settimane di contribuzione da far valere nei quattro anni che precedono l’inizio del periodo di disoccupazione, così come previsto nella Circolare Inps n. 142/2015.

L’art. 8 del suddetto D.Lgs. prevede e disciplina anche la diversa ipotesi in cui il lavoratore titolare della prestazione possa richiedere la liquidazione anticipata dell’importo complessivo del trattamento spettante che non gli sia stato ancora erogato al fine di avviare un’attività di lavoro autonomo o in forma individuale o per la sottoscrizione di una quota di capitale sociale di una cooperativa, nella quale il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attività lavorative da parte del socio.

In questa ipotesi, la NASpI, anziché svolgere la mera funzione di sussidio, si trasforma in un vero e proprio incentivo all’autoimprenditorialità. La domanda va presentata a pena di decadenza entro trenta giorni dall’inizio della attività.

Sempre l’art. 8, al comma 4, stabilisce che, nel caso in cui il lavoratore contragga un rapporto di lavoro subordinato durante il periodo di copertura della NASpI sarà tenuto a restituire l’intera somma corrisposta a titolo di NASpI anticipatoria, salvo il caso in cui il rapporto di lavoro subordinato sia instaurato con la cooperativa sociale di cui abbia sottoscritto una quota di capitale sociale.

La ratio di quest’ultima disposizione, dal contenuto letterale apparentemente chiaro, se da un lato è volta ad evitare comportamenti antielusivi e frodatori da parte del percipiente, dall’altro lascia poco spazio per una diversa interpretazione al fine dell’applicazione alla fattispecie concreta ed è stata oggetto più volte di attenzione da parte della Corte costituzionale a seguito dei rinvii per questioni di legittimità costituzionale da parte dei giudici di merito.

A tale proposito si segnala la sentenza n. 194/2021 della Corte costituzionale, riguardante la fattispecie di un lavoratore che era stato assunto come lavoratore subordinato per pochi mesi. Il Giudice remittente (Tribunale di Torino) aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale per contrasto: con l’art. 3, primo comma della Cost. e con il principio di razionalità, laddove era stata pretesa la restituzione integrale dell’importo ricevuto a fronte di un rapporto di lavoro subordinato di pochi mesi e tale da non compromettere la ratio della disposizione.

In questo caso, la Corte, ribadendo la “funzione promozionale” della NASpI anticipatoria, con l’obiettivo di favorire ed incentivare il lavoratore nel reimpiego in una attività lavorativa diversa da quella subordinata, volta pertanto a convertire i lavoratori subordinati in imprenditori, per creare a loro volta nuovi posti di lavoro, decomprimendo il mercato, sottolinea come la restituzione integrale della NASpI, non abbia carattere sanzionatorio, bensì “… natura di indice rivelatore della mancata effettività e autenticità di una attività lavorativa autonoma e di impresa, che giustifica la corresponsione del contributo in un’unica soluzione”, tale cioè da non lasciare all’Ente previdenziale alcun margine di discrezionalità.

Dall’altro lato, la Corte non rilevava violazione al principio di razionalità nella restituzione integrale dell’incentivo, in quanto la sua applicazione risulta limitata al solo caso del lavoratore che, durante la copertura NASpI, accetti un rapporto di lavoro subordinato evidenziando però “come la disciplina de qua potrebbe prestarsi a soluzioni più flessibili, la cui individuazione rientra nel campo della discrezionalità lasciata al legislatore”.

Proprio in relazione alla assenza di flessibilità di interpretazione della disposizione di cui all’art. 8, comma 4 del D.Lgs. n. 22/2015, appare degna di nota l’ultima pronuncia della Corte costituzionale, n. 90 del 20 maggio 2024. Il caso concreto riguardava un soggetto che, a seguito della percezione della NASpI anticipata, aveva aperto un’attività di ristorazione per poi trovarsi costretto a chiuderla prima del termine dei due anni di copertura NASpI. Lo stesso agiva in giudizio per impugnare il provvedimento restitutorio dell’Inps riguardante l’intera somma anticipata, deducendo che la chiusura anticipata dell’attività autonoma era stata causata dalle restrizioni COVID, ossia per cause a lui non imputabili. Il Tribunale di Lecce, investito del caso, sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 4 del D.Lgs. n. 22/2015 nella parte in cui prevede, prescindendo da ogni possibilità di valutare il caso concreto, l’obbligo di restituire l’intera anticipazione NASpI, se il beneficiario stipuli un contratto di lavoro subordinato entro il termine di scadenza del periodo per cui l’indennità è riconosciuta.

La Corte, in questo caso, ha ritenuto fondata la questione sollevata perché, a fronte dell’assenza di una concreta valutazione delle motivazioni della cessazione dell’attività autonoma, la norma è da ritenersi lesiva del principio di proporzionalità e ragionevolezza. Invero, secondo la Consulta, se l’attività imprenditoriale è stata effettivamente avviata ed esercitata per un periodo significativo, la finalità antielusiva della norma è da ritenersi soddisfatta.

Pertanto, se il percettore dell’indennità (anche se di incentivo all’autoimprenditorialità) si trova nell’impossibilità di continuare l’attività imprenditoriale per motivi a lui non imputabili, la restituzione della NASpI deve essere proporzionale rispetto alla durata del nuovo lavoro subordinato, poiché solo per quel periodo può considerasi l’indennità di disoccupazione priva di causa.

Diversamente, evidenzia la Corte, se il fallimento dell’attività imprenditoriale è collegabile al mero rischio di impresa, il percettore continua ad essere obbligato alla restituzione totale dell’indennità percepita.

Tributario / Il fermo amministrativo: disciplina, procedura e implicazioni socio-giuridiche

Il fermo amministrativo è un istituto disciplinato dall’art. 86 del DPR 602 del 1973, attraverso il quale l’Amministrazione Finanziaria o altri enti pubblici come Comuni, Regioni, INPS e lo Stato, tramite gli Agenti della riscossione, dispongono il “blocco” dei beni mobili registrati come veicoli, imbarcazioni e aeromobili.

Questa misura comporta, fino alla rimozione del cd. blocco, il divieto di circolazione del veicolo, che tuttavia rimane in custodia del proprietario.

La normativa prevede che, in caso di violazione da parte del proprietario dell’automezzo del dispositivo del fermo, si possa incorrere – alternativamente o cumulativamente – nel sequestro del bene e/o in una sanzione pecuniaria.

Data l’efficacia e l’utilità dell’istituto, il legislatore, con il D.L. 13 maggio 2011, n. 70, art. 7, lett. g) quinquies, ne ha ampliato la portata applicativa, prevedendo la sua estensione sia nel caso di qualunque debito a titolo di IRPEF o IVA, sia nel caso di sanzione al C.d.S. che di violazioni contributive, purché di importo inferiore ad Euro 2.000.

Il fermo amministrativo si è rivelata una misura di grande efficacia nell’ambito della riscossione dei crediti tributari e delle sanzioni amministrative. Questo strumento giuridico mira infatti a garantire che i debiti nei confronti dello Stato o di altri enti pubblici vengano saldati, costituendo esso un mezzo di stringente coercizione economica.

Va anche detto che la decisione di procedere con l’intimazione di un fermo amministrativo non è immediata: il contribuente inadempiente viene dapprima avvisato con una comunicazione, denominata preavviso di fermo, che prevede un termine di trenta giorni per regolarizzare la sua posizione. Solo se detto termine spira senza che il debitore si adoperi per assolvere alla sua esposizione, l’Amministrazione procede con l’iscrizione effettiva del fermo sul veicolo.

Il preavviso di fermo rappresenta un vero e proprio “avvertimento” per il destinatario, il quale, se rimane inadempiente nel termine di legge di trenta giorni dalla ricezione dell’atto, vedrà il provvedimento diventare esecutivo e, quindi, iscritto nel Pubblico Registro Automobilistico.

Dal punto di vista giuridico, il preavviso di fermo è considerato autonomamente impugnabile, a prescindere dalla successiva ed eventuale iscrizione del fermo nel pubblico registro. La Suprema Corte di Cassazione ha precisato che il preavviso di fermo amministrativo, introdotto nella prassi sulla base di istruzioni fornite dall’Agenzia delle Entrate alle società di riscossione al fine di superare il disposto dell’art. 86, comma 2, D.P.R. 602 del 1973, rappresenta un atto autonomamente ed immediatamente impugnabile, anche se riguardante obbligazioni di natura extra-tributaria. Questo poiché si tratta di un atto funzionale a portare a conoscenza dell’obbligato una determinata pretesa dell’Amministrazione, rispetto alla quale sorge l’interesse alla tutela giurisdizionale per il controllo della legittimità sostanziale della pretesa stessa (Cass., SS.UU., 7 maggio 2010, n. 11087).

Si rammenti anche che l’Agente per la riscossione non può porre in essere azioni cautelari come il predetto fermo amministrativo o l’ipoteca ovvero esecutive come il pignoramento, senza aver inviato almeno due solleciti di pagamento a distanza di sei mesi l’uno dall’altro. Va detto che tali invii devono avvenire per mezzo di posta ordinaria o tramite strumenti analoghi di posta elettronica o posta elettronica certificata.

Se diversamente concepito, l’atto di fermo non garantirebbe il diritto di difesa del contribuente, che avrebbe tutela solo al momento della sua esecutività a seguito dell’iscrizione nel pubblico registro.

È possibile per il destinatario dell’atto, come forma di garanzia, ottenerne l’annullamento. Per comprendere gli strumenti a disposizione, è necessario fare una distinzione tra crediti di natura tributaria e crediti di natura non tributaria. Per i primi, ci si rivolge alla Corte di Giustizia Tributaria, la quale ha giurisdizione sulle controversie tributarie. Per i secondi, è possibile porre in essere un’azione di opposizione ex art. 615 c.p.c., senza limiti di tempo, se si ricorre per prescrizione; per tutti gli altri casi, è prevista l’opposizione agli atti esecutivi nel termine di venti giorni, ex art. 617 c.p.c. Per i crediti INPS, è previsto il ricorso dinanzi al giudice del lavoro entro il termine di quaranta giorni, ma solo per situazioni inerenti al merito dell’iscrizione al ruolo. La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, ha stabilito che con riferimento alle controversie aventi per oggetto il provvedimento di fermo di beni mobili registrati, di cui all’art. 86 del D.P.R. n. 602/1973, ai fini della giurisdizione rileva la natura dei crediti posti a fondamento del provvedimento di fermo, con la conseguenza che la giurisdizione spetterà al giudice tributario o al giudice ordinario a seconda della natura tributaria o meno dei crediti, ovvero ad entrambi, se il provvedimento di fermo si riferisce in parte a crediti tributari e in parte a crediti non tributari (Cass. SS. UU. 5 giugno 2008, n. 14831).

Proprio per la sua efficacia ma anche invasività della sfera personale del contribuente, lo  strumento non è andato esente da contestazioni. Una delle principali critiche al fermo amministrativo riguarda la sua percepita durezza e il potenziale impatto sproporzionato sulla vita quotidiana dei debitori. Il fermo di un veicolo può infatti causare gravi difficoltà, specialmente a coloro che utilizzano l’auto per lavoro o per esigenze familiari impellenti. Tuttavia, è importante sottolineare che il fermo amministrativo è considerato una misura di ultima istanza, adottata solo dopo che altri tentativi di recupero del credito sono falliti.

Esistono alcune tutele per i debitori. Ad esempio, il fermo non può essere disposto se il veicolo è indispensabile per l’attività lavorativa del debitore. In tali casi, il contribuente può presentare una richiesta all’Agente della riscossione, corredata da adeguata documentazione, per evitare il fermo o per ottenerne la revoca. È anche possibile richiedere una rateizzazione del debito che, se accordata, può sospendere l’efficacia del fermo amministrativo, consentendo al debitore di utilizzare il veicolo mentre provvede al pagamento dilazionato delle somme dovute.

L’efficacia del fermo amministrativo come strumento di riscossione è confermata dai dati statistici, che mostrano come molti debitori, una volta ricevuto il preavviso, si affrettino a saldare il loro debito per evitare il blocco del veicolo. Tuttavia, questo risultato positivo non deve far dimenticare l’importanza di garantire un equo trattamento per tutti i cittadini e di adottare misure che rispettino pienamente i principi di proporzionalità e di giustizia.

Lavoro e previdenza / Malattia del lavoratore ed assenza alla visita fiscale

Il D.L. n. 663/1979, all’art. 2, convertito in Legge 29 febbraio 1980, n. 33, fornisce la definizione di malattia, da intendersi come “infermità comportante l’incapacità del lavoratore a svolgere la propria prestazione lavorativa per causa non inerente al lavoro”.

Quindi si considerano “malattia e/o infortunio non professionale” tutti quegli eventi morbosi che determinano un’inabilità temporanea e concreta ad eseguire la prestazione lavorativa, consentendo al lavoratore di assentarsi legittimamente dal lavoro, mantenendo al contempo il diritto al trattamento economico nonché all’indennità di malattia.

In questi casi, il lavoratore deve provvedere tempestivamente a comunicare il proprio stato di morbilità al datore di lavoro, attraverso idonea certificazione medica, e l’indirizzo di reperibilità ai fini di eventuali controlli medici. Infatti, sia il datore di lavoro che l’I.N.P.S. hanno la facoltà di verificare l’effettività dello stato morbile del lavoratore.

Tutta la procedura, dalla richiesta di visita medica di controllo alla comunicazione dell’esito del suddetto controllo, si svolge in materia informatizzata attraverso apposito canale dedicato gestito dall’Ente di Previdenza. Una volta inviata la richiesta di controllo da parte del datore, l’I.N.P.S. provvederà a designare il medico che si recherà presso l’indirizzo di reperibilità indicato precedentemente dal lavoratore, nelle fasce di garanzia previste dalla legge.

La disciplina delle modalità di svolgimento della visita fiscale è contenuta  nel Decreto Legge n. 206 del 17 ottobre 2017della Presidenza del Consiglio dei Ministri della Funzione Pubblica, contenente il “Regolamento recante le modalità per lo svolgimento delle visite fiscali e per l’accertamento delle assenze dal servizio per la malattia, nonché l’individuazione delle fasce orarie di reperibilità, ai sensi dell’articolo 55-septies, co. 5-bis, del D. Lgs. 30 marzo 2001, n. 165”.

Può accadere, però, che il lavoratore risulti assente alla visita fiscale del medico verificatore. In questi casi, il medico deve lasciare l’avviso di presentazione a visita medica ambulatoriale per la prima giornata lavorativa successiva, presso l’Ufficio medico legale dell’Inps competente per territorio. Le modalità operative a cui il medico dell’INPS deve attenersi, nell’espletamento di tale adempimento, sono quelle previste dalla Circolare Inps n. 87 del 12 settembre 2008, avente ad oggetto “Trattamento dei dati sanitari nella gestione della certificazione di malattia”.

Circolare la quale, ai sensi dell’art. 3, “Trattamento dati sensibili nella certificazione malattia”, al punto 9)  dispone che il funzionario medico deve inserire il prescritto Avviso in busta chiusa sigillata, su cui deve indicare il numero di cronologico di notificazione, senza apporre ulteriori segni e/o indicazioni da cui possa desumersi il contenuto dell’atto (ai sensi dell’art. 137 cpc, in tema di notificazioni), comunicando il numero di cronologico e il nominativo del lavoratore assente, al Centro Medico Legale dell’Inps. La busta deve essere lasciata nella cassetta per le lettere del lavoratore ovvero consegnata a una persona di famiglia o addetta alla casa, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace. In mancanza di tali persone, la copia è consegnata al portiere dello stabile in cui si trova l’abitazione indicata ed, in mancanza del portiere, anche ad un vicino di casa, che accetti di riceverla (come prescrive l’art. 139 c.p.c. in tema di notificazioni), facendo in questo caso sottoscrivere apposita ricevuta di consegna.

Il verbale della visita fiscale, vergato dal medico redigente, viene poi inoltrato al datore di lavoro, che, nel caso di assenza a visita del lavoratore, potrà assumere tutti i provvedimenti del caso, sia a carattere economico, quali trattenuta dello stipendio per le giornate di malattia, che disciplinare.

Pertanto, nel caso in cui il lavoratore si debba allontanare dal proprio domicilio, durante le fasce di reperibilità, è altamente consigliabile che questi in primo luogo, avvisi anticipatamente il proprio datore lavoro, al fine di non risultare assente ingiustificato all’eventuale visita fiscale, fornendo opportuna documentazione a supporto, o alternativamente dovrà comunicare direttamente all’I.N.P.S. la necessità dell’allontanamento dal proprio domicilio.

Come già sopra evidenziato, l’allontanamento dal proprio domicilio durante le fasce di reperibilità (ossia dalle ore 10,00 alle ore 12,00 e dalle 17,00 alle 19,00), compresi domeniche e festivi, al di fuori dei casi previsti dalla legge comporta sanzioni graduali a carattere economico: nel caso di assenza ingiustificata alla prima visita, vi è la perdita del trattamento per i primi dieci giorni di malattia; nel caso di assenza alla seconda visita, oltre alla sanzione precedente è comminata l’ulteriore trattenuta del 50% dell’indennità di malattia per i giorni successivi al decimo fino al termine della malattia; infine, in caso di infrazione anche alla terza o successiva visita, si ha l’interruzione totale dell’erogazione dell’indennità da parte dell’I.N.P.S. dal giorno di tale ulteriore assenza.

Accanto alle descritte sanzioni economiche, il datore di lavoro potrà dare luogo all’apertura del procedimento disciplinare ai sensi dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori che, in relazione alla gravità del fatto, si può concludere con la irrogazione della proporzionale sanzione disciplinare (tra quelle previste nella Contrattazione collettiva).

Professionisti / Il procedimento disciplinare a carico dei geometri e le sue fasi

Con il presente commento – che fa seguito ai precedenti approfondimenti in merito al Codice di Deontologia Professionale dei Geometri – proseguiamo l’analisi del procedimento disciplinare ex art. 12 RD n. 274/1929, come integrato dal DPR 7 agosto 2012, n. 137.

Il procedimento disciplinare e le sue fasi

Il procedimento disciplinare può essere analizzato distinguendo almeno cinque fasi:

  1. Impulso;
  2. Istruzione preliminare;
  3. Non luogo a procedere o rinvio a giudizio disciplinare;
  4. Trattazione;
  5. Decisione

1. Impulso

Tre sono i modi con cui il Consiglio di disciplina dà avvio alla procedura disciplinare: tramite segnalazione, su richiesta del Pubblico Ministero ovvero d’ufficio.

  • La segnalazione: chiunque vi abbia interesse può dare impulso all’azione disciplinare mediante un “esposto” al Collegio di disciplina territoriale, con indicazione della notizia del presunto illecito deontologico commesso da un professionista iscritto al medesimo albo professionale. Ricevuto l’esposto (sotto qualsiasi forma), il Collegio deve trasmettere la segnalazione al Presidente del Consiglio di disciplina per i successivi adempimenti.
  • La richiesta del PM: è il Pubblico Ministero che, avuta notizia della presunta condotta disciplinarmente illecita, richiede l’avvio della procedura al Consiglio.
  • L’azione d’ufficio: su istanza di uno o più membri del Consiglio di disciplina a seguito dell’avvenuta conoscenza di illeciti disciplinari comunque appresi.

In tutti i casi, elemento essenziale e comune all’avvio del procedimento disciplinare è la notizia della commissione di un illecito a presunto rilievo disciplinare, la cd. notitia criminis. Infatti, il Consiglio di disciplina può attivare la procedura soltanto se ha avuto conoscenza di un presunto illecito disciplinare e non in via meramente autonoma. È l’atto di impulso che rende legittimo l’avvio della procedura, dovendosi escludere un autonomo potere in tal senso in capo al Consiglio di disciplina, ossia al Presidente di tale Consiglio.

  1. Istruttoria preliminare.

Il comma 2 dell’art. 12 del R.D. 274/29 prevede che: “Il presidente del (Consiglio di disciplina), verificati sommariamente i fatti, raccoglie le opportune informazioni e, dopo di avere inteso l’incolpato, riferisce al (Consiglio di disciplina), il quale decide se vi sia luogo a procedimento disciplinare”.

Il disposto citato disciplina in maniera semplice e chiara la fase istruttoria preliminare, individuando il soggetto preposto al suo svolgimento, l’oggetto su cui verte ed i suoi possibili esiti.

Preposto allo svolgimento dell’istruttoria preliminare è il Presidente del Consiglio di disciplina, il quale, all’esito del raccordo con le intervenute modifiche al Regio Decreto n. 274/29, ha il potere di assumere tutte le informazioni opportune per lo svolgimento delle indagini. A titolo esemplificativo, il Presidente può estrarre copia della documentazione necessaria custodita presso pubblici uffici e può, tramite istanza al Procuratore della Repubblica, persino avvalersi degli organi di polizia giudiziaria.

In concreto, l’attività istruttoria consiste nell’assunzione di tutte le informazioni opportune per lo svolgimento delle indagini da parte del Presidente del Consiglio di disciplina o di un consigliere delegato.

Tale fase, essendo preposta all’assunzione delle informazioni necessarie a verificare l’opportunità o meno dell’apertura del procedimento disciplinare vero e proprio, si colloca in una fase antecedente al vero e proprio procedimento disciplinare. L’istruttoria consente di verificare il fondamento dei fatti emersi con l’atto d’impulso, valutarne la consistenza ed il rilievo disciplinare, nell’ottica di indagare ed accertare solo fatti e circostanze che potenzialmente integrino violazione deontologiche.

  1. Non luogo a procedere o rinvio a giudizio disciplinare.

Esaurita questa attività preliminare d’indagine e di vaglio dei fatti che costituiscano violazioni di norme deontologiche, il Presidente non può esercitare in concreto l’attività giudicante, ma deve relazionare al Consiglio di disciplina, il quale solamente può delibare circa l’esercizio dell’azione disciplinare, ossia decidere in concreto se avviare o meno il procedimento.

In particolare, a questo punto, esaminato quanto rilevato dal Presidente, il Consiglio di disciplina si trova di fronte a due strade alternative ed opposte tra di loro:

a) il non luogo a procedere: viene emesso laddove il Consiglio ravvisi l’inesistenza dei fatti di rilievo disciplinare. Chiamato altresì “archiviazione”, il provvedimento non ha natura decisoria in senso giurisdizionale, ma meramente amministrativa, con due conseguenze di rilievo: da una parte, esso non può essere impugnato (ossia il ricorso dell’esponente contro il provvedimento di archiviazione è destinato a essere dichiarato inammissibile da parte del CNGeGL), dall’altra, un provvedimento di non luogo a procedere non esclude che il Consiglio di disciplina possa valutare di dare avvio a un nuovo procedimento fondato sui medesimi fatti ma sulla scorta dell’acquisizione di eventuali nuovi elementi documentali;

b) il rinvio a giudizio disciplinare: si avrà allorché il Consiglio rinvenga la sussistenza di circostanze che appaiono di rilevanza disciplinare. Ciò comporta la nomina di un “collegio” di tre consiglieri che sarà preposto a gestire il giudizio assegnatogli. Il Presidente del collegio di disciplina nomina il consigliere relatore (che si preoccuperà dell’istruzione del giudizio) e fissa la seduta del collegio per la discussione. L’iscritto in questo modo da indagato diviene “incolpato”.

  1. Trattazione.

A questo punto, il procedimento disciplinare prende concretamente avvio ed è necessario convocare l’incolpato. A tal fine, il Presidente del Collegio assegnatario dà notizia della fissazione della seduta di discussione all’indagato e del rinvio a giudizio (almeno dieci giorni prima) per consentirgli di presentare giustificazioni e documentazione a difesa.

In particolare, tale termine svolge la funzione di:

  • garantire al professionista indagato un congruo termine per predisporre le sue difese. In quest’ottica, il termine di dieci giorni prima della seduta per l’avviso all’indagato è considerato a pena di annullamento di tutto il procedimento laddove sia in concreto lesivo del diritto di difesa;
  • invitare l’indagato a comparire alla stessa per essere sentito e produrre documenti a difesa;
  • garantire il contraddittorio contenendo una chiara contestazione dell’addebito disciplinare mosso al professionista.

Alla seduta fissata per la convocazione dell’incolpato, si procede alla discussione dei fatti oggetto del procedimento. Nella seduta ha luogo la discussione formale del giudizio in cui vengono sentiti il relatore, l’incolpato (e/o il suo difensore), eventuali testimoni e se, del caso, persino il soggetto che ha avanzato l’esposto.

Si rammenti che, qualora l’incolpato ritualmente convocato non compaia alla seduta o non giustifichi la sua assenza con un legittimo impedimento, il Collegio giudicante procederà lo stesso in sua assenza ad istruire il giudizio.

Va anche ricordato che, nel caso in cui il Collegio aggiorni la seduta di discussione per qualsivoglia motivo (approfondimenti, nuovi accertamenti, necessità di acquisizioni documentali), lo stesso Collegio dovrà procedere ad una nuova formale convocazione dell’iscritto incolpato.

  1. Decisione.

All’esito della discussione, il Collegio può adottare immediatamente la decisione ovvero rinviare la decisione ad un secondo momento. In ogni caso, la seduta del Collegio non è pubblica e la decisione è adottata a porte chiuse.

La decisione del Collegio potrà essere di “archiviazione” ovvero di adozione della “sanzione” disciplinare.

Le sanzioni irrogabili all’incolpato ritenuto responsabile dell’addebito disciplinare contestatogli sono quelle di cui all’art. 11 del RD n. 274/1929: avvertimento, censura, sospensione dall’esercizio della professione (fino ad un massimo di sei mesi), cancellazione dall’albo professionale.

Si può concludere ricordando che se, da un lato, le sanzioni sono rigidamente tipizzate dall’ordinamento professionale (ossia, non sono previste sanzioni diverse da quelle sopra elencate), dall’altro, nel Codice di Deontologia vi è una mancata tipizzazione degli illeciti disciplinari, per cui le sanzioni non sono collegate a specifiche fattispecie deontologiche.

Tanto che il Collegio di disciplina, allorché decida di irrogare la sanzione, non è obbligato a seguire rigorosamente l’ordine delle sanzioni di cui all’art. 11 e soprattutto ha facoltà di adottare sanzioni diverse per la medesima infrazione, secondo una sua discrezionale valutazione purché adeguatamente motivata.

Lavoro e previdenza / Lo straining tra medicina legale ed apprezzamento giuridico

Il termine straining ha origine dall’inglese “to strain”, ovverosia “forzare, stringere, mettere sotto pressione” ed individua una nozione di tipo medico legale utile in ambito tecnico-giuridico in quanto espressione di un comportamento datoriale contrario ai doveri risultanti dall’art. 2087 c.c.

Secondo la definizione del Dott. Herald Ege, per “straining” si   intende: “una situazione di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione che ha come conseguenza un effetto negativo nell’ambiente lavorativo, azione che oltre ad essere stressante, è caratterizzata anche da una durata costante”.

Circa l’esatta individuazione delle condotte, il Dott. Ege ritiene configurabile lo straining in considerazione di alcuni indici come l’ambiente lavorativo, il tipo di azioni realizzate, la loro frequenza anche isolata con effetti duraturi, la durata di almeno sei mesi, le posizione di inferiorità gerarchica di chi subisce, l’andamento secondo fasi successive, l’intento persecutorio o l’obiettivo discriminatorio.

La nozione è entrata nel panorama giuridico, anche italiano, quale categoria e fattispecie autonoma già nel 2005 quando, nel corso di una causa pendente innanzi al Tribunale di Bergamo, veniva nominato consulente tecnico proprio il Dott. Ege ai fini della valutazione della ricorrenza di condotte mobbizzanti. Egli, non riscontrando gli estremi del mobbing, riteneva invece essersi concretata la diversa ipotesi di straining.

Secondo la giurisprudenza che si è di recente sviluppata, lo straining si pone in rapporto di continenza rispetto alla più ampia fattispecie di mobbing, costituendone un minus o meglio una forma attenuata.

Nello straining, infatti, sembra sufficiente anche una sola azione intenzionale idonea a sottoporre il lavoratore a uno stress superiore a quello normalmente richiesto dalla natura della prestazione.

Alla luce della giurisprudenza di legittimità più recente, infatti: “è configurabile lo straining quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164) o esse siano limitate nel numero (Cass. 29 marzo 2018, n. 7844)”.

Rilevante e sufficiente, pertanto, appare non la reiterazione delle condotte datoriali, bensì l’effetto dannoso che anche una sola azione produce sulla condizione lavorativa della vittima e conseguentemente sulla salute del lavoratore.

A tale proposito, la norma quadro in materia, ossia l’art. 2087 c.c., impone al datore di lavoro l’obbligo di assicurare la salute dei lavoratori, intesa quale integrità psico-fisica, con la massima diligenza possibile. Secondo un cospicuo orientamento giurisprudenziale, infatti, il datore di lavoro ha l’onere di prevenire, evitare ed eliminare: “situazioni <stressogene> che diano origine ad una condizione che, per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto possa presuntivamente ricondurre a questa forma di danno anche in caso di mancata prova di un preciso intento persecutorio (sul punto, Cass. n. 3291 del 2016)” (Cass. 7844/2018).

Pur nella coscienza di avere a che fare con una fattispecie dai contorni ancora in divenire, giova precisare che la giurisprudenza propenda nel sostenere la configurabilità dello straining anche in assenza della prova compiuta circa la vessatorietà/discriminatorietà delle condotte datoriali ed il preciso intento persecutorio nei confronti del lavoratore, essendo il datore di lavoro tenuto ad evitare in ogni caso situazioni stressogene sul luogo di lavoro (Cass. civ. sez. lav. 4 ottobre 2019, n. 24883).

Professionisti / Il procedimento disciplinare a carico dei geometri

L’azione disciplinare può definirsi come la reazione che l’ordinamento prevede di fronte alla violazione di norme di contenuto deontologico.

La prima questione da affrontare concerne l’individuazione del novero delle violazioni che danno luogo a procedimento disciplinare.

In primis, giova premettere che non esiste un numerus clausus di infrazioni, un elenco tipizzato di comportamenti che consentono l’esercizio del potere disciplinare. È lecito pertanto affermare che i principi, i doveri e le regole previste dal Codice deontologico professionale non costituiscano un’elencazione tassativa.

Se per un verso, infatti, il procedimento disciplinare si pone come necessaria conseguenza della violazione dei precetti di natura deontologica, imposti a ciascun professionista, dall’altro questi precetti e doveri non rinvengono la loro fonte esclusivamente nel codice di deontologia professionale. In buona sostanza, anche comportamenti che non trovano espresso divieto nel codice deontologico possono dar luogo a un procedimento disciplinare.

Ciò trova la sua ratio nel fatto che la deontologia professionale affonda le sue radici nell’etica professionale la quale, a sua volta, trova corrispondenza nel comune sentire.

In altre parole, il sistema dei doveri relativi ad una categoria di professionisti si realizza nel corso del tempo sulla base di regole di natura e contenuto prettamente etici. È l’etica, nel senso di complesso di norme morali e di costume che connotano una professione, a individuare quali comportamenti siano così degradanti da meritare l’esercizio dell’azione disciplinare ed eventualmente l’irrogazione di una sanzione. È proprio il sentire della comunità in un dato momento storico a individuare regole comportamentali e doveri del professionista, integrando e completando le disposizioni codicistiche.

Questo legame tra deontologia ed etica determina inevitabilmente che le regole deontologiche mutino nel corso del tempo, di modo che ciò che costituiva violazione in un pregresso momento storico e contesto sociale potrebbe non esserlo più in epoca successiva.

Alla luce delle considerazioni appena svolte è possibile comprendere il vero scopo dell’azione disciplinare che, lungi dal caratterizzarsi quale mero strumento inquisitorio, assolve la funzione di vera e propria tutela dell’ordine professionale.

Infatti, il fine dell’azione disciplinare è quello di salvaguardare il corretto esercizio della professione nell’ottica dei principi di dignità, onorabilità e correttezza che la informano e la permeano. Principi che, giova rammentarlo, costituiscono in fondo il punto di partenza per l’individuazione delle condotte disciplinarmente rilevanti.

***

La natura “mista” del procedimento disciplinare.

Come si è già avuto modo di vedere nei precedenti approfondimenti, il procedimento disciplinare si conclude con una decisione del Consiglio di Disciplina preposto la quale, a seconda dei casi, può essere rappresentata dall’irrogazione di una sanzione ovvero dall’archiviazione del procedimento.

Può notarsi subito che le due locuzioni lessicali adoperate per individuare i provvedimenti del Consiglio di Disciplina fanno pensare immediatamente agli analoghi provvedimenti del procedimento penale. Di talché la domanda sorge spontanea: questi provvedimenti hanno natura giurisdizionale o amministrativa?

Ebbene, a dispetto del nomen, entrambi hanno natura amministrativa. Invero, l’intero procedimento disciplinare ha natura amministrativa e si conforma alla normativa prevista per l’agire amministrativo.

D’altronde, il quadro normativo di riferimento è costituito innanzitutto dal dettato normativo specificamente dedicato al procedimento disciplinare (R.D. 274/29 e D.P.R. 137/12) ma anche, pacificamente, dalla Legge 241/1990 sul procedimento amministrativo, in via sussidiaria e in quanto compatibile. Ossia, vige una generale clausola di compatibilità, secondo cui la citata legge sul procedimento amministrativo trova applicazione se non in contrasto con quanto previsto dalla disciplina specifica del procedimento disciplinare.

Ad ogni modo, sebbene non vi siano dubbi circa la natura amministrativa dell’azione disciplinare, essa conserva due caratteri propri dell’attività giurisdizionale.

1) L’obbligatorietà dell’azione.

Carattere tipico dell’attività giurisdizionale è quello dell’obbligatorietà, che comporta il dovere per l’autorità giudiziaria adita di proseguire il giudizio fino all’adozione di un provvedimento decisorio.

In un’ottica sostanzialmente analoga si pone il principio dell’obbligatorietà dell’azione disciplinare, seppur con una precisazione. In realtà, l’obbligatorietà dell’azione disciplinare comporta che il Consiglio di Disciplina ha l’obbligo di dare seguito all’azione disciplinare laddove ravvisi:

  • indizi gravi, precisi e concordanti riguardo la commissione di una condotta deontologicamente rilevante
  • la sua attribuibilità ad un soggetto determinato e legittimato.

Sussistendo tali presupposti, il Consiglio non ha potere discrezionale, dovendo disporre, come meglio si vedrà, il cd. rinvio a giudizio disciplinare.

Tuttavia, va ribadito per dovere di chiarezza, l’obbligatorietà concerne esclusivamente l’attivazione del procedimento disciplinare, non incidendo in alcun modo sulla decisione. L’obbligatorietà dell’azione disciplinare non deve, infatti, essere intesa quale presunzione di responsabilità in capo al destinatario della stessa.

Invero, il Consiglio di Disciplina gode di discrezionalità in ordine all’accertamento dei fatti e della responsabilità del professionista, nonché in merito all’adozione del provvedimento di archiviazione ovvero nel comminare una sanzione.

Pertanto, può concludersi che non sussiste alcun vincolo di interdipendenza necessaria tra l’obbligatorietà dell’azione disciplinare (ossia di promuovere l’azione disciplinare in presenza di una “notitia criminis”) e l’irrogazione della sanzione disciplinare (che rimane eventuale e comminabile solo all’esito dell’intero procedimento).

2) La prescrizione dell’illecito.

Ulteriore carattere dell’azione disciplinare comune a quella giurisdizionale concerne la prescrizione dell’illecito deontologico.

La prescrizione svolge la funzione di tutelare il professionista, ponendo un limite temporale all’esercizio dell’azione disciplinare.

Infatti, in mancanza, si verserebbe nell’assurdo per cui il singolo professionista che ha commesso un illecito deontologico avrebbe sulla testa la spada di Damocle dell’avvio di un procedimento disciplinare nei suoi confronti sine die, ossia fino alla fine del suo excursus professionale.

Un simile paradosso è di certo incompatibile con le garanzie che informano l’attività amministrativa e nella specie la tipizzazione di un procedimento disciplinare.

Pertanto, sebbene, l’art. 12 del R.D. 274/29 nulla preveda in ordine alla prescrizione, si ritiene estendibile al procedimento disciplinare il termine di cinque anni decorrente dalla commissione del fatto. Il termine di prescrizione quinquennale è, difatti, previsto specificamente in relazione ad altre professioni e non vi sono ostacoli alla sua applicazione analogica anche alla professione del Geometra.

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Ambito soggettivo ed oggettivo dell’azione disciplinare.

Prima di procedere all’esame del procedimento disciplinare e delle sue varie fasi (su cui ci soffermeremo compiutamente nel prossimo contributo), occorre delimitare l’ambito soggettivo ed oggettivo dell’azione disciplinare, enucleando i presupposti della stessa.

Ambito soggettivo (geometra iscritto all’Albo vs. Consiglio di disciplina).

  1. Legittimazione passiva. Destinatari dell’azione disciplinare sono ad ogni evidenza i geometri professionisti.

Requisito per la sottoposizione al procedimento disciplinare è dunque l’iscrizione all’albo professionale. Infatti, legittimati passivi dell’azione disciplinare sono i soggetti iscritti all’albo professionale dei Geometri.

  1. Legittimazione attiva. Viceversa, legittimato attivo all’esercizio dell’azione disciplinare è il Consiglio di disciplina del Collegio di appartenenza del professionista.

Pertanto, la competenza dal punto di vista territoriale ad azionare il procedimento disciplinare è fondata su un criterio formalistico, consistente nell’ambito territoriale di iscrizione del Geometra al singolo Collegio territoriale. Semplificando, eserciterà l’azione disciplinare il Consiglio territoriale nel cui albo il professionista è iscritto, non necessariamente coincidente con quello in cui il geometra opera e, quindi, in cui l’illecito disciplinare è stato realizzato.

Come premesso, il Consiglio di disciplina è competente ad avviare l’azione disciplinare. Tuttavia, non è automatico che sia anche competente a pronunciarsi sulla stessa azione. Nel senso che, il D.P.R. 137/12 ha istituito presso ogni Consiglio di disciplina dei Collegi territoriali preposti ad istruire i procedimenti disciplinari e ad assumerne le relative decisioni.

Dal punto di vista organico, dunque, il Consiglio di disciplina può essere unico, composto esclusivamente da tre Consiglieri ovvero suddiviso in Collegi. Tale eventualità viene in rilievo laddove i Consigli di disciplina siano composti da più di tre componenti. In questi casi, vengono costituiti più Collegi tri-personali.

Dunque, da una parte il Consiglio di disciplina avvia un’azione disciplinare, dall’altra designa al suo interno il Collegio giudicante. La distinzione trova fondamento nella diversa funzione svolta dagli organi: il Consiglio è preposto all’attività preliminare-istruttoria, per individuare le condotte rilevanti dal punto di vista disciplinare; il Collegio, quale organo in concreto giudicante, subentra nella fase eventuale e successiva del rinvio a giudizio.

Ambito oggettivo: la condotta tipica ed atipica.

Dal punto di vista oggettivo, atteso quanto già anticipato in tema di atipicità dell’illecito, vale porre in rilievo che sono suscettibili di sanzione non soltanto i comportamenti tenuti dal professionista nell’esercizio della professione, bensì anche le condotte estrinsecatesi al di fuori di essa, laddove siano suscettibili di recare pregiudizio alla categoria professionale.

Nello specifico, l’art. 11 del R.D. n.  274/29 prevede che le sanzioni disciplinari sono applicabili a fronte di violazioni commesse dal professionista “nell’esercizio della professione”.

Dalla lettera della legge sembrerebbe l’irrogazione delle sanzioni sia racchiusa nell’alveo dei comportamenti tenuti durante l’esercizio della professione in occasione della stessa.

Tuttavia, la giurisprudenza ha teso ad ampliare il novero delle condotte suscettibili di indagine e sanzione, valorizzando il criterio dell’atipicità. Secondo tale impostazione, sono idonee a dare avvio al procedimento disciplinare anche condotte che sia siano verificate in ambiti diversi da quello professionale.

Per comprendere la ragione di ciò, vale richiamare quanto già specificato in ordine allo scopo dell’azione disciplinare. Il principio della tutela della dignità ed onorabilità della professione determina che il professionista sia sanzionabile anche laddove, al di fuori della sua attività professionale, il suo operato si rifletta negativamente sulla intera categoria, sul decoro e la reputazione della collettività professionale a cui si appartiene.

Sulla questione, la Giurisprudenza ha posto l’accento sull’offensività al decoro della professione dei comportamenti posti in essere. In tal modo, le condotte rilevanti ai fini dell’avvio della procedura disciplinare, non soltanto, sono svincolate dalla mera violazione di prescrizioni di legge civile o penale, ovvero dalle disposizioni previste dal codice deontologico, ma possono comprendere ulteriori comportamenti che, seppur non strettamente inerenti con l’esercizio della professione, si riflettano negativamente sulla stessa.

Lavoro e previdenza / La conservazione dei diritti dei lavoratori nel trasferimento d’azienda

L’art. 2112 c.c. introduce la disciplina del trasferimento d’azienda sancendo un principio cardine: “In caso di trasferimento d’azienda, il rapporto di lavoro continua con il cessionario ed il lavoratore conserva tutti i diritti che ne derivano”.

Lo scopo della disposizione è tutelare i rapporti di lavoro in essere con il soggetto cedente al momento del trasferimento d’azienda o di ramo d’azienda, proteggendo il lavoratore dalle modificazioni soggettive della parte datoriale. Conseguenza immediata di questa tutela è che i rapporti di lavoro proseguono senza soluzione di continuità in capo alla nuova datrice di lavoro, ossia l’impresa cessionaria.

L’effetto quindi che si produce, alla luce della norma richiamata, non è unico, in quanto essa garantisce -oltre alla continuazione del rapporto di lavoro – anche la conservazione dei diritti che vi sono connessi.

Al riguardo, la dottrina ha ritenuto sussistere una successione del complesso delle posizioni giuridiche, attive e passive, che qualificano il rapporto di lavoro.

Pertanto, muovendo da tale assunto, i lavoratori avrebbero diritto al mantenimento globale del trattamento giuridico e retributivo già fruito alle dipendenze della impresa cedente.

Tuttavia, in concreto, quanto all’individuazione dei diritti che permangono inalterati a seguito della cessione d’azienda o di ramo d’azienda,  vale rilevare che la locuzione utilizzata dall’art. 2112 è ampia e tendenzialmente omnicomprensiva, riferendosi genericamente a “tutti i diritti” che derivino dal rapporto di lavoro.

Nello specifico, la Corte di Cassazione (cfr. sent. n. 19681/2003), alla luce del quadro normativo risultante dal disposto dell’art. 2112 c.c. e dalla Direttiva 77/187/CEE, ha individuato un nucleo di diritti che il lavoratore indubbiamente conserva al momento del passaggio alle dipendenze del cessionario: i cd. diritti quesiti. Si tratta di tutti quei diritti già maturati dal lavoratore al momento del trasferimento, oramai facenti parte della sua sfera patrimoniale.

 

Per effetto del trasferimento d’azienda, dunque, il lavoratore mantiene inalterati i diritti che trovano il loro fondamento e riconoscimento sia nel contratto individuale di lavoro sia nella legge, essendo questi ultimi conservati a prescindere dai mutamenti soggettivi del datore di lavoro. Per cui, inalterata la normativa di riferimento, il mutare del datore di lavoro dal punto di vista soggettivo non interferisce sulla maturazione dei diritti del lavoratore.

A titolo esemplificativo, i lavoratori ceduti non possono vedersi alterare o comprimere il diritto a svolgere le medesime mansioni esercitate per la cedente (nei limiti di cui all’art. 2103 c.c.). Lo stesso vale a dirsi quanto al riconoscimento di mansioni superiori, laddove una siffatta attribuzione trovi fonte e regolazione nella legge.

Infatti, entrambe le ipotesi trovano fondamento e disciplina direttamente nella legge che non subisce influenza al mutare del datore di lavoro.

Ancora, da un punto di vista economico, invariato rimane l’eventuale superminimo individuale, laddove disciplinato dal contratto individuale di lavoro. In questo caso, il diritto alla conservazione trova sostegno nella clausola contrattuale volta a disciplinare una singola posizione.

D’altro canto, pochi dubbi si pongono quanto alla conservazione dell’anzianità, alla luce della chiara giurisprudenza di legittimità (paradigmatiche in tal senso Cass. n. 2609/2008 e n. 19564/2006). Si tratterebbe, infatti, di un principio assoluto e non negoziabile, che trova fondamento nell’automatismo del transito del lavoratore dall’una all’altra parte datoriale, prescindendo da una nuova assunzione. Dal punto di visto economico, la giurisprudenza riconosce ai lavoratori il diritto all’applicazione da parte della cessionaria degli scatti di anzianità corrispondenti all’anzianità maturata presso la cedente, laddove appunto sia fornita la prova della sussistenza di un pregresso diritto alla maturazione di scatti di anzianità presso l’impresa cedente (Cass. n. 14208/2013, già in Cass. n. 6428/98).