Tutela del consumatore: dalla normazione europea alla codificazione italiana.

Anche nel campo della tutela del consumatore – parafrasando un noto brocardo latino – possiamo dire che dalla vita nasce il diritto.

Dai problemi del cittadino nella sua veste di destinatario dell’offerta di beni e servizi è sorta l’esigenza di avere standard di qualità dei prodotti, attenzione ai prezzi del mercato, tutela della salute della collettività e dei singoli.

Dalle esigenze dei fruitori di prodotti e servizi nelle libere economie di mercato è discesa la necessità di approntare strumenti di tutela alla parte contrattuale dotata di minore forza economica, conoscitiva e, quindi, contrattuale, nonché regole certe che valgano per tutti i produttori o professionisti del medesimo settore.

Abbiamo già visto come la Comunità europea prima, l’Unione Europa dopo hanno fatto da apripista e da bussola, laddove in Italia – a livello normativo  e non solo – si era piuttosto in ritardo e la tutela era affidata alle applicazioni dei principi generali dell’ordinamento giuridico.

Il corpus normativo del diritto dei consumatori si è formato e stratificato nel tempo grazie al concorso di un moto autoctono, fatto della circolazione delle idee e dei modelli di intervento attraverso convegni, seminari, conferenze, studi comparati, pubblicazione di articoli specializzati, primi approfondimenti accademici, ma anche e soprattutto di un impulso potente di diretta derivazione comunitaria ed internazionale.

Se tentiamo di scattare una istantanea del quadro attuale delle fonti dell’ordinamento del diritto dei consumatori, occorre iniziare l’esame dalla Carta costituzionale, in cui però le categorie giuridiche, ancora profondamente legate al sistema economico–sociale dell’epoca, non contemplano quella del consumatore, di emersione più recente.

a) Peraltro, dalla lettura della Carta, di certo, si può implicitamente sussumere la tutela del consumatore in quella dell’individuo e della persona e, come tale, essa può costituire un limite interno alla iniziativa economica privata, che non deve offendere la dignità, la sicurezza e la salute della persona e deve conformarsi alla utilità.

b) Tra le leggi ordinarie, il codice civile (nel testo originario del 1942) non menzionava il consumatore.

Successivamente, ed in maniera più mirata a cominciare dagli anni Ottanta, numerose sono le iniziative legislative, molte in attuazione di direttive comunitarie, che si susseguono fino alla Legge-quadro del 30 luglio 1998, n. 281, che ha riconosciuto i diritti fondamentali dei consumatori e degli utenti.

Di seguito, proviamo a riferire, seppur senza pretese di esaustività, della legislazione speciale adottata all’epoca in alcuni settori, ripartiti per affinità di materia, prima della sua raccolta nel futuro Codice del Consumo:

  • informazione del consumatore: L. 10 aprile 1991, n. 126 (ed il relativo regolamento di attuazione, DM 8 febbraio 1997, n. 101);
  • modalità di fabbricazione dei prodotti, presentazione al pubblico delle merci, etichettatura; degne di rilievo sono la L. 11 ottobre 1986, n. 713 e L. 29 dicembre 1990, n. 428 sulla produzione e vendita di cosmetici; L. 29 dicembre 1990 n. 428 e D. Lgs. 27 dicembre 1991 n. 313 sulla vendita dei giocattoli; L. 25 novembre 1975, n. 797 sulla sicurezza dei veicoli; D.P.R. 24 maggio 1988, n. 224 sulla responsabilità del fabbricante di prodotti difettosi; L. 3 agosto 2004, n. 204, sull’etichettatura di alcuni prodotti agroalimentari, nonché in materia di agricoltura e pesca;
  • sicurezza generale dei prodotti: D. Lgs. 17 marzo 1995, n. 115; igiene degli alimenti: L. 30 aprile 1962, n. 283, D. Lgs. 26 maggio 1997, nn. 155 e 156;
  • prodotti biologici: D. Lgs. 17 marzo 1995, n. 220;
  • pubblicità di prodotti e servizi: D. Lgs. 25 gennaio 1992, n. 74 e D. Lgs. 25 febbraio 2000, n. 67 sulla pubblicità ingannevole; L. 10 aprile 1962, n. 165 sul divieto della propaganda dei prodotti da fumo; L. 6 agosto 1990, n. 223 sulla pubblicità televisiva;
  • modalità di vendita: D. Lgs. 15 gennaio 1992, n. 50 sui contratti negoziati fuori dei locali commerciali; L. 15 marzo 1997, n. 59 e D. Lgs. 23 gennaio 2002, n. 10 sulla firma digitale; D. Lgs. 31 marzo 1998, n. 114 sul settore del commercio; sui contratti a distanza, D. Lgs. 22 maggio 1999, n. 185; sulla indicazione dei prezzi offerti ai consumatori, D. Lgs. 25 febbraio 2000, n. 84; D. Lgs. 9 aprile 2003, n. 70 sul commercio elettronico e contraffazione via web;
  • credito al consumo: L. 19 febbraio 1992, n. 142, poi nel testo unico bancario, D. Lgs. 1 settembre 1993, n. 385; D. Lgs. 25 febbraio 2000, n. 63; D.M. 14 giugno 2004, sulla gestione del fondo di garanzia per il credito al consumo;
  • contratti dei risparmiatori nei servizi bancari e finanziari: L. 17 febbraio 1992, n. 154 per le norme sulla trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari; poi, il testo unico bancario ed il testo unico sul mercato finanziario;
  • contratti dei consumatori: L. 6 febbraio 1996, n. 52;
  • legislazione su viaggi e organizzazioni turistiche, case in multiproprietà: D. Lgs. 11 marzo 1995, n. 111, D. Lgs. 9 novembre 1998, n. 427;
  • assicurazioni: D. Lgs. 17 marzo 1995, nn. 174 e 175; successivamente, il Codice delle Assicurazioni Private, D. Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, composto da 355 articoli in sostituzione e aggiornamento delle oltre mille norme che regolavano il settore per la regolazione di tutto il settore assicurativo;
  • beni di consumo (vendita e garanzie): D. Lgs. 2 febbraio 2002, n. 24;
  • servizi pubblici e Carte dei Servizi: DPCM 27 gennaio 1994 e L. 14 novembre 1995, n. 481;
  • legge quadro sulla disciplina dei diritti dei consumatori e degli utenti e promozione della loro tutela in sede nazionale e locale: L. 30 luglio 1998, n. 281, come modificata dalla L. 24 novembre 2000, n. 340, dal D. Lgs. 23 aprile 2001, n. 224, dalla L. 1 marzo 2002, n. 39.

c) A livello inferiore agli atti normativi nazionali stanno le leggi regionali che hanno provveduto a disciplinare numerosi aspetti dei rapporti di consumo.

In realtà, la legislazione regionale si è occupata prevalentemente di finanziamento di associazioni e di attività a tutela dei consumatori ovvero dell’istituzione di organismi regionali di natura consultiva in materia di diritto dei consumatori.

d) L’attività delle amministrazioni comunali e provinciali si sono concentrate nella istituzione di uffici per la tutela del consumatore.

e) Le cd. Autorità amministrative indipendenti – come l’Antitrust, l’Isvap, la Consob, l’Autorità per i servizi di pubblica utilità, l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, l’Autorità Garante per la protezione dei dati personali, – hanno anch’esse il potere di adottare provvedimenti a tutela degli interessi dei consumatori e costituiscono punti di riferimento per le medesime associazioni dei consumatori quale referente istituzionale nelle materie di osservazione e competenza.

L’esperienza italiana presenta, poi, altre peculiarità:

  • le problematiche della materia sono oggetto di indagine e cura di una Direzione apposita costituita presso l’ex Ministero dell’Industria, poi delle Attività Produttive, presso il quale operava la Consulta nazionale dei consumatori e degli utenti, poi modificato nel CNCU – Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (introdotto dalla Legge-quadro, 1998);
  • esistono alcune istituzioni, come l’Istituto del Marchio di Qualità, l’Istituto per il Controllo della Pubblicità, l’Istituto di Autodisciplina Pubblicitaria che svolgono funzione di verifica delle attività delle imprese associate;
  • esistono numerose associazioni di consumatori che, pur non disponendo di un patrimonio di esperienze e di iscrizioni paragonabili a quello degli altri paesi europei o a quello nord-americano, si collocano come interlocutori dei pubblici poteri;
  • sono state avviate varie iniziative dirette alla soluzione extra-giudiziale delle controversie tra consumatori, utenti, risparmiatori ed i relativi soggetti contraddittori (da quelle di iniziativa privata, come il caso Telecom, a quelle previste dalle stesse Autorità indipendenti);
  • con la Legge n. 580/1993 si sono attribuite alle Camere di Commercio competenze di moral suasion per la redazione di modelli contrattuali delle imprese e competenze in materia di conciliazione e di arbitrato dei conflitti tra imprese e consumatori.

È indubbio, tuttavia, che in Italia l’approvazione della Legge 281 del 30 luglio 1998 ha costituito il punto d’approdo delle dottrine e delle idee che propugnavano l’affermazione in materia, anche a livello legislativo, di principi, diritti e categorie autonome, nonché il momento e lo strumento di riconoscimento da parte dei pubblici poteri del ruolo dell’associazionismo consumeristico.

Con tale provvedimento legislativo, infatti, si è introdotta la possibilità per le associazioni dei consumatori di ottenere il riconoscimento ministeriale e, di contro, è stato istituito il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti (CNCU). Quest’ultimo rappresenta un vero e proprio soggetto istituzionale e riveste una funzione per lo più consultiva.

Tali associazioni ottenevano il riconoscimento tramite l’iscrizione in un “elenco” tenuto dal Ministero delle Attività Produttive, che era subordinato al possesso di determinati requisiti previsti dal decreto ministeriale n. 20/1999. Tutte le associazioni iscritte in detto elenco concorrono a formare il Consiglio nazionale dei consumatori e degli utenti o CNCU.

La legge ha riconosciuto alle associazioni dei consumatori e degli utenti, registrate nell’elenco di cui sopra, la legittimazione ad agire in giudizio a tutela degli interessi collettivi dei rappresentati.

A livello teorico, la legge-quadro ha previsto e canonizzato la serie dei diritti fondamentali del consumatore: la tutela della salute;  la sicurezza e qualità dei prodotti e dei servizi; una adeguata informazione ed una corretta pubblicità; l’educazione al consumo; la correttezza, trasparenza ed equità nei rapporti contrattuali concernenti beni e servizi; la promozione e lo sviluppo dell’associazionismo libero, volontario e democratico tra i consumatori e gli utenti; l’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza.

I meriti della Legge n. 281/98 stanno nell’aver raccolto in un’unica enunciazione i fili sparsi di una disciplina altrimenti spezzettata, in modo da realizzare una sorta di Statuto del consumatore e dell’utente, cui fare riferimento per attingerne principi e linee-guida.

Con essa il consumatore e l’utente sono divenuti soggetti di posizioni tutelate: non più per singole occasioni settoriali, ma quali soggetti protagonisti del mondo economico.

L’evoluzione storica ha fatto del cittadino-consumatore la potenziale vittima di un mercato sempre più sofisticato ed agguerrito; l’evoluzione normativa ha inteso provvedere a difendere il cittadino-consumatore, riconducendolo, con l’arma della legge, verso una posizione di sostanziale parità con le controparti.

Tuttavia, negli anni successivi, in linea con l’appassionarsi del legislatore italiano alla redazione di “testi unici”, è maturata l’idea di realizzare un “codice” della materia del diritto dei consumatori.

Per l’effetto, il 6 settembre 2005 è stato emanato il D. Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 sulla scorta delle legge delega 29 luglio 2003, n. 229, in cui, a mente del suo art. 1, il Codice del consumo “armonizza e riordina le normative concernenti i processi di acquisto e consumo, al fine di assicurare un elevato livello di tutela dei consumatori e degli utenti”.

Con il Codice del consumo, tuttavia, non è cambiato molto nello scenario teorico ed operativo del settore.

Esso, infatti, non brilla per originalità di soluzioni ed è sostanzialmente frutto di una collazione di norme già esistenti, già conosciute dagli addetti ai lavori.

Non solo, il lavoro di riordino e raccolta in unico testo è riuscito solo in parte, vuoi per evidenti oggettive esclusioni dal testo di alcune discipline di settore, vuoi per il mancato scioglimento di alcune contraddizioni ed incertezze, da tempo caratterizzanti la materia e fonti di non pochi tentennamenti per gli operatori del diritto (ad esempio, in tema di clausole vessatorie).

Infine, il problema della tutela giudiziaria dei consumatori rispetto alle questioni “minime” (small claims) è rimasto senza soluzione così come, più in generale, il problema della effettività della tutela degli interessi dei consumatori come classe era rimasto ancora da affrontare.

In ogni caso, sia chiaro che nessun testo legislativo in materia, per quanto tecnicamente raffinato e socialmente avanzato, poteva e potrà da solo supplire e sostituirsi agli unici elementi che potrebbero assicurare maggiore tutela delle istanze dei cittadini altrimenti privi di difesa: una coscienza etica dei produttori, da un lato, e, dall’altro, una maggiore consapevolezza dei consumatori della loro natura, del ruolo e della funzione nel circuito produttivo.

La breve e frammentaria ricognizione che precede induce alla conclusione che anche il Codice del consumo non poteva e non può costituire quella summa, unica ed esaustiva, della materia in esame, ma solo il punto di partenza per la sistemazione di un settore sempre in grande fermento legislativo ed operativo.

Jobs Act / Corte Costituzionale sulle indennità in caso di licenziamento illegittimo

La Corte Costituzionale ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, co. 1, del Decreto Legislativo n. 23/2015 sul contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, nella parte in cui determina in modo automatico l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato.

È quanto preannunciato in un comunicato stampa dalla Corte stessa con riguardo alla disciplina del cd. contratto a tutele crescenti, che ha modificato le tutele per il licenziamento illegittimo per i lavoratori assunti a partire dal 7 marzo 2015.

Il comunicato riferisce che la Corte ha dichiarato illegittimo l’articolo 3, co. 1, del suddetto D.Lgs. 23/15 “nella parte che determina in modo rigido l’indennità spettante al lavoratore ingiustificatamente licenziato”: criterio che, secondo la Corte, è contrario ai principi di ragionevolezza e di uguaglianza.

Pur in difetto delle motivazioni della sentenza, dal predetto comunicato si ricava che la Corte ha tralasciato alcuni dei profili di sospetta legittimità proposti dal Tribunale di Roma, come l’esiguità e il carattere non dissuasivo dell’indennizzo previsto dal decreto ovvero la disparità di trattamento tra i lavoratori con contratto a tutele crescenti ed altre categorie di lavoratori dipendenti, soffermandosi invece sul meccanismo di determinazione dell’indennizzo.

Con riferimento alla misura dell’indennità, si deve ipotizzare che come conseguenza della rimozione del meccanismo automatico di calcolo della stessa vi sia l’affidamento di tale compito al Giudice, chiamato a scegliere tra il minimo e il massimo dell’indennità previsti dalla legge. Criteri questi originariamente fissati per il licenziamento che fosse dichiarato ingiustificato, in 4 e 24 mensilità di retribuzione, anche se il recente Decreto Dignità (dello scorso agosto) li ha elevati a 6 e 36 mensilità.

Ora, il Giudice del lavoro si troverà a decidere secondo il suo prudente apprezzamento? Il Jobs Act, proprio in quanto escludeva qualsiasi discrezionalità dell’organo giudicante, nulla aveva previsto sul punto. Si può presumere che il Giudice dovrà far applicazione dei noti e storici criteri di cui all’art. 8 della legge n. 60471966, invocati dalla legge anche con riguardo ai contratti a termine illegittimi.

A questo punto, è lecito osservare che la pronuncia della Corte Costituzionale finisce per attribuire una rilevanza imprevista alle recenti modifiche introdotte dal Decreto Dignità. Infatti, dette modifiche sembravano aver un impatto più simbolico che altro, almeno per ora, essendo rinviato l’aumento più consistente (quello del massimo da 24 in 36 mensilità) solo nel caso di lavoratore a tutele crescenti con una anzianità di almeno 12 anni, ossia dal 2027 in poi.

Al contrario, con l’intervento della Corte sembrerebbe che sin da subito un lavoratore licenziato possa ricevere un indennizzo fino a 36 mensilità. Indennizzo che, nello schema legislativo precedente, poteva essere concepibile solo in caso di lavoratore con almeno 12 anni di anzianità.

Non si può non rilevare il paradosso che ne deriva: mentre il Jobs Act voleva ridurre gli imprevisti e dare certezza al datore di lavoro di fronte al “rischio” di un licenziamento illegittimo, la situazione che si è andata determinando per effetto del combinato disposto (del Decreto Dignità e della sentenza della Corte Costituzionale) vede, da un lato, ancora come marginali i casi di possibile reintegrazione ma, dall’altro, appare ampliato lo spazio risarcitorio che, nel caso di indennizzo economico per il lavoratore illegittimamente licenziato, diviene addirittura più elevato di quello previsto dall’art. 18 St.Lav. come novellato dalla Legge Fornero.

Consumerismo: Europa chiama Italia

Da molti anni il consumerismo ha trovato casa in Europa e, sul binario del treno europeo, è giunto anche in Italia.

Il consumerismo, cui facciamo riferimento, è identificabile nell’insieme di opinioni, movimenti, proteste, denunce ed azioni propositive, studi ed attività di lobbing, nonché norme e regolamenti attuati in difesa del cd. consumatore.

Consumerismo, quindi, come movimento di massa? Consumerismo, club di privati utopisti? Consumerismo, come mera tecnica di normazione nelle mani di pochi specialisti? Consumerismo, operazione strumentale di etero-controllo del mondo imprenditoriale sulle istanze più radicali dei cittadini fruitori delle merci? Consumerismo, come associazionismo di anonimi invasati?

Plausibilmente, un po’ di tutto, qualcosa di meno e molto di più. Per questo, vale la piena chiedersi quando, dove e come nasce il consumatore, nel senso giuridico attuale del lemma (persona fisica che si procura o utilizza beni o servizi per il soddisfacimento di esigenze personali o della famiglia,  al di fuori della propria attività professionale e comunque non perseguendo scopi di tipo imprenditoriale).

Quando si parla di diritto dei consumatori o più in generale, di consumatore, ci si riferisce ad un fenomeno piuttosto recente.

La sua scoperta e successiva affermazione avviene nei paesi occidentali, man mano che essi raggiungono gli stadi del capitalismo avanzato, vale a dire solo nel corso del ventesimo secolo.

In questi paesi, più che gli approfonditi studi di economisti e sociologi sono le embrionali organizzazioni spontanee di consumatori a richiamare l’attenzione dei legislatori sul problema del consumo, soprattutto attraverso campagne di stampa volte a segnalare le più gravi storture dell’attività imprenditoriale nella ricerca del profitto, nonché a perseguire il controllo della qualità dei prodotti, il contenimento dei prezzi, il rafforzamento del potere contrattuale del consumatore.

Così, non sorprende il fatto che il movimento dei consumatori abbia origine negli Stati Uniti d’America, ove il capitalismo monopolistico ed oligopolistico è più profondamente radicato.
Nel ventesimo secolo il mondo economico statunitense è stato
scosso dal movimento dei consumatori almeno in tre periodi: la prima volta, agli inizi dello scorso secolo, il movimento fu provocato dall’aumento dei prezzi (in particolare delle sostanze alimentari e farmaceutiche); la seconda volta, a cavallo degli anni ’30, la protesta dei consumatori dipese da fattori quali lo sbalzo in alto dei prezzi al consumo nel pieno della depressione economica e si evidenziò nella nascita della Consumer Union (Unione dei Consumatori); il terzo movimento, intorno alla metà degli anni ’60, è il risultato di una complessa convergenza di circostanze, tra le quali una delle più importanti è senza dubbio il contrasto che si è venuto a creare tra la prassi abituale del commercio e gli interessi a lungo termine dei consumatori.

Proprio negli anni dell’ultimo movimento dei consumatori di matrice americana, il movimento si estende ai paesi europei.

Sorgono associazioni, riviste, opuscoli; si scrivono articoli e si diffondono trasmissioni radiofoniche e televisive sul problema dei consumatori; vengono istituiti organismi amministrativi a tutela del consumatore in Francia, in Inghilterra, in Svezia e in Olanda.

In Italia, viceversa, ove nel medesimo periodo esistono solo alcune spontaneistiche associazioni, si registra una scarsa sensibilità ai problemi del consumo.
Peraltro, non mancano strumentalizzazioni del fenomeno; esse sono sia politiche, in quanto i  detentori del potere non si fanno scrupoli ad utilizzare il consumerism per fini demagogici; sia economiche, infatti le imprese, attraverso le ricerche di marketing, possono conoscere meglio i gusti dei consumatori ed adeguare ad essi la loro produzione.

In realtà, questa strumentalizzazione sortisce anche qualche effetto positivo, almeno per quel che riguarda la produzione dei beni di consumo.

Infatti, vengono immessi nel mercato prodotti sempre più sicuri, meno pericolosi, meno dannosi per la salute e per l’ambiente.
La fondazione del Consiglio danese del consumatore, nata nel 1947, rappresenta la prima organizzazione privata dei consumatori.

Su tale modello, alla fine degli anni ’50, analoghe associazioni iniziarono a fiorire in altri paesi occidentali.

Ma, come si diceva, fu solo verso la fine degli anni ’60 che i movimenti dei consumatori cominciarono ad influenzare in qualche modo i governi europei, incoraggiando nuove proposte di legge ed ottenendo l’istituzione di enti amministrativi ad hoc.

Fermentano iniziative, manifestazioni, denunce, ma anche azioni propositive volte alla tutela sempre più incisiva del consumo. In questo contesto concorrono a tale risultato, le associazioni dei consumatori, le associazioni degli imprenditori, i sindacati, i partiti politici, le cooperative.

La Comunità europea inizia ad occuparsi di tutela dei consumatori soltanto negli anni ’70, allorché i Capi di Stato dei Paesi europei, riuniti a Parigi decidono di potenziare il Fondo sociale europeo, di istituire un Fondo regionale, di chiedere alla Commissione di approntare programmi per la protezione dell’ambiente e dei consumatori, al fine di promuovere l’azione comunitaria oltre gli stretti confini delle relazioni economiche.

Il Trattato di Roma non prevedeva la categoria dei consumatori, né precipue norme di tutela.

Negli anni ’70 i primi diritti dei consumatori ricevono un significativo riconoscimento con l’approvazione da parte del Consiglio d’Europa della Convenzione europea, con risoluzione n. 543 del 1973 (Carta europea di protezione dei consumatori).

Con tale testo, frutto delle istanze fondamentali in materia e modello per molti ordinamenti nazionali, il Consiglio ha previsto un ampio programma di interventi nel settore.

La Carta, precisata la nozione di consumatore, individua quattro diritti fondamentali:

a) alla protezione ed all’assistenza dei consumatori, con un agevole accesso alla giustizia;

b) al risarcimento del danno sopportato dal consumatore;

c) all’informazione ed all’educazione;

d) alla rappresentanza in numerosi organismi e la possibilità di esprimere direttive a livello di scelte politiche ed economiche inerenti la disciplina dei consumi.

Nel 1973 venne anche istituito un “Comitato consultivo dei consumatori” (nel 1989 denominato Consiglio consultivo dei consumatori), con la funzione di trasmettere alla Commissione i punti di vista dei consumatori.

Segue nei medesimi anni un fermento di iniziative di approfondimento e di studio e sulla scorta di simili premesse, la CEE dà inizio ad un intensa attività legislativa di carattere specifico.

Nel 1975 viene emanata una significativa risoluzione (Risoluzione del Consiglio 14 aprile 1975) volta ad armonizzare le iniziative assunte fino allora in favore dei consumatori.

Con la Risoluzione del Consiglio del 15 dicembre 1986, la politica per la tutela e la promozione degli interessi del consumatore viene considerata in rapporto alle altre politiche comuni affinché se ne tenga conto negli interventi degli organismi comunitari.

L’Atto unico europeo, con cui si è integrato il Trattato di Roma, in vigore dal 1 luglio 1987, ha rafforzato il ruolo del Comitato economico e sociale, che ha competenze in materia di protezione dei consumatori.

Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992, ha previsto un titolo apposito, dedicato alla protezione dei consumatori. Con tali disposizioni, l’Unione si è attribuita competenze specifiche in materia, in quanto “contribuisce al conseguimento di un livello elevato di protezione del consumatore”.

Quanto alla politica comunitaria degli interessi dei consumatori, l’Unione Europea ha elaborato il primo piano generale di azione triennale (1990-1992) per la protezione dei consumatori, rivolto ad adottare provvedimenti in materia di salute e di sicurezza per aggiornare e migliorare la legislazione comunitaria nel campo delle garanzie dei prodotti; ciò al fine di orientare i produttori a fabbricare articoli più sicuri.

Il secondo piano generale (1993-95) tende ad elevare la protezione dei consumatori al rango di vera e propria politica comunitaria ed ha quindi aperto nuovi orizzonti agli organi della Comunità.

Nel 1994 la Commissione europea ha approvato, altresì, due documenti di rilevante importanza: il libro verde sulle garanzie dei beni di consumo ed i servizi di assistenza ai clienti ed il libro verde sull’accesso dei consumatori alla giustizia.

Con il Trattato di Amsterdam (1997) l’impegno della Comunità è volto, come sancito nell’art. 153, a “promuovere gli interessi dei consumatori e ad assicurare un livello elevato di protezione”.

È in tale contesto che viene adottato il piano di azione per la politica dei consumatori 1999-2001, che definisce tre grandi settori di intervento: a) la rappresentanza e l’istruzione dei consumatori, organizzando un miglior dialogo fra le associazioni e fra i consumatori e le imprese; b) la salute e la sicurezza dei consumatori, adattando la legislazione in maniera da garantire prodotti più sani e servizi più sicuri; c) gli interessi economici dei consumatori.

Dal 2002, con Comunicazione della Commissione del 7 maggio 2002 al Parlamento Europeo, al Consiglio, al Comitato economico e sociale europeo ed al Comitato delle regioni (“Strategia per la politica dei consumatori 2000-2006”), tenendo conto dell’allargamento dell’Unione Europea ed al fine di sfruttare il potenziale del mercato interno, si è constatato che i consumatori necessitano di regole semplici ed uniformi, di misure di informazione e di educazione più accessibili, nonché di meccanismi di tutela più efficaci.

Di qui, nel triennio 2003-2006, la strategia della politica dei consumatori si è posta tre obiettivi: un elevato livello di protezione dei consumatori, l’applicazione effettiva di tali regole di protezione, la partecipazione delle organizzazioni dei consumatori alle politiche comunitarie.

Infine, nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (Nizza, 7 dicembre 2000) all’art. 38 si sancisce che: “Nelle politiche dell’Unione è garantito un livello elevato di protezione dei consumatori”, con ciò “costituzionalizzando” il diritto del consumatore in quanto tale alla sua tutela.

Decreto Dignità 8 / Legge di conversione

A seguito dell’approvazione del Senato del 7 agosto 2018, è stata pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 186 dell’11 agosto 2018, la Legge n. 96 del 9 agosto 2018 di “Conversione in legge, con modificazioni, del Decreto legge 12 luglio 2018 n. 87, recante disposizioni urgenti per la dignità dei lavoratori e delle imprese (c.d. Decreto Dignità)”.

Il provvedimento definitivo si articola come segue:

Capo I Misure per il contrasto al precariato;

Capo I bis Misure finalizzate alla continuità didattica;

Capo II Misure per il contrasto alla delocalizzazione e la salvaguardia dei livelli occupazionali;

Capo III Misure per il contrasto del disturbo da gioco d’azzardo – divieto di pubblicità per giochi e scommesse;

Capo IV Misure in materia di semplificazione fiscale – superamento di redditometro, spesometro e split payment;

Capo V Disposizioni finali e di coordinamento – Società sportive dilettantistiche.

Nell’impianto giuslavoristico, la legge di conversione ha sostanzialmente confermato le novità introdotte dal Decreto legge, già diffusamente esaminate nei ns. precedenti post.

In materia contributiva, si annovera la conferma dell’esonero contributivo del 50%, sino al 2020, per i datori di lavoro che assumeranno giovani sino ai 35 anni di età (in luogo dei 30 originariamente previsti).

Viene reintrodotto l’utilizzo dei voucher (che erano stati definitivamente aboliti), limitati ad una durata massima di dieci giorni e destinati alla retribuzione di pensionati, disoccupati, studenti fino ai 25 anni, nei settori turismo, agricolo e degli enti locali.

Sono confermate sanzioni rigide per le imprese beneficiarie di aiuti di Stato che trasferiscano la propria attività o parte di essa al di fuori dell’Unione Europea, nei cinque anni successivi all’ottenimento del beneficio. Nell’ipotesi esaminata, l’azienda decadrà dal beneficio ottenuto e risulterà destinataria di sanzioni economiche il cui importo andrà dalle due alle quattro volte quanto ottenuto a titolo di aiuto di Stato.

Nel provvedimento è prevista una parziale definizione della questione relativa agli insegnanti provvisti del solo diploma magistrale (recentemente, in proposito, il Consiglio di Stato aveva precluso l’insegnamento alla categoria ritenendo il titolo insufficiente e prorogando i contratti in essere sino al 30 giugno 2019).

L’intervento legislativo prevede l’indizione di una procedura concorsuale straordinaria riservata alla predetta categoria di insegnanti e ai laureati in scienze della formazione primaria, in possesso di requisiti minimi di servizio presso le scuole statali, che andranno così a coprire in parte i posti vacanti nella scuola dell’infanzia e nella scuola primaria.

Quanto al gioco d’azzardo: “slot” e “videolottery” saranno muniti obbligatoriamente di lettori di tessera sanitaria in modo tale da impedire il gioco ai minorenni. In caso di violazione, sono previste sanzioni per € 10.000,00, per ogni dispositivo non a norma. Viene confermato il divieto di pubblicità, sia diretta che indiretta, avente ad oggetto giochi o scommesse con vincite in denaro, con la previsione di sanzioni, in caso di violazione, non inferiori a € 50.000,00 e, comunque, dal 5% al 20% del valore della sponsorizzazione.

In ambito fiscale, la Legge conferma il rinvio dell’obbligo di fatturazione elettronica per i distributori di carburanti sino a gennaio 2019 e proroga per tutto il 2018 la facoltà prevista per le aziende di compensare crediti nei confronti delle P.A. con eventuali debiti iscritti in cartelle esattoriali.

Infine, il provvedimento definitivo conferma lo stop al redditometro, il rinvio dello spesometro a fine febbraio 2019, l’abolizione (appena introdotta) della scissione dei pagamenti, cd. “split payment”, per i professionisti nei confronti delle P.A.

Decreto Dignità 7 – Rischio Riforma: pochi rinnovi e nessun effetto deterrente contro i licenziamenti illegittimi

Con l’entrata in vigore del cd. Decreto Dignità le eterne opposte fazioni del ns. agone politico (i fautori della nuova norma, da un lato, e i contrari, dall’altro) hanno iniziato a duellare, senza tuttavia offrire chiarezza e trasparenza, forse senza neppure troppa consapevolezza della reale portata della nuova disciplina.

In ogni caso, se da un lato si è compreso che un effetto sulla gestione delle imprese il provvedimento lo ha avuto o lo avrà senza dubbio, dall’altro appare utile indagare se le novità introdotte hanno o avranno una qualche reale incidenza sulla vita dei lavoratori.

 

In primis, si rammenti la riduzione della durata massima consentita dei contratti a termine da 36 mesi a 24 o a 12 senza causale e, appunto, la reintroduzione della causale per i contratti superiori a 12 mesi.

Anche nell’ottica dei lavoratori, va detto che un contratto che duri meno (24 mesi anziché 36 mesi) può̀ essere solo penalizzante per il dipendente, che vedrà̀ così ridursi la prospettiva della durata del suo rapporto di lavoro, senza avere alcuna certezza che in questo modo si favorisca la stipula di contratti a tempo indeterminato.

 

Con riguardo alla cd. reintroduzione delle causali, neppure questo appare un provvedimento idoneo a combattere il “precariato”.

Infatti, l’effetto più probabile è l’aumento dell’utilizzo di contratti a termine inferiori a 12 mesi senza necessità di apporre causale e, solo nel caso di soddisfazione datoriale, la trasformazione in un rapporto a tempo indeterminato. Nel caso contrario, il rapporto a tempo finirà prima e senza possibilità di rinnovi acausali. Un altro effetto possibile potrebbe essere il ritorno in auge dei co.co.co. per ovviare all’ostacolo della apposizione della causale.

Anche in questo caso la riforma non sembra, allo stato, idonea a modificare significativamente il panorama del cd. precariato.

 

Ed ancora. Quanto alla indennità per il licenziamento ingiustificato, anche in questo caso le modifiche sono state agitate, da entrambe le fazioni contendenti, come capaci di cambiare i destini dei lavoratori o delle imprese, ma anche su questo punto con mera finalità di propaganda partigiana e senza badare molto alla sostanza delle cose.

Gli aggravi introdotti sulle due indennità risarcitorie (la minima e la massima)possono essere giudicati in vario modo ma, se la minima (da 2 a 4 mesi) oggettivamente non sembra in grado di cambiare la vita delle persone, la massima (da 24 a 36 mesi) si appalesa come più efficace e gravosa.

Ma, a guardare il provvedimento in controluce, occorre evidenziare come il lavoratore che possa rivendicare la indennità massima prevista , ad oggi, “non esiste”, in quanto la misura della indennità è legata all’anzianità̀ del lavoratore.

Infatti, per poter invocare il diritto ad una indennità di 36 mensilità occorrerebbe che il lavoratore (si badi bene, assunto a tutele crescenti) vanti almeno 18 anni di anzianità̀.

Pertanto, la nuova disciplina è applicabile solo a chi sia stato assunto a tutele crescenti, ossia dal 7 marzo 2015, il che vuol dire che l’effetto (più minaccioso e forse più efficace) della intera riforma (Decreto Dignità) potrebbe iniziare a sentirsi davvero solo a partire dal marzo 2027 in poi, ovverosia dopo che i primi assunti a tutele crescenti avranno maturato almeno 12 anni di anzianità̀ e potranno quindi, se del caso, beneficiare dell’aumento dell’indennizzo.

Fino a quella data si potrà invocare la nuova norma ma nessun lavoratore avrà diritto a beneficiare dell’aggravio della sanzione, che inizia a produrre i suoi effetti su lavoratori con anzianità superiore ad almeno 12 anni.

 

Insomma, una riforma di grande clamore ma dagli scarsi effetti immediati.

Responsabilità del notaio per omessa verifica di iscrizioni ipotecarie

Il notaio che, chiamato a stipulare un contratto di compravendita immobiliare, ometta di accertarsi dell’esistenza di iscrizioni ipotecarie e di pignoramenti sull’immobile, può essere condannato al risarcimento per equivalente commisurato, quanto al danno emergente, all’entità della somma complessivamente necessaria perché l’acquirente consegua la cancellazione del vincolo pregiudizievole, la cui determinazione deve essere rimessa al giudice di merito. (massima ufficiale)

Cassazione civile, sez. III, 15 Giugno 2018, n. 15761. Est. Antonella Di Florio

 

SENTENZA

Svolgimento del processo

  1. N.G. evocò in giudizio dinanzi al Tribunale di Taranto (sezione distaccata di Martina Franca) il notaio A. domandando che fosse dichiarata la sua responsabilità professionale per non essersi accertato della libertà da iscrizioni gravanti sul bene immobile da lei acquistato mediante suo rogito, e che fosse conseguentemente condannato al risarcimento del danno subito, quantificato nella somma che aveva dovuto pagare per onorare il residuo mutuo ed ottenere la cancellazione dell’ipoteca che era risultata ancora gravante sul bene.

Il Tribunale accolse parzialmente la domanda, dichiarando il notaio responsabile della negligenza professionale dedotta ma escludendo la condanna al risarcimento del danno nella misura richiesta.

  1. La Corte d’Appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, adita dalla R. per la riforma del capo della sentenza che aveva respinto la domanda risarcitoria, accolse l’appello incidentale del notaio escludendo del tutto che potesse riscontrarsi la responsabilità professionale riconosciuta dal primo giudice.
  2. N.G. ricorre per la cassazione della predetta sentenza, affidandosi a due motivi.

L’intimato ha resistito con controricorso, proponendo altresì ricorso incidentale sulla statuita compensazione delle spese di lite.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

 

Motivi della decisione

  1. Con il primo motivo la ricorrente deduce, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1176, 2230, 2232, 1228, 1175, 2055 e 1476 c.c., n. 3, e art. 1483 c.c.: lamenta che la Corte territoriale aveva ritenuto che non rientrasse fra i doveri di diligenza professionale del notaio, nell’ambito delle attività preparatorie dell’atto da stipulare, la verifica della veridicità delle informazioni aliunde pervenute, ed assume che ai sensi dell’art. 1228 c.c., egli doveva ritenersi responsabile anche dell’attività delle figure ausiliare di cui si era avvalso.

1.1 Con il secondo motivo deduce, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione degli artt. 1218, 1223, 1224, 115 e 116 c.p.c.: lamenta l’erronea valutazione delle prove con riferimento al “dovere di consiglio” cui il professionista era tenuto in relazione alle risultanze documentali e censura la sentenza, in relazione al rigetto dell’appello principale da lei proposto, assumendo che dalle emergenze istruttorie risultava chiaramente che per definire la pendenza debitoria del venditore, nel frattempo fallito, ed ottenere la cancellazione dell’ipoteca iscritta sul bene aveva dovuto pagare una ingente somma a favore della banca per l’estinzione del mutuo, circostanza che il notaio non aveva neanche contestato. Aggiunge, al riguardo, di aver fornito prova documentale dell’avvenuto pagamento del debito residuo e delle spese sostenute per l’eliminazione dell’iscrizione ipotecaria che costituivano, complessivamente, l’entità del risarcimento richiesto.

  1. I motivi devono essere congiuntamente esaminati e sono entrambi fondati. Questa Corte, con orientamento consolidato, ha affermato che “in tema di responsabilità professionale del notaio, qualora egli non adempia correttamente la propria prestazione, compresa quella attinente alle attività preparatorie (tra cui il compimento delle visure catastali ed ipotecarie), la responsabilità contrattuale sussiste nei confronti di tutte le parti dell’atto rogato, se da tale comportamento abbiano subito danni e purchè non lo abbiano esonerato da tali attività”. (cfr. Cass. 14865/2013; Cass. 12482/2017)); e che “il rapporto professionale che intercorre tra notaio e cliente si inquadra nello schema del mandato in virtù del quale il professionista è tenuto ad eseguire personalmente l’incarico assunto ed è pertanto responsabile ai sensi dell’art. 1228 c.c., dei sostituti ed ausiliari di cui si avvale, dei quali deve seguire personalmente lo svolgimento dell’opera, con conseguente sua responsabilità esclusiva nei confronti del cliente danneggiato” (cfr. in motivazione Cass. 20825/2009).

2.2 La Corte territoriale, nel riformare la sentenza del Tribunale, ha escluso la responsabilità professionale del notaio, assumendo:

a. che egli aveva fatto indagini sulla libertà da pesi dell’immobile, avendo ricevuto la missiva (a firma del notaio Migliori da Roma in data 2.12.1986), in cui si affermava essere intervenuto il consenso, da parte del Credito Fondiario Spa, alla cancellazione dell’ipoteca iscritta circa un anno prima (cfr. pag. 5 sentenza);

b. che nel contratto di vendita, rogitato il 17.7.1987, era stata inserita una dichiarazione del venditore che garantiva la piena proprietà del bene, la libertà da iscrizioni pesi ed oneri comunque pregiudizievoli, con la precisazione che “qualora se ne riscontrassero saranno cancellate a sua cura e spese”;

c. che infine, il “dovere di consiglio”, pur rappresentando il contenuto essenziale della prestazione professionale notarile, doveva ritenersi limitato a “questioni tecniche cioè problematiche che una persona non dotata di competenza specifica non sarebbe in grado di percepire, ma non può essere dilatato fino al controllo di circostanze di fatto il cui accertamento rientra nella normale prudenza” (cfr. pag. 6 sentenza).

2.3. Con tali statuizioni i giudici d’appello hanno fatto scorretta applicazione dei principi sopra riportati, in quanto non risulta dimostrato (dal notaio onerato) che una verifica dell’effettiva cancellazione dell’ipoteca sia stata effettuata in tempi ravvicinati rispetto alla data del rogito in modo da avere certezza dell’effettiva libertà del bene; nè risulta che dell’eventuale esito negativo sia stato dato atto nel contratto di vendita con la segnalazione della persistenza dell’iscrizione ipotecaria, unica condizione che avrebbe realizzato validamente il trasferimento di responsabilità delle conseguenze pregiudizievoli del rogito sullo stesso acquirente in quanto egli, consapevole della condizione del bene, avrebbe potuto apprezzare il rischio dell’operazione negoziale con diretta ed esclusiva ascrivibilità dell’eventuale danno sul venditore (cfr. al riguardo Cass. 21792/2015).

Nè, in tale situazione, assume rilievo scriminante per il notaio l’avvenuto pagamento del prezzo prima del rogito perchè la richiesta risarcitoria è riferita alla somma aggiuntiva che la R. è stata costretta a pagare al fine di rendere l’immobile acquistato libero dall’iscrizione esistente; nè la circostanza può essere idonea a sollevare il professionista dal dovere di effettuare seriamente è tempestivamente tutte le attività preparatorie per le quali il cliente ripone nella sua funzione il massimo affidamento.

2.4. E, tanto premesso, anche la censura relativa alla violazione delle norme indicate nella rubrica del secondo motivo risulta fondata, in quanto il risarcimento richiesto è riferito ad un danno provato dalle emergenze istruttorie (fra cui la documentazione tempestivamente prodotta dalla ricorrente), non esaminate dalla Corte territoriale in ragione dell’accoglimento dell’appello incidentale del notaio.

  1. Il ricorso principale deve essere, dunque, accolto e quello incidentale rimane logicamente assorbito.

La sentenza deve essere cassata con rinvio alla Corte d’Appello di Lecce in diversa composizione che dovrà riesaminare la controversia attenendosi ai seguenti principi di diritto: “Il notaio che, chiamato a stipulare un contratto di compravendita immobiliare, ometta di accertarsi dell’esistenza di iscrizioni ipotecarie pregiudizievoli sull’immobile, può essere condannato al risarcimento del danno consistente nel pagamento della somma complessivamente necessaria per la cancellazione del vincolo, la cui determinazione deve essere rimessa al giudice di merito”.

“L’attività preparatoria che rientra nei doveri di diligenza dell’attività notarile deve essere svolta in tempi utili a garantire la corrispondenza dell’esito delle ricerche effettuate con le condizioni del bene che vengono descritte nell’atto, sia in ragione della necessità di assicurare la serietà e la certezza degli effetti tipici di esso, sia in funzione della realizzazione sostanziale della funzione di pubblico ufficiale”.

La Corte di rinvio deciderà anche in ordine alle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, accoglie il ricorso principale e dichiara assorbito quello incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia per un nuovo esame della controversia alla CA di Lecce in diversa composizione anche per la decisione sulla spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2018.

 

 

Legge n. 205/2017 / Retribuzione solo in modalità tracciata – Valore firma su busta paga

Dal 1° luglio 2018 i datori di lavoro ed i committenti non potranno più corrispondere ai lavoratori la retribuzione per mezzo di denaro contante, indipendentemente dalla tipologia del rapporto di lavoro instaurato. I datori di lavoro sono tenuti a corrispondere ai lavoratori la retribuzione e/o compenso solo mediante pagamenti con modalità tracciabili, a prescindere dall’ammontare dell’importo versato, anche se si tratta di semplici anticipazioni (art.1, comma 910, L. n.205/2017).

Rapporti di lavoro esclusi.

La norma – art. 1, co. 910 e 912 L. n. 205 del 27 dicembre 2017 – esclude alcuni rapporti di lavoro dal divieto di pagamento in contanti delle retribuzioni:

  • i rapporti di lavoro instaurati con la Pubblica Amministrazione di cui all’art.1, co. 2, D.Lgs. 165/2001;
  • i rapporti di lavoro domestico;
  • i rapporti di lavoro occasionale autonomo ex art. 2222 c.c.;
  • i tirocini;
  • le borse di studio.

Comunque, anche con riguardo a tali tipologie di rapporto, nel caso in cui la retribuzione o il compenso siano superiori ai 2.999,99 vige il divieto di pagamento in contante. Il trasferimento di denaro contante superiore alla citata soglia è vietato, anche se effettuato con più pagamenti, singolarmente inferiori alla soglia ma che appaiono artificiosamente frazionati.

Rapporti di lavoro inclusi.

La preclusione prevista dalla norma all’uso del contante, in materia di pagamento delle retribuzioni di lavoro, riguarda qualsiasi rapporto di natura lavorativa, indipendentemente dalle modalità di svolgimento della prestazione, sia essa autonoma o subordinata. Sono inclusi i rapporti di lavoro instaurati in qualsiasi forma dalle cooperative con i  propri soci.

Sanzioni.

Il pagamento della retribuzione effettuato con denaro in contante comporterà l’applicazione, da parte degli organi di vigilanza, di una sanzione amministrativa pecuniaria consistente nel pagamento di una somma da 1.000,00 a 5.000,00 Euro. Con la nota prot. n.5828 del 4 luglio u.s., l’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha affermato che “il riferimento all’erogazione della retribuzione – che per lo più avviene a cadenza mensile – comporta l’applicazione di tante sanzioni quante sono le mensilità per cui si è protratto l’illecito”.

Modalità di pagamento.

Il legislatore ha previsto le seguenti modalità di pagamento:

  • bonifico bancario o postale sul conto del lavoratore identificato da codice IBAN;
  • pagamenti elettronici;
  • pagamento in contanti presso lo sportello bancario o postale dove il datore di lavoro ha aperto un conto corrente di tesoreria con mandato di pagamento;
  • assegno consegnato al lavoratore o, in caso di impedimento, ad un suo delegato.

L’Ispettorato Nazionale del Lavoro chiarisce anche che “per consentire l’effettiva tracciabilità dell’operazione eseguita il datore di lavoro dovrà conservare le ricevute di versamento anche ai fini della loro esibizione agli organi di vigilanza”.

Valore della firma del lavoratore sulla busta paga.

Oggi viene definitivamente sancito dall’art. 1, co. 912, L. n. 205/2017 che la firma apposta dal lavoratore sulla busta paga non costituisce prova dell’avvenuto pagamento della retribuzione.

Con ciò si conferma definitivamente quanto più volte già affermato dalla Giurisprudenza di legittimità, ossia che la sottoscrizione “per quietanza” o “per ricevuta”, apposta dal lavoratore alla busta paga, non implica, di per sé, in maniera univoca, l’effettivo pagamento della somma indicata nel medesimo documento, e pertanto non è da ritenersi prova di tale pagamento.

Le molteplici responsabilità del Geometra

Come per ogni categoria di liberi professionisti, anche per quella dei Geometri l’ordinamento giuridico ha previsto una stringente disciplina delle responsabilità che investe sia l’ambito civilistico che deontologico della professione, sino a lambire l’aspetto penalistico.

Tali rigorose previsioni normative sono giustificate dal contatto del professionista con la committenza, per lo più costituita da soggetti sprovvisti di competenze tecniche che si rivolgono al Geometra affidandosi totalmente alla sua diligenza, preparazione e perizia.

Il Codice Civile, al fine di tutelare questi soggetti (alias, i committenti), ritenuti presuntivamente le parti deboli del contratto, ha disciplinato, all’art. 2230 c.c., la relazione tra il professionista e il suo cliente, configurandola come un contratto d’opera intellettuale, regolamentato dagli articoli 2229 e ss. c.c., nonché dalle norme di cui agli articoli 2222 e ss. c.c. in quanto compatibili.

La rilevanza pubblicistica delle professioni intellettuali è evidenziata dal fatto che la legge prevede un esame di stato il cui superamento è prodromico all’esercizio della professione ed individua quelle professioni per l’esercizio delle quali è necessaria l’iscrizione ad un Albo professionale (ai sensi dell’art. 2229 c.c.).

Più concretamente, basti pensare che, secondo quanto previsto dall’art. 2231 c.c., in assenza della regolare iscrizione del geometra all’Albo previsto dalla legge, il professionista non potrà esigere il pagamento del compenso.

Diversamente, l’eventuale cancellazione del professionista dall’Albo, che sia intervenuta durante lo svolgimento del contratto, comporta la risoluzione del medesimo e la remunerazione del professionista in proporzione solo all’utilità del lavoro compiuto.

A rimarcare la rilevanza che l’ordinamento ricollega all’iscrizione all’Albo, per la tutela sia dell’affidamento dei committenti che del decoro della categoria professionale, si sottolinea che la mancata iscrizione all’Albo comporta anche la responsabilità penale per esercizio abusivo della professione ex art. 348 c.p.

In sintesi, dunque, per comprendere la responsabilità – meglio sarebbe dire, le responsabilità – del Geometra, si deve premettere che il rapporto che lo lega al cliente è un contratto d’opera (art. 2222 c.c.), che si realizza quando il professionista si obbliga a compiere, a fronte di un corrispettivo, un’opera o un servizio con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente.

Il professionista, quindi, al contrario del lavoratore subordinato, svolge la prestazione richiesta in piena autonomia, secondo la propria indipendenza di giudizio e mirando alla realizzazione delle esigenze del committente.

Conseguenza di una simile autodeterminazione è che il Geometra incaricato, in quanto libero professionista e lavoratore autonomo, risponde personalmente e direttamente della propria attività.

Da ciò discende il dovere di curare scrupolosamente la propria preparazione, tenendosi aggiornato, al fine di fornire una prestazione esatta non solo dal punto di vista della diligenza ma anche da quello della perizia.

In altri termini, l’ordinamento non ammette carenze nella preparazione tecnica del professionista e non tollera disattenzioni in merito alla specifica diligenza richiesta.

Ma vi è di più. Nel contratto di prestazione di opera intellettuale stipulato con un committente privato, la scelta del Geometra si basa sul cd. intuitus personae, vale a dire sulla “fiducia” strettamente personale, che il primo ripone nella persona fisica del professionista.

Questo non implica che il professionista non possa avvalersi del supporto di altri soggetti – la legge prevede infatti espressamente che tale collaborazione sia possibile e consentita, salvo diverse disposizioni del contratto o degli usi e qualora non sia incompatibile con l’oggetto della professione (art. 2232 c.c.) – ma soltanto che anche l’attività dei sostituti e degli ausiliari sarà sottoposta alla direzione e responsabilità del Geometra incaricato.

Pertanto, il professionista ha il dovere non solo di curare scrupolosamente la propria preparazione, ma anche di scegliere responsabilmente i soggetti che lo assistono nell’attività commissionatagli.

***

Alla luce delle numerose competenze proprie del Geometra secondo la Legge professionale (R.D. 11 febbraio 1929, n. 274, art. 16, nonché degli altri ruoli che possono essere rivestiti dal Geometra  moderno (a titolo esemplificativo, quelli discendenti dalla normativa sulla sicurezza sui luoghi di lavoro, ex D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81) nonché del fatto che l’opera del professionista tecnico concerne necessariamente interessi pubblici (basti pensare all’interesse inerente la sicurezza di un fabbricato o a quello inerente la sicurezza del posto di lavoro), è naturale che il Geometra rischi di incorrere in responsabilità di varia natura.

In estrema sintesi, la responsabilità del geometra (come quella di ogni professionista tecnico) può essere: civile; amministrativa; penale; disciplinare.

Tra tutte, quella contro la quale il professionista tecnico può impattare più facilmente è la responsabilità civile, di seguito sintetizzata.

Innanzitutto, occorre premettere che la giurisprudenza è solita suddividere le obbligazioni – ossia il rapporto giuridico in base al quale una parte, il cd. debitore, è tenuta ad una prestazione, suscettibile di valutazione economica, nei confronti di un’altra parte, cd. creditore – in:

  • obbligazioni di mezzi, in cui il debitore è tenuto a svolgere diligentemente la propria prestazione indipendentemente dal raggiungimento dello scopo prefissato dal creditore;
  • obbligazioni di risultato, in cui il debitore è tenuto alla realizzazione dello scopo perseguito dal creditore.

La Giurisprudenza in materia riconduce l’obbligazione del professionista nella categoria delle obbligazioni di mezzi: vale a dire, il cliente non potrà pretendere che il professionista ottenga il risultato ma potrà esigere che egli adotti la diligenza che la singola fattispecie richieda usando tutto il proprio bagaglio d’esperienza e cognizioni onde tentare di risolvere al meglio il problema.

Alla luce di ciò, si comprende come l’obbligazione di mezzi venga definita anche “obbligazione di diligenza”.

Il professionista sarà, dunque, considerato in colpa quando, nell’espletamento della propria prestazione, ometta la necessaria diligenza e, dunque, quell’insieme di doverose cautele che dovrebbero caratterizzare il suo comportamento in relazione alla natura del singolo rapporto ed alle circostanze di fatto che lo caratterizzano.

Per quanto riguarda le obbligazioni relative all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza del professionista deve valutarsi a norma dell’art. 1176, secondo comma, che disciplina la cd. diligenza qualificata, che ha specifico riguardo alla natura dell’attività espletata, e in virtù della quale il professionista risponde anche per colpa lieve.

Di contro, se la prestazione implica la soluzione di problemi di speciale difficoltà, il professionista non risponde dei danni se non per dolo o colpa grave (art. 2236 c.c.).

In assenza di una interpretazione univoca della locuzione “problemi di speciale difficoltà”, vengono generalmente presi in considerazione sia l’impegno intellettualmente richiesto – che deve essere superiore a quello del professionista medio – sia la natura della prestazione stessa.

Tuttavia, la Giurisprudenza tende ad applicare questa norma (art. 2236 c.c.) in via residuale e solo ai casi di imperizia, non anche a quelli di negligenza e imprudenza, per contemperare l’attenuazione della normale responsabilità in capo al professionista che nelle fattispecie di cui all’art. 2236 c.c. è tenuto al risarcimento del danno unicamente per dolo o colpa grave.

A ben vedere, in ogni caso, gli artt. 1176, secondo comma, e 2236 c.c. esprimono un concetto unitario in base al quale il grado di diligenza deve essere valutato con riguardo alla difficoltà della prestazione effettuata e la colpa del professionista consiste nell’inosservanza della diligenza richiesta nel caso di specie.

In definitiva, il professionista risponde del proprio inadempimento:

  • anche per colpa lieve, qualora non abbia espletato, con la dovuta diligenza, la prestazione, pur trovandosi di fronte ad un caso ordinario;
  • solo per colpa grave o dolo, qualora la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà e quindi quando l’esecuzione della prestazione richieda una perizia superiore a quella ordinaria della categoria.

La nozione di colpa grave in campo professionale comprende, a mero titolo esemplificativo:

  • ignoranze incompatibili con il grado di preparazione che una certa professione richieda;
  • ogni imprudenza che dimostri grave superficialità per i beni primari che il cliente affida alle cure del professionista.

La responsabilità per colpa deriva dunque da:

  • negligenza, ossia incuria o disattenzione;
  • imperizia, ossia da ignoranza di cognizioni tecniche od inesperienza professionale;
  • imprudenza, ossia assenza della doverosa e preventiva riflessione;
  • inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline.

Fermo quanto sopra, va anche detto che la posizione della Giurisprudenza circa l’inserimento dell’obbligazione del professionista tecnico nelle obbligazioni di mezzi ovvero in quelle di risultato non è univoca.

Contrariamente alle professioni “classiche”, la difficoltà di inquadrare l’obbligazione del professionista “tecnico” nella categoria delle obbligazioni di mezzi derivava dal fatto che, molto più che nelle altre professioni, nella prestazione del professionista tecnico v’è una sostanziale coincidenza tra la prestazione ed il risultato voluto dal committente (l’opera).

Tuttavia, la Corte di Cassazione ha stabilito che, indipendentemente dal fatto che l’obbligazione del professionista tecnico sia considerata obbligazione di mezzi ovvero di risultato, il regime di responsabilità risulta essere sempre il medesimo per cui l’inadempimento, oltre che totale o dovuto a incuria o disattenzione, consiste generalmente nell’imperizia, ossia nell’errore determinato da ignoranza di cognizioni tecniche o da inesperienza professionale, sia quando il professionista risponde solo per dolo o colpa grave ex art. 2236 c.c., sia quando – secondo le regole comuni – deve rispondere anche di colpa ex art. 1176, comma 2, c.c. (Cass. civ., sez. un., 28 luglio 2005, n. 15782).

In conclusione, si precisa anche che, in presenza di responsabilità contrattuale, dunque per inadempimento, sul creditore – in questo caso il committente – graverà l’onere di provare l’esistenza del contratto e di dedurre l’inadempimento del professionista, mentre sul debitore – il professionista – graverà l’onere di provare che l’inadempimento è conseguito ad un’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile (ex art. 1218 c.c.).

La solitaria e pervasiva responsabilità del CTU

Sembra ormai consolidato il principio di responsabilità dei professionisti, chiamati con sempre maggior frequenza a rispondere del proprio operato e della esatta esecuzione della prestazione richiesta.

A tal proposito merita un’attenzione specifica la figura del professionista-consulente tecnico d’ufficio (CTU) (nominato dal giudice ex art. 61, co. 1 c.p.c.) e la particolare attività di supporto che egli svolge nell’ambito della giustizia, dove non si può più prescindere dagli essenziali contributi scientifici di consulenti con determinate competenze tecniche.

Infatti, l’esito pratico di molte cause è legato all’andamento ed alle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio. Pertanto, il corretto adempimento del mandato giurisdizionale affidato al CTU – che di solito si concreta nella redazione della relazione peritale – forma spesso oggetto di attenta valutazione da parte degli operatori del processo.

Il consulente tecnico d’ufficio svolge il ruolo di ausiliario del giudice in un rapporto fiduciario, qualora si renda necessaria una particolare conoscenza tecnica, per il compimento di singoli atti o per tutto il processo. Il giudice, infatti, per dipanare le infinite questioni tecniche che i casi giudiziari gli sottopongono ha necessità di avvalersi di qualcuno (un esperto) che gli fornisca la regola (tecnica) di giudizio (da sé non conoscibile), in base alla quale valutare poi i fatti accertati secondo diritto.

Poiché questa è la funzione del CTU nel processo, egli è stato definito l’ “occhiale” del giudice.

Ma proprio perché egli riveste la somma e delicata funzione appena descritta, il CTU è esposto a diversi profili di responsabilità nell’adempimento del proprio mandato giurisdizionale. In particolare, la violazione da parte del CTU dei compiti assegnati dal Giudice o l’inesatta esecuzione dell’incarico conferito comportano l’incombenza di almeno tre fattispecie di responsabilità: la responsabilità disciplinare, quella penale e quella civile.

 

Su quest’ultima (spesso, la più insidiosa) intendiamo attirare l’attenzione del lettore. Si tratta della responsabilità che obbliga il CTU a risarcire i danni arrecati alle parti a causa della propria condotta, regolata dall’art. 64 cod. proc. civ. e dagli artt. 1218, 1176, 2043 e segg. cod. civ.

In particolare, si abbia chiaro da subito che la norma in oggetto (art. 64, co. 2 c.p.c.) prescrive che il CTU sia tenuto in ogni caso a risarcire i danni causati alle parti nell’esecuzione dell’incarico ricevuto.

Con riguardo alla natura della responsabilità, ancorché vi sia in argomento una contrastata lettura delle norme, si ritiene di poter affermare che trattasi di responsabilità di natura extracontrattuale.

Ciò premesso, l’analisi si sposta su tre punti focali da approfondire: a) il grado di colpa necessario a far rilevare la responsabilità civile del CTU; b) se sia applicabile la limitazione di responsabilità ex art. 2236 c.c.; c) quali siano i danni risarcibili.

 

  1. A) Difatti, “non intercorrendo alcun rapporto contrattuale tra la parte ed il Consulente Tecnico d’Ufficio, a carico di quest’ultimo può ipotizzarsi unicamente una responsabilità di natura extracontrattuale, a norma dell’art. 64 cpc, sicché alla parte incombe l’onere di provare: 1)la condotta dolosa o gravemente colposa del CTU; 2)il danno ingiusto; 3) il nesso causale tra l’operato del CTU ed il lamentato danno” (si vedano: Tribunale di Modena n. 1672/2012, ma anche Cass. Civ 11471/92 che ha qualificato la responsabilità ex art. 64 c.p.c. come “responsabilità aquiliana da fatto illecito del consulente”).

Tuttavia, il CTU – stando alla lettera dell’art. 64 co. 2 c.p.c. – sembra rispondere civilmente dei danni causati nell’esercizio della sua attività anche per colpa lieve, prevista non solo dall’art. 2043 c.c., ma anche dall’art. 64 secondo comma c.p.c. che stabilisce: “il consulente tecnico è in ogni caso tenuto a risarcire i danni causati alle parti dall’esecuzione dell’incarico ricevuto”.

Pertanto, per intenderci, la responsabilità dell’ausiliario non è limitata alle sole ipotesi di falsa perizia, né agli illeciti commessi con dolo o colpa grave, ma può discendere da qualsiasi condotta illecita del CTU, e quale che sia l’elemento soggettivo di essa (dolo, colpa grave, colpa lieve). Ciò sulla scorta del fatto che il dato normativo espressamente stabilisce che il consulente è tenuto al risarcimento del danno causato alle parti “in ogni caso”.

Tra le più frequenti fattispecie di danno conseguenti alla condotta del consulente tecnico di ufficio possono annoverarsi:

– il rifiuto o ritardo del deposito della relazione senza giustificato motivo;

– la soccombenza di una delle parti. Il CTU che redige una relazione viziata da grossolani errori materiali e di concetto che viene a costituire il presupposto della decisione del magistrato (può essere, per esempio, una conseguenza dell’aver assunto l’incarico senza avere l’adeguata specializzazione nel settore oggetto della consulenza richiesta).

– le spese sostenute da una parte per ottemperare a un provvedimento del giudice basato su una consulenza rivelatasi errata;

– le spese sostenute da una parte per dimostrare l’erroneità delle conclusioni a cui perviene la consulenza;

– il corrispettivo percepito dal consulente per una prestazione rivelatasi inutile (il Ctu che redige una relazione palesemente incompleta – e quindi inutile – che impone la rinnovazione della consulenza. In questi casi le parti possono legittimamente richiedere dal Ctu il compenso percepito).

– la perdita della cosa controversa e dei documenti (Ctu che smarrisce documenti originali e non più riproducibili contenuti nei fascicoli di parte);

– l’omissione nell’eseguire accertamenti irripetibili;

– la sostituzione del Ctu e di rinnovo della consulenza dovute ad imperizia.

 

  1. B) Il secondo approfondimento reca verso la non condivisibilità della tesi che vorrebbe applicabile alla responsabilità civile del CTU la limitazione di cui all’art. 2236 c.c., vale a dire la sua esclusione nelle ipotesi di incarichi di particolare complessità.

Infatti, assumere che il CTU possa essere oggetto di una agevole esclusione di responsabilità appare in netta incongruenza con il dato normativo, raramente così chiaro e forte, laddove all’art. 64, co. 2 c.p.c. si afferma che il CTU è tenuto al risarcimento del danno procurato alle parti in ogni caso.

Senza dire che la norma in esame (art. 2236 c.c.) è norma eccezionale del sistema, senza possibilità di interpretazione estensiva o applicazione analogica e che essa è specifica del rapporto tra committente e prestatore d’opera intellettuale.

È doveroso concludere (e ben ponderare allorché si sia incaricati di svolgere la funzione di CTU in ambito processuale) che il consulente del giudice, se con il suo operato arreca un danno alle parti del processo per effetto di una mera condotta colposa (alias, del tutto involontaria), risponde del danno provocato, quale che sia stato il grado di detta colpa (e quindi anche se ha agito con colpa lieve) senza poter beneficiare di alcuna esimente o riduzione di responsabilità.

  1. C) Arrivati sin qui, resta da chiedersi quale sia la misura dei danni risarcibili da parte del CTU per effetto della propria condotta.

Ma, civilisticamente parlando, non può non adottarsi il criterio vigente in materia: la misura di tale danno sarà quella che risulterà rigorosamente provata in giudizio da parte di chi lamenti di aver subito il predetto danno.

A livello casistico, i pregiudizi che dovrà risarcire un CTU, incorso in errore professionale e responsabilità civile, potranno consistere:

  • nel ritardo con il quale è stata accolta la propria domanda, in relazione alla necessità di rinnovare la consulenza;
  • nelle conseguenze negative derivanti dall’accoglimento dell’altrui domanda, fondato su una consulenza infedele o erronea;
  • nelle spese sostenute per l’adozione di provvedimenti ritenuti indifferibili da una consulenza erronea;
  • nelle spese sopportate per l’adozione di provvedimenti ritenuti indifferibili da una consulenza erronea (ad esempio, la messa in sicurezza di un fabbricato);
  • nelle spese sostenute per dimostrare – ad esempio attraverso altre indagini peritali – l’erroneità della consulenza d’ufficio.

Nel caso in cui la relazione del tecnico dovesse essere dichiarata nulla, il CTU dovrà restituire poi quanto versato dalle parti che costituisce pagamento di indebito.

***

La moltitudine dei temi accennati ci indurrà a tornare sull’argomento, come la variegata responsabilità di cui è portatore solitario il CTU dovrebbe indurre i tecnici agognanti di nomina da parte dei giudici alla prudenza del proprio operato, all’impiego della massima perizia durante il corso delle operazioni peritali ed all’eventuale richiesta di supporto del giudice, ogni qual volta possibile.

Infine, la solitudine della propria responsabilità potrebbe essere ulteriormente spezzata da una idonea polizza professionale che dia respiro alla azione peritale e sollievo (non solo spirituale) nel caso di aggressione della parte che si sia ritenuta lesa per una inidonea condotta processuale del CTU.

Preventivo obbligatorio in forma scritta

Modifica normativa pleonastica o mutamento culturale per le libere professioni?

 

Con la Legge 4 agosto 2017, n. 124, “Legge annuale per il mercato e la concorrenza”, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n. 189 del 14 agosto 2017, entrata in vigore il 29 agosto 2017, il Legislatore è intervenuto nuovamente sulla disciplina e sullo svolgimento delle prestazioni professionali, a cominciare dalla fase di conferimento dell’incarico, in un settore che, dal 2006 ad oggi, è stato oggetto di un vivace dibattito politico-sociale ma anche di numerose e mai risolutive innovazioni normative.

Il provvedimento in esame si inserisce, difatti, nel solco di più datati interventi legislativi, avviati dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con Legge n. 248/2006, nota anche come Legge Bersani, mediante il quale fu operata l’abrogazione delle disposizioni di legge e regolamentari che prevedevano l’obbligatorietà delle tariffe fisse o minime nonché del divieto di concordare compensi collegati al raggiungimento degli obiettivi raggiunti.

La riforma Bersani rese possibile la pattuizione del compenso professionale tra professionista e cliente anche al di sotto dei minimi tariffari: pattuizione che prima era sanzionata con la nullità! Tuttavia, in mancanza di specifico accordo scritto sul punto, continuava ad applicarsi la tariffa, anche per quanto riguardava i minimi.

Successivamente, con l’art. 9, comma 1°, del D.L. n. 1/2012 veniva disposta espressamente l’abrogazione delle tariffe delle professioni regolamentate nel sistema ordinistico e, con la Legge di conversione n. 27 del 24 marzo 2012, veniva introdotto l’obbligo di rendere nota al cliente la misura del compenso del professionista sulla base di un preventivo di massima.

L’odierna riforma legislativa, ossia la novella del 4 agosto 2017, n. 124, ha introdotto una serie di disposizioni – in alcuni casi, come nella fattispecie esaminata, immediatamente operative – sulle professioni intellettuali, un tempo definibili “protette”, nell’ottica di incidere maggiormente sulla cd. libera concorrenza e sulla trasparenza del rapporto professionista-cliente.

Così, con la modifica dell’art. 9, comma 4° del D.L. n. 1/2012, da parte della Legge n. 124/2017, il Legislatore ha inserito per il professionista l’obbligo di formulare al cliente per iscritto [o in formato digitale] il cd. preventivo di spesa, precisando che: “Il compenso per le prestazioni professionali è pattuito, nelle forme previste dall’ordinamento, al momento del conferimento dell’incarico professionale. Il professionista deve rendere noto obbligatoriamente, in forma scritta o digitale, al cliente il grado di complessità dell’incarico, fornendo tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili dal momento del conferimento fino alla conclusione dell’incarico e deve altresì indicare i dati della polizza assicurativa per i danni provocati nell’esercizio dell’attività professionale. In ogni caso la misura del compenso è previamente resa nota al cliente obbligatoriamente, in forma scritta o digitale, con un preventivo di massima, deve essere adeguata all’importanza dell’opera e va pattuita indicando per le singole prestazioni tutte le voci di costo, comprensive di spese, oneri e contributi. Al tirocinante è riconosciuto un rimborso spese forfettariamente concordato dopo i primi sei mesi di tirocinio”.

Dunque, a decorrere dal 29 agosto di quest’anno, data di entrata in vigore della L. 124/2017, il professionista dovrà comunicare al cliente obbligatoriamente, in forma scritta o digitale, sia il grado di complessità dell’incarico, precisando tutte le informazioni utili circa gli oneri ipotizzabili, ivi inclusi i dati della polizza assicurativa professionale, sia il preventivo cd. di massima, che il professionista dovrà rendere al cliente anche in assenza di una specifica richiesta, e nel quale la misura del compenso dovrà essere adeguata all’importanza dell’opera e pattuita con l’indicazione, per le singole prestazioni, di tutte le possibili voci di costo.

Per ciascuna prestazione richiesta dal cliente, il professionista, dal 29 agosto 2017, è dunque tenuto ad indicare per iscritto o digitalmente ai clienti non solo il corrispettivo dell’attività professionale da svolgere ma anche le spese, come, ad esempio, gli esborsi anticipati per conto del cliente a titolo di bolli, diritti, F24, e i costi prevedibili ma non anticipati, quali trasferte, oneri e contributi vari, tra i quali il contributo previdenziale per il professionista iscritto a una Cassa professionale.

Tenendo altresì in debita considerazione che, ai sensi del secondo comma dell’art. 2233 c.c., il compenso deve essere determinato tenendo conto del decoro della professione.

 

Pertanto, la determinazione del compenso non potrà non tenere in considerazione questi due elementi: l’adeguatezza all’importanza dell’opera e la rispondenza al decoro professionale.

In questo senso, sorgono dubbi circa le eventuali ripercussioni, anche dal punto di vista deontologico e disciplinare, nel caso in cui, ad esempio, il tecnico elabori un preventivo, pattuendo un compenso immotivatamente esiguo, che svilisca la professione e generi concorrenza sleale rispetto ad altri professionisti, oltre che confusione tra i committenti.

Se, da un lato, la modifica normativa di quest’anno tenta di superare le perplessità suscitate dalla storica e più snella prassi dei conferimenti di incarichi verbali, sprovvisti di una espressa e precisa indicazione dell’ammontare del compenso, che esponeva il professionista ad eventuali contestazioni e recriminazioni, soprattutto al momento del pagamento, dall’altro, costituisce una garanzia per il committente contro eventuali pretese irragionevoli del professionista, anche in caso di mancata o parziale esecuzione della prestazione professionale.

Tuttavia, essa provoca non poche perplessità in relazione al contenuto effettivo del preventivo, seppur definito di massima.

Non può difatti negarsi che, nell’espletamento dell’incarico, sovente il tecnico debba far fronte ad attività e incombenze impreviste o imprevedibili che, proprio perché sottratte alla sua valutazione e previsione, non potrebbero essere inserite nel preventivo di massima, oggi imposto come obbligatorio sin dal primo vagito del cliente in studio.

Per questa ragione, si ritiene consigliabile l’inserimento, nel preventivo, di clausole di salvaguardia e garanzia quali, a mero titolo esemplificativo, la durata di validità del preventivo, le condizioni che impongano l’aggiornamento del documento, le fasi di lavorazione comprese e quelle escluse, le condizioni e le modalità di pagamento del corrispettivo e la previsione che gli eventuali scostamenti e le possibili variazioni che dovessero intervenire, dovranno essere, oltre che giustificati e legittimi, debitamente comunicati alla committenza.

Ebbene, se da un lato non può tacersi che, vertendosi in ambito di professioni altamente tecniche e specializzate, un eccessivo formalismo rischierebbe di tramutarsi in una mera elencazione di attività e costi, limitativa delle capacità proprie del professionista, sulle quali il cliente basa la sua scelta, è altresì innegabile che, nell’ottica dell’instaurazione di un rapporto di reciproca fiducia tra professionista e committente, la trasparenza e chiarezza sono principi di cui non può non auspicarsi la concreta attuazione.

Nella consapevolezza che gli interventi imprevisti demandati alla competenza del professionista incontrerebbero maggior condivisione e partecipazione nella committenza che abbia avuto effettiva e approfondita contezza della restante e più prevedibile parte dell’attività tecnica svolta.